R e p u b b l i c a I t a l i a n a
TRIBUNALE DI TRANI
In nome del Popolo italiano


Il Tribunale in composizione collegiale composto dai seguenti Magistrati:
• Dott. Vito Savino Presidente;
• Dott. Salvatore Grillo Giudice;
• Dott. Gaetano Labianca Giudice rel.;


Ha emesso la seguente:


SENTENZA


nella causa civile di primo grado, iscritta al n. 3372/05 R.G.A.C., posta in deliberazione all’udienza del giorno 26.9.2006 e vertente tra le seguenti parti:
ATTORI **** e **** Rappresentati e difesi in forza di mandato a margine dell’atto di citazione dall’Avv. G. D. L. del foro di Trani ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. G. D. Z. in Trani;
CONVENUTA Banca **** In persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. V. P., elettivamente domiciliata in Trani alla via M.n. 78;


OGGETTO: Azione di annullamento e di nullità di contratti d’acquisto di obbligazioni Argentina.


CONCLUSIONI DELLE PARTI:
come da verbale di udienza del 28.11.2006


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 27.12.2004, secondo le forme del rito ordinario, P. F. e P. I.M., premesso:




  • – di aver acquistato, in data 13 e 26.6.2001, presso la filiale della banca **** di Ruvo di Puglia, delle obbligazioni Argentina 99 – 04, per un controvalore di € 12.000,00;


  • – di essersi determinati all’acquisto esclusivamente a seguito di sollecitazione o attività di proposizione da parte dell’istituto proponente, che aveva valorizzato nel prefato titolo la più valida e remunerativa alternativa agli altri strumenti finanziari;


  • – che l’investimento in parola era stato prefigurato come privo di rischio, a capitale garantito, e senza il minimo accenno al fatto che si trattava invece di uno strumento finanziario altamente speculativo;


  • – che, recatisi in banca verso la fine del 2002, avevano appreso del “default” dei titoli in parola;


  • – che, nel concreto, era sussistente la responsabilità dell’istituto di credito per inesatte informazioni circa la natura dell’investimento realizzato, con l’abuso del loro basso livello di specifica competenza negli strumenti finanziari acquistati;


  • – che non erano stati ottemperati dalla banca gli obblighi inerenti la previa raccolta di informazioni da parte dell’investitore, al fine di poter valutare la “adeguatezza” dell’operazione conclusa rispetto alle sue caratteristiche soggettive;


  • – che risultava violato l’obbligo di correttezza e trasparenza sancito dall’articolo 21, comma 1, lettera A) del testo unico della finanza, posto che lo strumento finanziario era stato presentato come un prodotto dal rendimento elevato, senza alcun rischio correlato;


  • – che sussisteva palese conflitto di interessi, trattandosi di titoli che erano già in possesso della banca e di cui non nera stata fatta menzione nell’ordine di acquisto;


  • – che risultavano violati i doveri informativi previsti dall’articolo 21), comma 1, lettera B) del testo unico della finanza, stanti le inesatte informazioni in ordine al prodotto venduto;


  • – che risultava violato l’obbligo di diligenza (gravante sul professionista qualificato dalla professionalità finanziaria);

tutto ciò premesso, convenivano dinanzi all’intestato tribunale la Banca ****, onde sentire:




  1. “dichiarare l’invalidità e/o la nullità dei contratti di acquisto dei titoli Argentina – codice n. DE 0003089850 – stipulati il 13.6.2001 e 26.6.2001, ai sensi dell’art. 1418 c.c. in relazione all’art. 640 c.p. nonché ai sensi del combinato disposto degli artt. 1427 e 1439 c.c.;


  2. per l’effetto, dichiarare la risoluzione dei suindicati contratti di acquisto dei titoli Argentina stipulati il 13.6.2001 e 26.6.2001 per inadempimento della **** banca, per violazione delle norme di cui all’art. 21 del Dlgs n. 58/98 e 26, 27, 28, 29 del Reg. Consob, da considerarsi tutte norme imperative ex art. 1418 c.c.;


  3. condannare la banca **** in persona del legale rappresentante p.t. alla restituzione della somma di € 12.000,00 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dall’1.7.2001 all’effettivo soddisfo;


  4. condannare la banca **** in persona del legale rappresentante p.t., al risarcimento dei danno morale, da liquidarsi in via equitativa;


  5. condannare la banca alle spese e competenze del presente giudizio.”

Si costituiva la Banca ****, la quale deduceva la necessità del mutamento del rito, involgendo la domanda uno dei rapporti contemplati dall’art. 1 del Dlvo n. 5/03; nel merito, contestava la fondatezza delle avverse argomentazioni, osservando:




  • – che l’operatore di banca si limitò esclusivamente ad assecondare un investimento in strumenti finanziari progettato e richiesto esclusivamente dagli attori;
    – che quindi l’ordine di negoziazione era stato impartito dal cliente ad essa convenuta, che non aveva fatto altro che eseguire gli ordini senza alcuna attività di sollecitazione o di promozione;


  • – che gli furono chiaramente avvertiti dei rischi connessi ai prestiti obbligazionari in generale, e a quelli relativi ai titoli prescelti in particolare, avendo ricevuto il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari;


  • – che, ciò non pertanto, i clienti confermarono la scelta e conferirono l’ordine di negoziazione per iscritto, riconoscendo espressamente di essere stati “esaustivamente informati sulla natura sui rischi e sulle implicazioni dell’operazione riportata, e di averne richiesto l’esecuzione nella più completa consapevolezza”, come da documentazione allegata;


  • – che fu fatta compilare ai clienti la scheda profilo informativo di rischio, dal quale emergeva che gli attori avevano dichiarato di aver già effettuato investimenti in obbligazioni ad elevata speculatività (ad es. Fiat Finance & Trade, Republic of Brasil 9%), che avevano una propensione al rischio elevata e dagli obiettivi ambiziosi;


  • – che la banca svolse solo un’attività di ricezione di ordine, mentre il collocamento dei Bond Argentina venne effettuato dalla banca **** soggetto diverso e distinto da essa convenuta;


  • – che non aveva alcuna operazione in corso con il gruppo Argentina, per cui l’asserita violazione della norma relativa al conflitto di interesse non aveva alcun fondamento;


  • – che, invero, non sussisteva in capo alla banca alcun interesse diverso ed ulteriore rispetto a quello tipico del contratto di investimento ed estrinseco rispetto alla sua posizione negoziale;


  • – che, trattandosi dell’esecuzione di un ordine, non era neppure applicabile la normativa in materia di valutazione della adeguatezza dell’operazione, non essendovi discrezionalità della banca nell’eseguire l’ordine del cliente;

tanto premesso, richiedeva il rigetto della domanda di parte attrice.
All’udienza del 23.11.2005 il giudice della sezione distaccata di Ruvo di Puglia disponeva la cancellazione della causa dal ruolo ed il mutamento di rito.
Riassunto il giudizio con memoria ex art. 6 del D.lvo n. 5/03, depositata in data 28.12.2005 e notificata a controparte il 19.12.2005, la banca replicava con memoria ex art. 7 depositata in data 25.1.2006.
Con istanza di fissazione di udienza notificata, ex articolo 8 del Dlgs n. 5 del 2003, in data 30.1.2006, veniva richiesta al Giudice relatore designando la fissazione dell’udienza collegiale per la discussione della causa.
Il Presidente del Tribunale assegnava la causa al giudice relatore in data 17.2.2006.
Con decreto confermato all’udienza collegiale del 28 novembre 2006, depositate le memorie conclusionali, il Collegio si è riservato per la decisione, con termine per il deposito entro trenta giorni ai sensi dell’art. 16 del Dlgs. n. 5/03.


MOTIVI DELLA DECISIONE


Va premesso che l’attore ha dedotto la violazione dell’art. 27 Reg. Consob, che sotto la rubrica “Conflitti di interessi” recita: “gli intermediari autorizzati non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l’investitore circa la natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e l’investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto alla effettuazione dell’operazione…”.
Nella fattispecie all’esame del Collegio, si deve rammentare che la Consob (risposta a quesito n. DAL 97006042 del 9.7.1997) ha ritenuto insussistente il conflitto di interessi nel caso – come quello di specie – di negoziazione di titoli in contropartita diretta con il cliente, ove la compravendita si sia perfezionata sulla base di un ordine di acquisto dello strumento finanziario conferito espressamente e spontaneamente dal cliente, ammettendone l’astratta possibilità solo ove l’acquisto si sia perfezionato su sollecitazione dell’intermediario (che nella specie, è stata, come detto, esclusa) e nel caso in cui si provi che l’intermediario perseguiva scopi ulteriori e diversi rispetto alla realizzazione dell’interesse del cliente; il che, nel concreto, non è stato affatto dimostrato.
Peraltro, non va sottaciuto che la Banca 121, all’epoca, non aveva alcun rapporto di finanziamento con la Cerruti o la Fin.part, e ciò esclude di per sé che vi fosse nell’azione della Banca un fine ulteriore e diverso rispetto a quello della soddisfazione dell’attore, da tempo cliente della Banca.
Inoltre, nella fattispecie, non v’è stata alcuna prova sul fatto che la negoziazione dei titoli in questione sia stata preceduta da sollecitazione o proposta del funzionario della Banca, né che l’istituto di credito avesse un qualunque interesse a collocare le obbligazioni Cerruti, delle quali non era creditrice in forma diretta.
Deduce l’attore di aver inoltre sottoscritto il contratto sulla base di una falsa rappresentazione della realtà da parte del funzionario di banca preposto, il quale gli suggerì di sottoscrivere il contratto assicurandogli un alto rendimento ed un capitale garantito.
Tale affermazione risulta del tutto sfornita di prova, sia in ordine alla circostanza che il funzionario di banca fosse consapevole dello stato di prevedibile e successivo default o dissesto dei titoli in parola e dei requisiti dell’”essenzialità e riconoscibilità” dell’errore, a fronte del chiaro tenore letterale del documento sottoscritto, in cui il **** dà atto di essere stato “esaustivamente informato sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni dell’operazione riportata nel presente ordine e di aver richiesto l’esecuzione nella più completa autonomia”.
Quanto alla doglianza relativa all’omissione dei doveri di cui agli artt. 21 e ss. T.U.F., va premesso che, in generale, nell’ipotesi di acquisto dei titoli dagli investitori istituzionali destinatari dei private placement, i risparmiatori non restano privi di forme di tutela, ma quest’ultima si rinviene nelle norme riguardanti gli obblighi di comportamento gravanti sugli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento, costituite dagli artt. 21 e ss. del T.U. della finanza e la disciplina contenuta nel Regolamento Consob n. 11522/98. La fonte comunitaria di tali disposizioni è la Direttiva n. 93/22/CEE (in particolare, l’art. 11).
Si tratta pertanto di verificare se, nel caso di specie, siano state rispettate le regole di comportamento degli intermediari.
Invero, come per il collocamento, anche per la negoziazione di titoli occorre che:




  • – i clienti siano adeguatamente informati sulle operazioni poste in essere;


  • – venga assicurata al cliente la necessaria trasparenza, riducendo al minimo le situazioni di conflitto di interessi;


  • – vengano sconsigliate operazioni non adeguate all’investitore;


  • – gli strumenti finanziari negoziati siano coerenti con le esigenze finanziarie, la disponibilità economica, la propensione al rischio dei singoli investitori.

La norma di cui all’art. 21 (e in parte di cui agli artt. 22 e 23) t.u.f. pone a carico degli intermediari il dovere di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per la integrità dei mercati.
Tali clausole generali costituiscono gli standards basilari per garantire la chiusura e la necessaria elasticità del sistema, individuando i beni di carattere generale (interesse dei clienti; integrità dei mercati) sottesi alla disciplina.
La diligenza richiesta all’intermediario è quella specifica, esigibile dagli intermediari professionali del settore (art. 1176, secondo comma, del cod. civ.).
Sul punto, va rimarcato che la Banca ha documentato di aver consegnato al cliente la documentazione necessaria a renderli edotti della natura, delle caratteristiche e dei rischi dell’investimento; in particolare, lo stesso contratto sottoscritto dal cliente costituisce, nella specie, veicolo di informazioni sul piano dei contenuti dell’investimento.
Risulta, poi, dai documenti prodotti, che fu consegnato all’attore:




  1. il documento sui rischi generali dell’investimento;


  2. una copia dell’ordine di negoziazione degli strumenti finanziari.

Orbene, alla luce della documentazione consegnata, deve ritenersi che sia stato rispettato il requisito della forma scritta ad substantiam, sancito dall’art. 23, primo comma, d.leg. 58/98 (che stabilisce che “i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e l’inosservanza della forma scritta è sanzionata con la nullità”).
Venendo, adesso, al controllo dell’adeguatezza dell’operazione, va premesso che l’istituto bancario ha asserito di aver rispettato il principio della adeguatezza, soggettiva ed oggettiva, conformemente all’art. 11, della direttiva 93/22/Cee, che richiede all’intermediario finanziario di “… informarsi sulla situazione finanziaria dei clienti, sulla loro esperienza in materia di investimenti e sui loro obiettivi per quanto concerne i servizi richiesti”.
In proposito non è superfluo rammentare che la regola di condotta della c.d. adeguatezza, o “suitability”, riassunta nella nota espressione anglosassone “Know your customer rule”, impone all’intermediario di esprimere un giudizio sulla operazione, avuto riguardo ai criteri della “tipologia, oggetto, dimensione e frequenza”.
L’obiettivo perseguito nella disposizione di legge in esame – vale a dire “la possibilità di valutare se l’operazione dal cliente proposta o allo stesso suggerita sia compatibile con le sue capacità economiche” (v. Cass. n. 11279/97) – consiste nel garantire ai clienti le informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione, la cui conoscenza è necessaria al cliente per effettuare scelte consapevoli.
E’ quindi su tali principi che, trasfusi nel contratto di acquisto, dev’essere valutato il comportamento della banca, tenendo presente altresì che l’onere della prova, a norma dell’art. 23, comma sesto, del Dlgs. n. 58/1998, è invertito, incombendo sulla banca la prova di aver adempiuto con la specifica diligenza professionale richiesta ad un soggetto che opera nella qualità professionale di intermediario.
Ciò posto, a parere del Collegio, si deve escludere che la banca abbia agito, in relazione all’operazione in questione, in ossequio al combinato disposto degli artt. 28 e 29 del Reg. Consob n. 11522/98.
Invero, premesso che la funzione dell’intermediario nella collocazione sul mercato di strumenti finanziari non può limitarsi alla ricezione di un ordine di acquisto e nella sua esecuzione, ma che esso è obbligato ad apprestare una serie di condotte finalizzate a fornire informazioni all’interessato acquirente, idonee ad assicurare un investimento adeguato alle sue caratteristiche soggettive, va detto che nel contratto stipulato, manca del tutto il visto dell’operatore per l’adeguatezza dell’operazione.
Ora, è indubitabile che l’omissione, da parte dell’operatore/funzionario di banca, del giudizio di adeguatezza della singola operazione, costituisca grave violazione della norma imperativa di cui all’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/98, tenuto conto dell’importanza precettiva del predetto giudizio – imposto dal legislatore al fine di valutare se l’operazione dal cliente proposta, o allo stesso suggerita, sia compatibile con le sue capacità economiche – rispetto ad ogni contratto di acquisto stipulato dal risparmiatore.
Pertanto, l’obiettivo perseguito nella disposizione di legge in esame (vale a dire “la possibilità di valutare se l’operazione dal cliente proposta (o allo stesso suggerita) sia compatibile con le sue capacità economiche” (v. Cass. n. 11279/97), non risulta adeguatamente adempiuto dalla banca, laddove si consideri, da un lato, che risulta del tutto omesso il giudizio di adeguatezza dell’operazione e, dall’altro, che la banca non ha minimamente provato né chiesto di provare – come sarebbe stato suo onere – di aver regolarmente adempiuto la valutazione dell’adeguatezza dell’operazione per natura, dimensione, oggetto e frequenza.
Mancando del tutto la prova relativa all’espletamento del giudizio di adeguatezza sulla specifica operazione compiuta dal cliente, deve ritenersi che sia stata del tutto carente l’adeguata dimostrazione di aver adempiuto con la specifica diligenza professionale, richiesta ad un soggetto che opera nella qualità professionale di intermediario, l’espletamento di quegli specifici doveri informativi di cui agli artt. 21 e ss TUF, difettando il riscontro sulle informazioni specifiche che la banca avrebbe dovuto fornire in ordine alla singola operazione effettuata, (relative alla natura, alle caratteristiche, ai rischi dell’operazione), posto che si trattava, oltretutto, di operazione ad elevato rischio.
Non è sufficiente affermare che l’attore avesse effettuato precedenti investimenti in prodotti finanziari derivati e strutturati ed avesse dichiarato di attendersi rendimenti elevati, con forti oscillazioni; è evidente che la normativa dianzi indicata impone precisi doveri all’intermediario, che si riconnettono alla tutela del risparmiatore e all’integrità del mercato, e sono tali da imporre un giudizio di responsabilità allorquando manchi anche uno solo dei precisi doveri individuati dal legislatore.
Né può affermarsi che sia sufficiente ai fini della adeguatezza dell’operazione la circostanza che all’investitore sia stato consegnato il documento sui rischi generali dell’investimento, trattandosi di documento che non garantisce la conoscenza concreta ed effettiva del titolo negoziato che l’intermediario deve assicurare in modo da rendere il cliente capace di assumersi consapevolmente i rischi dell’investimento effettuato.
Nei limiti indicati deve dunque ritenersi accertato l’an debeatur della spiegata domanda.
Accertate le inadempienze dell’istituto di credito, occorre ora chiarire le conseguenze di tali violazioni. L’attore ha richiesto la declaratoria di annullabilità dei contratti; in via gradata, ha chiesto il risarcimento del danno per responsabilità della banca.
La giurisprudenza formatasi all’indomani della introduzione della disciplina TUF, e tra essa anche quella di questo Tribunale, accertate le violazioni, ha ripetutamente riconosciuto la nullità del contratto. Tuttavia tale conseguenza, in un recente ripensamento giurisprudenziale (Cass., sent. 19024/05; Trib. Modena, sent. 10.5.2006; Trib. Catania, sent. 5.5.2006; Trib Firenze, sent. 21.2.2006; Trib. Genova, sent. 2.8.2005; Trib Milano, sent. 25.7.2005; cfr Trib. Roma, sent. 31.3.2005; Trib. Genova, sent. 15.3.2005) ed in una recente ricostruzione dottrinale, non è apparsa più adeguata e corretta.
Si è correttamente evidenziato che vi è nullità di un contratto quando sia coinvolta la struttura e l’oggetto del contratto stesso, non invece condotte che si collocano nella fase delle trattative (o nella sua fase esecutiva) e sono finalizzate a “valutare la convenienza dell’operazione” (Cass. cit). In una ipotesi ricostruttiva teorica e nello sforzo, essenziale, di ancorare ad un sistema certo le regole poste a base della disciplina giuridica di un rapporto negoziale, vi è chi ha ricordato la tradizionale distinzione “tra regole di validità e regole di comportamento/responsabilità”, concludendo che solo la violazione delle prime è collegabile alla nullità del contratto.
Sempre la stessa dottrina ha evidenziato i pericoli di una confusione tra i due piani, anche di ordine probatorio, atteso che il giudizio di nullità è tradizionalmente un giudizio di diritto (dichiarabile anche d’ufficio), indifferente alla regola dell’onere della prova, mentre le ipotesi contemplate nell’art. 21 cit. attengono a regole comportamentali, la cui violazione va provata; ciò stride con una ricostruzione teorica, certamente corretta, che collega la nullità, cioè il giudizio di validità del negozio, alla sua struttura e contenuto. D’altronde, essendo dovere dell’interprete partire dal dato testuale della norma, subito si rileva che solo per la violazione della forma scritta l’art. 23 co. 1 TUF ha espressamente previsto la nullità del contratto, laddove nella stessa norma, al comma 6, altrettanto espressamente il Legislatore prevede che “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi previsti nel presente decreto spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.
Cioè è lo stesso Legislatore a considerare espressamente come la violazione alla “diligenza” richiesta all’intermediario sia sanzionata con l’azione risarcitoria, e l’ipotesi non può che riguardare quella “diligenza” di cui alla lett. a) dell’art. 21, esplicata nell’analitica descrizione degli obblighi informativi e quant’altro.
Si badi inoltre che anche la nullità prevista per la violazione della forma scritta, elemento che attiene alla struttura del contratto (artt. 1418 c. 2, 1325 n. 4 c.c.), deve essere eccepita dal cliente, avendo evidentemente optato il Legislatore per l’istituto della nullità cd. relativa, che indubbiamente costituisce un minus rispetto alla ordinaria nullità assoluta. Se ora si riconoscesse, quale conseguenza dell’inosservanza degli obblighi comportamentali, la nullità del contratto (da collocarsi nell’alveo della nullità assoluta in mancanza di ogni limitazione normativa), dovrebbe giungersi alla conclusione che essa, anche quando non costituisce petitum della domanda, può essere dichiarata d’ufficio: con la conseguenza che mentre la carenza di un elemento strutturale del contratto darebbe adito solo a nullità relativa, rilevabile dal solo cliente-investitore, la violazione di un obbligo comportamentale, peraltro incidente sulla fase delle trattative precontrattuali, determinerebbe invece la eliminazione d’ufficio di un rapporto sinallagmatico, a prescindere dunque dalla volontà dell’investitore, o comunque -per chi ritiene che la nullità assoluta non possa o debba essere sempre rilevata d’ufficio- da chi dimostri d’avere interesse (dunque non il solo investitore).
La conseguenza di per sé può persino non apparire rilevante, poiché, potrebbe obiettarsi, gli interessi tutelati dalla disciplina sono duplici, quello dell’investitore e quello del mercato finanziario, e quest’ultimo supera la sfera d’interesse nella mera disponibilità del privato, ma così non è.
Si è infatti già detto che i due interessi sono strettamente correlati, perché il mercato finanziario -indicazione astratta- comprende il singolo risparmiatore, il risparmio pubblico -somma di tutti i risparmi e risparmiatori- le società e strutture finanziarie operanti nel mercato. Se il singolo non ha ricevuto o non ha avvertito un danno è lo stesso mercato a non aver subito un danno. Ne discende che ove dal compimento di una operazione, pur in violazione delle norme comportamentali, il singolo non ha avvertito “disagi”, vuol dire che quella situazione non ha inciso in alcun modo sul mercato finanziario: non vi sarebbe allora alcun interesse da tutelare. Ma vi è di più, e cioè che in concreto l’operazione può essere tornata parimenti utile e vantaggiosa al cliente, nonostante la violazione delle norme regolamentari. Ebbene in tale ipotesi, ove si accedesse alla teoria della nullità, il Giudice, anche d’ufficio -o ad esempio su richiesta dello stesso intermediario- dovrebbe ugualmente dichiarare la nullità. Il risultato sarebbe aberrante. Probabilmente è proprio per evitare tali incongruenze che il Legislatore, persino in caso di carenza di uno degli elementi strutturali del contratto (la forma scritta), ha opportunamente ritenuto di tutelare l’interesse a mezzo sì della nullità, però a richiesta della parte (nullità relativa).
Per attività di intermediazione di valori mobiliari deve intendersi lo svolgimento di servizi finanziari, e tra essi l’art. 1 co. 5 colloca sia la negoziazione per conto proprio (lett. a), sia quella per conto terzi (lett. b), sia la ricezione e trasmissione di ordini nonché la mediazione (lett. e). Nell’ampiezza di tale attività è frequente che l’intermediario si limiti a procurare direttamente dal terzo l’acquisto di un prodotto finanziario, sorgendo così, oltre il sinallagma tra investitore e intermediario (sulla base di un rapporto di mandato), un sinallagma contrattuale tra terzo ed investitore (compravendita). Ebbene, se la violazione delle regole dell’art. 21 cit. riguarda, e non può che riguardare, il rapporto negoziale tra investitore ed intermediario, ciò come può giuridicamente riflettersi sul contratto di compravendita dei valori? Sulla base di quali elementi sarebbe possibile coinvolgere il terzo (parte del contratto di vendita), che può essersi comportato correttamente e in buona fede per quel che lo riguarda e che non è stato neppure coinvolto nella causa? Può obiettarsi che la situazione non è diversa dall’ipotesi, pur normativamente prevista, della nullità (relativa) per carenza di forma scritta. A tale obiezione possono muoversi due osservazioni. Emerge innanzitutto una responsabilità dello stesso terzo venditore, che pur sapendo che l’intermediario può eseguire l’operazione solo in forza di contratto scritto, ha parimenti venduto un prodotto finanziario per mezzo di soggetto senza valido mandato (scritto). La fattispecie inoltre può agevolmente rientrare nell’ipotesi di contratto stipulato da rappresentante senza poteri, con le conseguenze di cui all’art. 1398 c.c. E’ evidente allora che le fattispecie sono del tutto diverse, sia in ordine al vizio che inficia l’atto, sia in relazione alle conseguenze.
Emerge pertanto che la soluzione della nullità mostra tutti i suoi limiti e tale istituto, in riferimento alla tutela degli interessi protetti nella fase delle trattative, è incoerente ed ingiustificato, sia sul piano della ricostruzione teorica (con riguardo alla distinzione tra regole di validità e regole di comportamento/responsabilità), sia sul piano della idoneità del rimedio giuridico.
Come lucidamente è stato esposto dalla Corte di Legittimità nella sentenza n. 19054 del settembre 2005, la difficoltà a riconoscere una responsabilità precontrattuale discende dal timore che la tutela apprestata si è sempre appuntata sul cd. interesse negativo, cioè sul danno derivante dalla perdita ingiustificata di tempo, senza che il contratto sia più stato stipulato. Nel caso di stipulazione del contratto non vi sarebbe tutela avverso condotte illecite tenute dalla parte nella fase delle trattative. Tale timore tuttavia è oggi ampiamente superato, poiché una rivisitazione dei doveri delle parti nella fase precontrattuale -e della conseguente responsabilità- ha permesso di riconoscere tutela non al solo interesse negativo in senso tradizionale (la classica perdita di tempo), ma anche all’interesse positivo, il danno cioè arrecato alla parte dalla condotta illecita della controparte, e consistente nel minor vantaggio derivante dal contratto, pur concluso, a causa del comportamento dell’altro. L’appiglio normativo è individuato nell’ipotesi prevista dall’art. 1440 c.c., senza peraltro, può ritenersi, limitare la fattispecie alla sola condotta incidente intenzionale.
Se questa ricostruzione della tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale è corretta e condivisa, come ritiene questo Collegio, è ad essa che può farsi ricorso nel caso oggetto del presente giudizio.
Infatti in tale alveo può riconoscersi il danno subito dall’investitore per aver acquistato un prodotto inadeguato e, comunque, un prodotto finanziario meno vantaggioso di quello che avrebbe preso se adeguatamente informato e se, in generale, la banca avesse osservato tutti gli obblighi impostile nella fase precontrattuale, ispirati ai generali principi della buona fede e correttezza.
E sotto tale aspetto può aggiungersi che trova singolare sintonia l’inversione dell’onere della prova in ordine all’osservanza degli obblighi informativi e di condotta, gravanti appunto sull’intermediario.
Inversione giustificata evidentemente dalla superiore valenza degli interessi tutelati, dal carattere imperativo delle norme elaborate, in altre parole dalla fonte legale degli obblighi di condotta.
Resta invece onere della parte attrice provare il danno o chiederne la liquidazione equitativa nell’ipotesi in cui non sia determinabile nel suo preciso ammontare.
Ciò chiarito, nel caso di specie, non avendo trovato accoglimento la domanda di annullamento, non essendovi comunque prove sull’essenzialità e riconoscibilità dell’errore in cui è caduto il **** né tanto meno prove di raggiri posti in atto dal convenuto, ed accertata comunque la violazione delle regole di comportamento imposte dall’art. 21 cit e dalla sua disciplina esplicativa, avendo l’attore richiesto anche il risarcimento dei danni, è invece questa la domanda che merita accoglimento, con i chiarimenti appresso specificati.
Occorre aver presente che per le obbligazioni Cerruti vi è stata dichiarazione di default, ma ciò non significa che esse abbiano perso qualunque valore, sì da giustificare una quantificazione del danno nella misura pari all’importo investito.
E’ altrettanto certo che il default ha reso non più negoziabili quelle obbligazioni sul mercato e al momento della domanda esse non avevano possibilità di immediato rimborso.
Questo non vuol dire, come assume la convenuta, che non esiste danno o che comunque esso non possa essere provato.
Intanto, sul piano dell’interpretazione generale, la prova acquisita della inadempienza dell’intermediario ai propri obblighi di condotta e l’altrettanto oggettiva constatazione che le obbligazioni, alla loro scadenza, non siano state soddisfatte, rende altrettanto certa l’esistenza del danno e la responsabilità della convenuta.
E’ invece non agevole determinare il preciso ammontare di questo danno, ma ciò rientra nella previsione dell’art. 1226 c.c., per cui si rende necessario riconoscere il danno in forma equitativa, così come peraltro richiesto dallo stesso attore sin dall’atto introduttivo.
Fatta questa premessa, nel caso che ci occupa si ritiene che la valutazione equitativa sia relazionabile alle possibilità di recupero del credito del ****, ossia alla possibilità di rimborso delle obbligazioni Cerruti.
Non potendo invero escludersi che la curatela fallimentare della Fin.part provveda ad un rimborso sia pure parziale, delle obbligazioni, reputa il Tribunale che, tenuto conto anche dei tavoli conciliativi tra investitori e legali rappresentanti della procedura concorsuale, possa essere liquidato un danno nella minor somma dell’80% dell’intera somma investita.
Tale indice può essere addotto per la valutazione equitativa del danno, atteso che né l’attore ha portato elementi da cui desumere perdite ancora maggiori, né la banca ha indicato prospettive più vantaggiose per gli investitori.
Ne discende che il danno può valutarsi nella misura dell’80% dell’investimento, ossia in € 8.000,00, cui vanno aggiunti gli interessi nella misura legale dal 16.1.2002 (data dell’operazione) al soddisfo.
E’ appena il caso di rappresentare che, in considerazione del riconoscimento delle sole conseguenze risarcitorie derivanti dall’inadempimento della banca, le obbligazioni restano nella titolarità del sig. ****.
Sussistono giusti motivi, considerata la novità e complessità delle questioni trattate, per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.


P.Q.M.


il Collegio, definitivamente pronunciando nella causa promossa da **** contro la Banca ****, in persona del legale rappresentante p.t., così dispone:




  • – dichiara la banca responsabile della violazione delle norme disciplinanti gli obblighi degli intermediari finanziari nella prestazione di servizi di investimento e per l’effetto, condanna la *** al risarcimento del danno subito dal **** nella misura equitativa di € 8.000,00, oltre interessi nella misura legale dal 16.1.2002 al soddisfo;


  • – rigetta le domande di annullabilità del contratto perché non fondate;


  • – compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Così decisa in Trani, nella camera di consiglio del 26/09/2006


Il Presidente
dott. Vito Savino


Il Giudice estensore
Dott. Gaetano Labianca