CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezioni Unite
Sentenza n. 19014 dell’11 settembre 2007


( OMISSIS )


Motivi della decisione


l. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 10 e 14 c.p.c. e dei criteri per la determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione delle spese processuali, dolendosi altresì della violazione degli artt. 91 c.p.c. e 24 legge 13 giugno 1942 n. 794, nonché del decreto del Ministro della giustizia del 5 ottobre 1994. n. 585, recante l’approvazione della delibera del Consiglio nazionale forense del 12 giugno 1993, che stabiliva i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti ad avvocati e procuratori legali per le prestazioni giudiziali, in materia civile e penale, e stragiudiziali.
In sostanza la C. lamenta che la determinazione del valore della causa sia stata di volta in volta effettuata in ragione della sola parte della domanda contestata in quel grado del giudizio o della somma concretamente attribuita alla parte vittoriosa in quel grado; ed afferma che tale criterio è in contrasto in particolare con quanto prescritto dall’art. 14 c.p.c. secondo cui il valore delle cause relative a somme di denaro si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall’attore al momento iniziale della lite senza che esso possa subire riduzioni per la successiva delimitazione della materia del contendere.
La censura riguarda esclusivamente le spese relative al primo giudizio di rinvio, avente ad oggetto la debenza della rivalutazione monetaria sul credito originariamente azionato, nonché al successivo giudizio di cassazione ed al secondo giudizio di rinvio, aventi entrambi ad oggetto la sola determinazione delle spese di lite.


2. Il ricorso è infondato.


2.1. Nella citata ordinanza pronunciata all’udienza del 31 gennaio 2006 la Sezione Lavoro di questa Corte ha rilevato che la questione centrale posta dal ricorso riguarda la liquidazione delle spese in una causa iniziata dalla ricorrente, già dipendente di un ente locale, nei confronti dell’Inadel, cui poi è subentrato l’Inpdap ex art. 4 d.lgs. 30 giugno 1994 n. 479, per il pagamento della maggior somma richiesta a titolo di indennità premio di fine servizio e proseguita – dopo che sulla sorte e sugli interessi si era formato il giudicato favorevole alla ricorrente stessa – in ordine alla debenza della rivalutazione monetaria e successivamente alle sole spese di lite. Tale questione può quindi essere ricondotta al tema della liquidazione delle spese di giudizio a carico della parte soccombente secondo il criterio del decisum ovvero quello del disputatum.
In particolare l’ordinanza suddetta fa riferimento al contrasto di giurisprudenza insorto quanto ai criteri di liquidazione delle spese di lite nel giudizio proseguito solo per la loro quantificazione nei gradi precedenti, essendosi talora considerato l’autonomo valore della lite residuata (Cass. n. 19839 del 2004), talaltra il valore iniziale (Cass. n. 15874 del 2004) oppure, talaltra ancora, il primo scaglione in ogni caso (Cass. nn. 9359 del 2005, 20273 del 2004).
L’ordinanza quindi pone essenzialmente due questioni riguardanti rispettivamente la determinazione del valore di una controversia in base al disputatum o al decisum ed i criteri di liquidazione delle spese processuali di un giudizio proseguito per la sola liquidazione delle spese relative alle precedenti fasi.


2.2. Ancorché nella specie la vicenda processuale sia complessa perché, oltre al giudizio di primo grado, ci sono già stati un giudizio d’appello, due giudizi di cassazione e due giudizi di rinvio, il motivo di ricorso è però unico e riguarda l’esatta determinazione del rimborso delle spese di lite a carico dell’Istituto soccombente relativamente (non già all’intero processo, bensì) a tre distinte fasi del giudizio: la ricorrente si duole solo del fatto che il secondo giudice di rinvio (tribunale di Barcellona P.G.) abbia erroneamente quantificato: a) le spese di lite relative al primo giudizio di rinvio innanzi al tribunale Palmi che aveva per il resto confermato integralmente la sentenza del giudice di primo grado – pretore di Messina – di accoglimento parziale della domanda; b) le spese del successivo giudizio di legittimità che ha riguardato unicamente la questione delle spese di lite; c) le spese del giudizio innanzi al medesimo Tribunale, quale secondo giudice di rinvio, innanzi al quale la causa è parimenti proseguita solo per le spese di lite.
L’impugnata sentenza ha poi compensato le spese del giudizio d’appello, ma di ciò la ricorrente non si duole; né si duole del fatto che la medesima sentenza, che nel resto ha tenuto ferma la precedente sentenza del tribunale di Patti, non abbia reso un’espressa pronuncia quanto alle spese di lite del primo giudizio di cassazione che erano state parimenti compensate tra le parti dal tribunale di Patti.
Secondo la prospettazione difensiva della ricorrente il secondo giudice di rinvio, la cui sentenza è attualmente impugnata per cassazione, avrebbe errato – nella sua triplice liquidazione delle spese (primo giudizio di rinvio, successivo giudizio di cassazione, secondo giudizio di rinvio) – nel considerare il criterio del decisum in luogo di quello – asseritamene corretto – del disputatum.
La difesa della ricorrente ed in vero anche l’impugnata sentenza non considerano invece che – come emerge dalla menzionata ordinanza della Sezione Lavoro – in giurisprudenza si è affermato anche il criterio di determinazione delle spese di lite con riferimento al primo scaglione delle tabelle professionali allorché la controversia prosegua, come nella specie, solo per l’esatta determinazione delle spese stesse.


3. Giova preliminarmente premettere – al fine di ricostruire il quadro normativo di riferimento e di verificare l’ammissibilità della censura sotto il profilo della violazione di legge – che l’articolo unico della legge 7 novembre 1957, n. 1051 (Determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati e procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile) ha previsto che i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati e ai procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile sono stabiliti dal Consiglio nazionale forense con le modalità contemplate dall’art. 1 della legge 3 agosto 1949, n. 536, e relative agli onorari e alle indennità in materia penale e stragiudiziale. Disposizione questa che prescrive che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovute agli avvocati e ai procuratori in materia penale e stragiudiziale sono stabiliti ogni biennio con deliberazione del Consiglio nazionale forense, approvata dal Ministro di grazia e giustizia.
È stata così parificata la regolamentazione delle tariffe forensi nella materia civile e di quelle nella materia penale adottando per entrambe il criterio della ricezione della disciplina interna prodotta dal Consiglio nazionale forense.
In precedenza un analogo sistema previsto in generale per le tariffe forensi, consistente nell’approvazione del Ministro di grazia e giustizia delle determinazioni dell’associazione categoriale (art. 57 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, recante l’Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore), era stata derogata, quanto alle tariffe civili, dalla legge 13 giugno 1942, n. 794 (sugli onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile), invocata dalla difesa della ricorrente, che in apposite tabelle fissava – ex lege e quindi direttamente con atto di normazione primaria – gli onorari dovuti e ne regolamentava la disciplina ponendo tra l’altro, all’art 9, i criteri per la “determinazione del valore delle cause”, che è il profilo che interessa in questo giudizio, nonché, all’art. 24, l’inderogabilità di onorari e diritti stabiliti per le prestazioni dei procuratori e degli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati.
Il cit. art. 57 r.d.l. n. 1578/33 è stato dapprima espressamente sostituito dall’art. 3 d.lgs.lgt. 22 febbraio 1946, n. 170, con il richiamo recettizio – quanto agli onorari e alle indennità dovute agli avvocati ed ai procuratori in materia penale e stragiudiziale – della delibera del Consiglio dell’ordine degli avvocati e dei procuratori, approvata dal Ministro di grazia e giustizia, e poi modificato implicitamente dal cit. art. 1 della legge 3 agosto 1949, n. 536, nei termini sopra indicati.
Invece per le tariffe civili il sistema della legge n. 894/42 vedeva dapprima, nell’immediato dopoguerra, una regolamentazione provvisoria e contingente con la previsione di meri aumenti ex lege degli importi delle tabelle (del 70% ex d.lgs.lgt. 20 luglio 1944, n. 276, e dei 200% ex art. 1 d.lgs.lgt. .22 febbraio 1946, n. 170, cit.); poi interveniva la modifica della cit. legge n. 894/42 ad opera della legge 19 dicembre 1949, n. 957, che stabiliva nuove tabelle per gli onorari d’avvocato e per gli onorari e diritti di procuratore; e da ultimo è stata prevista l’uniformazione al sistema delle tariffe forensi in materia penale e stragiudiziale secondo quanto previsto dal citato articolo unico della legge 7 novembre 1957, n. 1051.


4. In attuazione di tale ultima legge è stato emanato il d.m. 28 febbraio 1958 dal Ministro di grazia e la giustizia di approvazione della deliberazione in data 15 febbraio 1958 del Consiglio nazionale forense, che stabiliva i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati e ai procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile.
Successivi analoghi decreti ministeriali hanno provveduto all’approvazione di ulteriori deliberazioni del Consiglio nazionale forense: D.M, 28 novembre 1960, D.M. 2 aprile 1965, D.M. 15 ottobre 1966. D.M. 30 maggio 1969, D.M. 25 maggio 1973, D.M. 23 dicembre 1976, D.M. 26 settembre 1979, D.M. 22 giugno 1982, D.M. 31 ottobre 1985, D.M. 24 novembre 1990, n. 392, D.M. 14 febbraio 1992 n. 238, D.M. 5 ottobre 1994 n. 585 e, da ultimo, D.M. 8 aprile 2004 n. 127.
Di questi decreti ministeriali quelli emessi dopo la legge 23 agosto 1988 n. 400, che all’art. 17 disciplina i regolamenti governativi e ministeriali, recano anche l’espressa qualificazione come regolamenti ministeriali. Si tratta quindi di una normativa subprimaria adottata con la tecnica del rinvio materiale recettizio: il decreto ministeriale si riempie di contenuto recependo una specifica delibera del Consiglio nazionale forense, così facendola propria ed elevandola al rango di normativa regolamentare.
Peraltro, già prima della cit. legge n. 400 dei 1988, si era riconosciuto che, pur in mancanza di un’espressa previsione m Costituzione, “una legge o un atto avente la stessa efficacia della legge formale possa attribuire ad un ministro la potestà di emanare norme regolamentari” (C. cost. n. 79 del 1970); l’idoneità di questa delega di normazione subprimaria è stata confermata successivamente dal cit. art. 17 della legge n. 400/88 che prevede la possibilità di emanare regolamenti ministeriali ove al Ministro la legge “espressamente conferisca tale potere” (cfr. C. cost. n. 165 del 1989).
Nella fattispecie il citato articolo unico della legge 7 novembre 1957, n. 1051, con il rinvio all’art. 1 della legge 3 agosto 1949, n. 536, prevede questo potere di ricezione delle delibere del Consiglio nazionale forense seppur nella forma dell’approvazione ministeriale di un atto che certamente non ha ex se valenza normativa generale, qual è la delibera del Consiglio nazionale forense. Dopo la legge n. 400/88 il decreto ministeriale di approvazione della tariffa forense ha assunto – come ricordato – la denominazione, per espressa autoqualificazione, di “regolamento”. La tecnica del rinvio materiale recettizio si è poi affinata perché dall’”approvazione” della delibera del Consiglio nazionale forense, allegata al decreto ministeriale (fino al D.M. 5 ottobre 1994 n. 585), si è passati da ultimo (D.M. 8 aprile 2004 n. 127) alla riproduzione nel decreto ministeriale, in allegato, del contenuto della delibera senza più fare menzione di “approvazione” alcuna.
Quindi per questa via la disciplina della tariffa forense in materia civile, penale e stragiudiziale adottata dal Consiglio nazionale forense assume valore di normativa non già primaria, bensì subprimaria e segnatamente regolamentare; cfr. C. cost. n. 339 del 1993 che, con riferimento al cit. d.m. 24 novembre 1990, n. 392, ha affermato che si tratta di “un atto evidentemente privo di forza di legge”, ossia non riconducibile alla normazione primaria; altresì C. cost. n. 20 del 1960, con riferimento proprio alla legge n. 105 1157 cit., ha parlato di “potestà regolamentare” da quest’ultima conferita; conf. C. cost. n. 163 del 1971 e, quanto alla giurisprudenza di questa Corte, Cass., sez. II 28 novembre 1987, n. 8865, che espressamente considera di natura regolamentare il d.m. 22 giugno 1982, cit., in ragione della “competenza conferitagli dalla n. 1051/57”. ‘In particolare poi C. cost. n. 180 del 1983 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, tra l’altro, dell’articolo unico della cit. legge 7 novembre 1957, n. 105 1, nella parte in cui ha demandato al Consiglio nazionale forense la determinazione delle tariffe professionali, con la potestà di stabilire i massimi e i minimi entro i quali l’autorità giudiziaria deve contenere la liquidazione delle spese di lite a carico della parte soccombente. Parimenti, sul diverso piano dei vincoli comunitari, la Corte di giustizia C.E. (C. giust., 19 febbraio 2002, c-35/99 e c-309/99; e più recentemente C. giust., 5 dicembre 2006, c-94/04 e c-202/04) ha affermato che gli artt. 5 e 85 del Trattato C.E. (divenuti, in seguito a modifica, artt. 10 e 81) non ostano all’adozione, da parte di uno Stato membro, di una normativa anche regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dal r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 e successive modifiche.
In conclusione, per quanto riguardo questo aspetto preliminare della tematica in esame, può affermarsi che questa Corte, nell’esercizio del suo sindacato di legittimità e della sua ordinaria funzione di nomofilachia, può verificare, in quanto trattasi di normativa subprimaria regolamentare, l’esatta interpretazione della disciplina posta dalla delibera del Consiglio nazionale forense recepita con decreto ministeriale – vuoi quando “approvata” (D.M. 5 ottobre 1994 n. 585), vuoi, a maggior ragione, quando direttamente riprodotta (D.M. 8 aprile 2004 n. 127) – sotto il profilo della violazione di legge, in cui si iscrive l’unico motivo del ricorso.


5. Venendo al merito della questione posta con il motivo di ricorso, deve considerarsi che l’art. 91 c.p.c. prevede che il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa; criterio questo che è mitigato dalla previsione, contenuta nell’art. 92, primo comma, c.p.c., che stabilisce che il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue.
Inoltre – prevede il secondo comma del medesimo art. 92 – se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti; motivi questi che devono ora essere esplicitamente indicati nella motivazione secondo la novella dell’art. 2, primo comma, lett. a), legge 28 dicembre 2005, n. 263.
Il codice di rito si limita quindi – come principio generale – a prevedere il diritto della parte vittoriosa al rimborso delle spese da essa sostenute e contempla alcuni correttivi all’integrale rimborso delle stesse.
Una disciplina più dettagliata era contenuta nell’art. 3 della cit. legge 13 giugno 1942, n. 794, che prevedeva che gli onorari a carico della parte soccombente erano liquidati tenendo conto della natura e del valore della controversia, del numero e dell’importanza delle questioni trattate, del grado dell’autorità adita, con speciale riguardo all’attività dall’avvocato personalmente svolta davanti al giudice.
Questa stessa disciplina, ma di diverso rango nel sistema delle fonti come si è appena detto, è stata poi posta dai citati decreti ministeriali e segnatamente dall’art. 5, primo comma, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, contenuta nella delibera del Consiglio nazionale forense del 12 giugno 1993, approvata con il cit. D.M. 5 ottobre 1994 n. 585 del Ministro di grazia e giustizia (d’ora in poi “Tariffa civile” tout court), che – considerata l’epoca dei giudizi ai quali si riferiscono le spese di lite in questione (il primo giudizio di rinvio si è concluso con sentenza del 16 ottobre 1995; la sentenza del successivo giudizio di cassazione è del 22 gennaio 1999; il secondo giudizio di rinvio si è concluso con sentenza del 24, ottobre 2002) – è quello applicabile nella fattispecie; ma – può subito aggiungersi – la disciplina successivamente posta dalla delibera del Consiglio nazionale forense del 20 settembre 2002, recepita nel D.M. 8 aprile 2004 n. 127, cit., è analoga.
Infatti tale disposizione (art. 5, primo comma, cit.), rubricata “criteri generali per la liquidazione”, prevede parimenti che “nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente deve essere tenuto conto della natura e del valore della controversia, dell’importanza e del numero delle questioni trattate, del grado dell’autorità adita, con speciale riguardo all’attività svolta dall’avvocato davanti al giudice.”
Quindi, le spese sostenute dalla parte vittoriosa – che possono essere superiori a quelle rimborsabili come risulta peraltro dallo stesso art. 5, secondo e terzo comma, della Tariffa civile, che per le cause di particolare importanza prevede un incremento fino al doppio degli onorari a carico della parte soccombente e, per le cause di straordinaria importanza, fino al quadruplo quanto agli onorari dovuti dal cliente – sono liquidate sulla base di plurimi criteri (i.e.: natura della controversia, importanza e numero delle questioni trattate, grado dell’autorità. adita), tra i quali concorre quello del “valore della controversia”, che però ha una rilevanza particolare perché il regime dell’inderogabilità dei minimi tariffari – previsto a livello di normazione primaria dall’art. 24 legge 13 giugno 1942, n. 794, e ribadito a livello di normazione subprimaria regolamentare dall’art. 4 della Tariffa civile – fa riferimento alle tabelle e quindi specificamente proprio al criterio del “valore della controversia”. Rilevanza questa che permane anche dopo il recente intervento del legislatore (decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248) che ha previsto (all’art. 2, comma 1) l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, stabiliscono l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime; infatti il secondo comma del medesimo art. 2 stabilisce che il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale, sicché, al fine del regime del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, rimane il limite degli onorari minimi fin quando la tariffa professionale continuerà a prevederli, ancorché non più con carattere di inderogabilità.
Questa valutazione complessiva sulla base di plurimi parametri concorrenti comporta un’ampia discrezionalità del giudice nell’applicazione bilanciata di tutti tali criteri (questa Corte – Cass., sez. II, 28 novembre 1987, n. 8865 – ha rimarcato infatti che il convincimento espresso dal giudice di merito circa l’importanza, ed il valore delle cause trattate dal professionista, il pregio dell’opera da lui svolta, i risultati ed i vantaggi conseguiti dal cliente, ai fini della determinazione dell’onorario, si sottrae al sindacato di legittimità, quando la motivazione sia immune da vizi logici o giuridici); discrezionalità che però trova un limite nel rispetto degli onorari minimi della tariffa professionale (dapprima ex artt. 24 legge n. 794/42 e 4 della Tariffa civile, cit.; e poi ex art. 2, comma 2, d.l. n. 223/2006, cit.). Essendo questi onorari minimi fissati nelle tabelle della Tariffa civile secondo coefficienti di parametrazione stabiliti in ragione del “valore” della causa, si ha che – laddove si alleghi (così come nel presente giudizio) il superamento del limite degli onorari minimi che sono fissati appunto in relazione al “valore” della causa – diventa rilevante e decisiva la nozione di “valore della controversia” quale prevista dall’art. 6 della Tariffa civile.


6. Quanto specificamente alla determinazione del “valore della controversia” il cit. art. 6 della Tariffa civile prevede che nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a nonna del codice di procedura civile, avendo riguardo in particolare nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.
Ed è sul “valore della controversia” che si appunta, il contrasto di giurisprudenza, denunciato con la menzionata ordinanza della Sezione Lavoro di questa Corte, che segnatamente riguarda la fattispecie, qual è quella oggetto del giudizio in esame, di una controversia civile che dopo il primo grado è continuata solo per una parte della domanda (nella specie, la rivalutazione monetaria, oggetto del primo giudizio di rinvio innanzi al tribunale di Palmi) e poi è proseguita ulteriormente soltanto per l’esatta determinazione delle spese di lite (oggetto, nella, specie, del successivo giudizio di cassazione e del secondo giudizio di rinvio innanzi al tribunale di Barcellona P.G.).
La questione che si pone, in riferimento a tale fattispecie, ha un duplice profilo.
Ci si chiede innanzi tutto se, al fine dell’individuazione dello scaglione tariffario per la liquidazione delle spese processuali in caso di riduzione della domanda in un grado del giudizio, occorra fare riferimento al decisum, ossia alla somma attribuita in concreto alla parte vittoriosa (Cass. nn. 20273/2004, 20274/2004 e 4966/2005); oppure debba considerarsi il disputatum, ossia l’oggetto della domanda al momento iniziale della lite, atteso che non rilevano, a tal fine, successive, eventuali riduzioni della domanda (Cass. n. 15874/2004, 7691/2001, 2638/97 e 2518/81).
Il secondo profilo riguarda l’individuazione dello scaglione della tariffa cui fare riferimento per la liquidazione delle spese processuali relative alla fase del giudizio proseguito solo in merito alle spese della fase pregressa, atteso che nella giurisprudenza di questa Corte si è ritenuto che il valore della causa è quello dello scaglione minimo (Cass. nn. 20273/2004, 20274/2004, 9359/2005); ovvero che esso coincide con la liquidazione stessa delle spese (Cass. nn. n. 15874/2004, 19839/2004, 4966/2005).
Di questo contrasto di giurisprudenza – che per una singolare evenienza ha riguardato in buona parte vicende processuali del tutto analoghe a quella oggetto del presente giudizio – occorre ora dire esaminando distintamente i due indicati profili tematici.


7. Quanto alla prima questione, Cass., sez. lav., 8 marzo 2005, n. 4966, nel confutare la tesi del ricorrente, riproposta ora anche nell’unico motivo del ricorso in esame, secondo cui che il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all’avvocato nei confronti del cliente, si determina avendo riguardo all’oggetto, della domanda considerato nel momento iniziale della lite, senza che esso possa subire riduzioni per la successiva delimitazione della materia del contendere ad alcuna soltanto delle questioni proposte, ha affermato che l’art. 6 della Tariffa civile, nel, disporre che, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile, avendo riguardo, nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata, va interpretato nel senso che, in caso di accoglimento totale della domanda in un grado del giudizio e di impugnazione del convenuto limitatamente ad una parte della somma attribuita, con conseguente passaggio in giudicato della condanna in relazione alla somma non contestata, impone di rapportare il valore degli ulteriori gradi di giudizio alla sola somma ancora in contestazione, risultando illogico, oltre che iniquo, equiparare, nella determinazione dei diritti e degli onorari a carico del soccombente, la posizione del convenuto che abbia impugnato la condanna all’intera somma a quella di colui che si sia limitato a contestare solo una parte della somma cui sia stato condannato (la fattispecie, in quel giudizio, era del tutto identica a quella oggetto del presente giudizio: anche in quel caso il tribunale, pronunciandosi in sede di secondo giudizio di rinvio, aveva confermato la sentenza di altro tribunale, quale primo giudice di rinvio, confermativa a sua volta di quella del pretore di parziale accoglimento della domanda di un ex-dipendente locale al ricalcolo dell’indennità premio di fine servizio con rivalutazione monetaria ed interessi).
In senso conforme si era già espressa la medesima Sezione Lavoro di questa Corte con due pronunce (Cass. 14 ottobre 2004, n. 20273, e id., n. 20274, rese in altre fattispecie del tutto identiche a quella in esame) in cui si è affermato che l’accoglimento parziale della domanda in un grado del giudizio, con autorità di giudicato, impone di limitare alla parte ulteriore della domanda stessa – che venga accolta nel grado successivo – il valore della causa ai fini della individuazione dello scaglione (art. 6, primo comma, della Tariffa civile) per la liquidazione di onorari e diritti relativi allo stesso grado.
In altro analogo giudizio questa Corte (Cass., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15874) ha parimenti rigettato il ricorso affermando che ai fini della liquidazione degli onorari difensivi a carico della parte soccombente, il riferimento contenuto nell’art. 6 della Tariffa civile, per la determinazione del valore della causa, alla somma in concreto attribuita alla parte vincitrice, anziché a quella domandata – in deroga al principio della determinazione dei valore in base alla domanda – riguarda l’ipotesi in cui detta parte abbia maggiorato con la domanda il credito poi riconosciuto come effettivamente spettante.


8. Questo orientamento giurisprudenziale – in realtà non contrastato da quello di cui si dirà infra sub 9 (mentre per l’effettivo contrasto di giurisprudenza v. infra sub 10 ss.) – va confermato e ribadito.


8.1. Il primo comma dell’art. 6 della Tariffa civile per la determinazione del valore della controversia richiama le norme del codice di procedura civile e quindi gli artt. 10 ss. c.p.c. che, ai fini della competenza per valore, offrono vari criteri per determinare tale parametro con riferimento alla domanda e quindi al momento in cui la lite è promossa (in cui si fissa il “disputatum”). In particolare deve considerarsi richiamato anche l’art. 14 c.p.c. che prevede che nelle cause relative a somme di danaro il valore si determina in base alla somma indicata dall’attore che costituisce l’oggetto della domanda; in tal caso è questo il disputatum nel momento iniziale della lite, che è quello in cui si fissa la competenza.
Analogamente può dirsi, in ragione del richiamo di cui all’art. 6, primo comma, della Tariffa civile, che nelle cause relative a somme di danaro il “valore della controversia” si determina in base alla somma indicata dall’attore. Sicché in generale questa Corte (Cass., sez. II, 27 febbraio 1998, n. 2172) ha affermato che il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all’avvocato nei confronti del cliente, si determina, in base alle norme del codice di procedura civile, avendo riguardo all’oggetto della domanda considerato nel momento iniziale della lite, aggiungendo peraltro che non assumono rilievo, al riguardo, gli interessi e l’eventuale rivalutazione maturati sulla somma capitale nelle more della controversia.
Ma “l’oggetto della domanda considerato nel momento iniziale” svolge un ruolo diverso al fine dell’individuazione del giudice competente per valore ed al fine della determinazione degli onorari d’avvocato giacché nel primo caso vale a fissare un parametro oggettivo per individuare in limine litis il giudice competente (i.e. il giudice naturale), nell’altro si tratta di un riferimento solo iniziale per determinare un parametro da utilizzare successivamente al momento della decisione della lite al fine di quantificare il rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente. Ed infatti il citato art. 6, primo comma, della Tariffa civile precisa ulteriormente – ripetendo peraltro la previsione normativa già contenuta nell’art. 9, ultimo comma, legge n. 749 del 1942, cit. – che, nel caso di “giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni” che si concludono con un accoglimento parziale della domanda, deve tenersi conto della somma attribuita alla parte vittoriosa. Quindi occorre far riferimento al criterio del decisum che integra quello del disputatum senza che tra loro ci sia antinomia. Essi infatti concorrono per esprimere un più generale principio di adeguatezza e proporzionalità degli onorari all’effettiva portata della controversia come emerge inequivocabilmente dal correttivo che lo stesso art. 6 cit. pone al secondo comma: “Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile”.
Anche l’art. 60 r.d.l. n. 1578 del 1933 – nello stabilire che l’autorità giudiziaria deve contenere la liquidazione entro i limiti del massimo e del minimo fissati a termini dell’art. 58 – precisava poi che “per determinare il valore della controversia si ha riguardo a ciò che ha formato oggetto di vera contestazione”. Insomma una lettura coordinata del duplice criterio del primo comma dell’art. 6 (quello del disputatum e quello del decisum) con quello del secondo comma (il “valore effettivo, della controversia”) fa emergere il principio fondante, sotteso a questa disciplina regolamentare, che è quello dell’adeguatezza e proporzionalità degli onorari all’attività professionale svolta (cfr. anche C. cost. n. 36 del 1980 che con riferimento agli onorari di avvocati e procuratori ha affermato che “ai fini dei controllo dell’osservanza dei principi di cui agli artt. 35 e 36 Cost., deve considerarsi l’attività complessiva del professionista”, così ritenendo mutuabile dagli evocati parametri tale canone di adeguatezza e proporzionalità previsto per il lavoro che va tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni).
Quindi sulla base di un’interpretazione sistematica dell’art. 6, primo e secondo comma, della Tariffa civile, il disputatum nel momento iniziale della lite non è risolutivo, dovendo tenersi conto poi dell’effettiva decisione (il decisum) del giudice che fissa la dimensione reale della lite stessa.
Di questo criterio di adeguatezza e proporzionalità ha in realtà già fatto applicazione questa Corte a Sezioni Unite (Cass., sez. un., 13 luglio 1963, n. 1911) che ha affermato che “nelle cause aventi ad oggetto pagamento di somme si ha riguardo, per la liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente, alla somma attribuita alla parte vincitrice e non a quella domandata, e ciò per consentire di moderare la rivalsa delle spese entro i limiti del valore giudizialmente accertato, evitando che domande eventualmente esagerate conferiscano alla causa un valore diverso da quello reale”.
Insomma il riferimento dell’art. 6 al valore della controversia determinato a norma del codice di procedura civile riguarda l’ipotesi in cui la domanda sia accolta integralmente e quindi ci sia corrispondenza tra disputatum e decisum. Ma se la domanda è accolta solo parzialmente si impone sempre un adeguamento degli onorari all’effettiva portata della controversia che è quella espressa dal decisum.


8.2. Questo principio poi trova applicazione anche nel caso in cui il giudizio prosegua soltanto per una parte dell’originaria domanda.
La regola del decisum vale anche per i gradi successivi; ossia, se in grado d’appello si controverte solo su una parte della somma originariamente richiesta, è questo il disputatum del giudizio di impugnazione e sarà il decisum (ove favorevole all’attore in tutto o in parte soccombente in primo grado) a fissare il valore della causa in appello. Questa “riduzione” del valore della causa è coerente sia con il criterio del “decisum”, che esprime una generale esigenza di adeguatezza delle spese di lite all’effettiva importanza della lite stessa, sia con il criterio generale dell’art. 5 della Tariffa civile che fa riferimento – oltre che alla “natura” e al “valore” della controversia, all’”importanza” e al “numero” delle questioni trattate – anche specificamente al “grado” dell’autorità adita. Quindi il fatto che nel giudizio di impugnazione il thema decidendum si sia ridotto non può non incidere sulla natura e sull’importanza della questione; pertanto si riduce anche il disputatum (come regola), che concorre con il decisum (come eccezione) – al pari del giudizio di primo grado – nel caso di attribuzione solo parziale del bene della vita oggetto della lite.


8.3. Rimane poi sempre, nel caso di accoglimento parziale della domanda, la possibilità della compensazione, parziale o totale, ex art. 92, secondo comma, c.p.c., che concorre – operando su un piano distinto – con l’applicazione del criterio del decisum in luogo di quello del disputatum.
Il criterio del decisum vale a proporzionare gli onorari all’effettiva consistenza della lite non potendo essere avvantaggiato chi propone una domanda eccedente la giusta pretesa (risultante dalla pronuncia che definisce il giudizio) rispetto a chi propone una domanda contenuta negli effettivi limiti di quest’ultima. Invece la compensazione parziale o totale, quando concorre con il riproporzionamento conseguente all’applicazione del criterio del decisum, tiene conto anche del comportamento processuale delle parti nel senso che il giudice, che ritenga che la domanda sia stata ingiustificatamente eccedente la giusta pretesa, potrà operare altresì una compensazione parziale fino anche ad arrivare alla compensazione totale delle spese di lite; invece, se il giudice ritiene che l’attore in buona fede abbia chiesto di più di quanto risultato spettantegli, potrà limitarsi a calcolare il rimborso delle spese di lite secondo il criterio del decisum.
Nel caso poi di controversia di valore indeterminato che tale rimanga anche dopo la decisione del giudice (come ad es. il giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, v. da ultimo Cass., sez. un., 24 luglio 2007, n. 16300), la compensazione parziale delle spese può assolvere all’una e all’altra funzione: sia quella di riproporzionamento degli onorari all’effettiva portata della lite, sia quella di valutazione del comportamento processuale delle parti.


9. Rimanendo ancora al primo profilo tematico, c’è poi da considerare che Cass., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15874, cit., ha però aggiunto – come obiter dictum – che il criterio del decisum non opera nell’ipotesi in cui, ferma restando l’esattezza dell’entità del credito vantato dalla parte vincitrice con la domanda, il relativo ammontare sia mutato per fatti sopravvenuti in corso di causa, come il pagamento totale o parziale del debito. Questa puntualizzazione risponde a quanto già ritenuto da questa Corte (Cass., sez. lav., 25 marzo 1997, n. 2638) che ha affermato che, ai fini della liquidazione degli onorari difensivi a carico della parte soccombente, il riferimento contenuto nell’art. 6 della Tariffa civile, per la determinazione del valore della causa, alla somma in concreto attribuita alla parte vincitrice, anziché a quella domandata – in deroga al principio della determinazione del valore in base alla domanda – riguarda l’ipotesi in cui detta parte abbia maggiorato con la domanda il credito poi riconosciuto come effettivamente spettante al momento della domanda medesima; tale deroga non opera, pertanto, nelle ipotesi in cui, ferma restando l’esattezza dell’entità del credito vantato dalla parte vittoriosa, il relativo ammontare sia mutato per fatti sopravvenuti in corso di causa, come il pagamento totale o parziale del debito (conf Cass., sez. II 27 aprile 1981, n. 2518; Cass. 20 gennaio 1976 n. 160).
Questa puntualizzazione però non radica alcun contrasto di giurisprudenza, né inficia le affermazioni sub 8 ss., bensì di queste rappresenta un corollario.
Nella fattispecie alla quale fa riferimento la giurisprudenza da ultimo citata non c’è un accoglimento parziale della domanda né una concentrazione della controversia negli ulteriori gradi di giudizio solo su alcuni capi della domanda originaria.
C’è una situazione del tutto diversa che è quella della riduzione della domanda perché il diritto azionato è stato soddisfatto in parte nel corso del giudizio. La ratio si raccorda a quella della soccombenza virtuale nel caso in cui l’intera pretesa azionata sia stata soddisfatta e sia cessata la materia del contendere. In tal caso – come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis Cass., sez. III, 11 gennaio 2006, n. 271) – il giudice deve valutare la fondatezza della domanda al solo fine del rimborso delle spese di lite, senza che possa tenersi conto della estinzione del debito per sopravvenuto adempimento nelle more del giudizio.
La situazione è analoga nel caso in cui il diritto sia stato soddisfatto solo in parte: per la determinazione degli onorari occorrerà considerare il disputatum e non già il decisum allorché il giudice, sollecitato dalla parte che chieda il rimborso degli onorari sulla base dell’originario valore della controversia, ritenga la piena fondatezza dell’originaria domanda, accolta solo in parte per il sopravvenuto parziale adempimento nelle more del giudizio.


10. Passando ora al secondo profilo tematico, sopra indicato, relativo al “valore della controversia” nel caso in cui questa prosegua unicamente per le spese di lite, questa Corte (Cass., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15874) ha affermato che, ove, a seguito dell’accoglimento della domanda, il giudizio continui avendo per esclusivo oggetto la determinazione delle spese, si ha lo spostamento della materia del contendere su un diverso oggetto, costituito dalle spese pregresse da recuperare, in base alle quali viene fissato il valore della causa che prosegue, sicché le ulteriori spese – ossia il compenso per l’attività defensionale svolta per definire le spese pregresse – devono essere determinate considerando come valore della controversia tali spese pregresse in contestazione.
Analogamente Cass., sez. lav., 4 ottobre 2004, n. 19839, ha ritenuto che, ove la controversia abbia trovato la sua soluzione definitiva in statuizioni ormai passate in giudicato e residui solo una contestazione in ordine alla liquidazione delle spese di lite, queste acquistano una loro autonomia rispetto al thema decidendum dell’originaria causa, sicché la liquidazione delle ulteriori spese della fase processuale in prosecuzione va operata tenendo conto di tale residua materia del contendere, ossia delle spese pregresse.
Anche Cass., sez. lav., 8 marzo 2005, n. 4966 – nell’affermare che le regole dettate dal codice di procedura civile per la determinazione del valore della causa non prendono in considerazione le spese del processo, che non hanno titolo nella causa petendi, né sono riconducigli al petitum mediato della domanda, ma sono anticipate dalla parte, salvo poi essere regolamentate dal giudice in base all’esito finale della lite – ha parimenti ritenuto che il valore dei gradi di giudizio in cui sia in contestazione solo la misura dei diritti e degli onorari liquidati a carico del soccombente va commisurata alla parte dei diritti e degli onorari ulteriormente richiesti (in caso di rigetto dell’impugnazione) o di quelli ulteriormente attribuiti (in caso di accoglimento).
Questo orientamento prevalente è stato contrastato da Cass., sez. lav., 14 ottobre 2004, nn. 20273 e 20274, cui ha successivamente aderito Cass., sez. lav., 5 maggio 2005, n. 9359, che ha affermato che, ove – una volta che la causa sia stata, per il resto, definitivamente decisa con autorità di giudicato – il giudizio prosegua, nei gradi ulteriori, per la sola liquidazione delle spese relative ai gradi precedenti, tale giudizio non ha per oggetto, neanche in parte, una qualsiasi domanda ai fini della individuazione dello scaglione della tariffa professionale, per la liquidazione di onorari e diritti (art. 6, primo comma, della Tariffa civile, cit.); non resta, quindi, che fare riferimento al primo scaglione – che è previsto per le cause di valore meno elevato – al fine della liquidazione di onorari e diritti relativi allo stesso giudizio.


11. Il contrasto, sotto questo profilo effettivamente sussistente, va risolto nel senso dell’orientamento prevalente.
Il principio di adeguatezza e proporzionalità, sopra affermato, impone una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività professionale svolta. Espressione di questa concreta adeguatezza si è già visto essere il criterio del decisum che prevale su quello del disputatum; è il decisum che dà la misura dell’effettiva portata della controversia e quindi del suo “valore”. E da tale principio si è tratta l’ulteriore inferenza che, ove nei successivi gradi del giudizio la materia del contendere si concentri solo su una parte della domanda, mentre per il resto si formi il giudicato, il valore della controversia nel grado deve tener conto di questa riduzione della materia del contendere e quindi si concentra nel disputatum, salvo cedere il passo al criterio del decisum nel caso di accoglimento parziale dell’impugnazione.
Orbene, anche nella fattispecie oggetto del denunciato contrasto di giurisprudenza opera tale principio di adeguatezza e proporzionalità. Nel caso in cui -una volta che la pretesa azionata sia stata delibata con sentenza non impugnata in questa parte e quindi sia passata in giudicato – rimanga però ancora una residua materia del contendere consistente soltanto nell’ammontare delle spese di lite, il dibattito processuale si concentra su queste che danno la misura dell’attività difensiva delle partì e che quindi rappresentano il “valore”della controversia residuale.
Mentre nel giudizio di primo grado le spese di lite non hanno una loro autonomia al fine della loro liquidazione a carico della parte soccombente, ma conseguono alla soccombenza e quindi – .così come per interessi e rivalutazione secondo Cass. n. 2172/1998 cit. – non concorrono, a tal fine, a determinare il “valore della controversia”, nei successivi gradi di giudizio il rimborso delle spese di lite, ove oggetto di contestazione, può assumere una sua autonomia e diventare oggetto del dibattito processuale connotato da una pretesa avente appunto ad oggetto una diversa quantificazione del diritto al rimborso delle spese di lite in favore della parte vittoriosa. Il differenziale tra la somma riconosciuta dal giudice, la cui sentenza è solo per questo impugnata, e’ la somma che la parte impugnante ritiene esatta costituisce il “disputatum”, che rappresenta il “valore della controversia” nel grado. Ove poi il giudice dell’impugnazione accolga solo in parte il gravame, sarà il “decisum”, in ragione della regola dell’art. 6, primo comma, della Tariffa civile, come sopra interpretato, a fissare il valore della controversia quale parametro per determinare le ulteriori spese di lite della fase processuale che abbia avuto ad oggetto unicamente le spese dì lite della fase precedente.
L’opposto criterio accolto dall’indirizzo giurisprudenziale minoritario, sopra cit., è invece privo di base normativa, nonché ingiustamente penalizzante per le parti. Lo è per la parte vittoriosa che, avendo ottenuto un rimborso delle spese in misura inferiore al minimo inderogabile (v. sopra), è costretta ad impugnare la sentenza chiedendo che il rimborso sia fissato in una somma maggiore; ed in tal caso il differenziale tra l’importo liquidato nel grado precedente e quello richiesto con l’impugnazione della decisione potrebbe anche essere di notevole entità economica, talché la materia del contendere – il disputatum nel grado – potrebbe essere in concreto ben maggiore del valore minimo della tabella della Tariffa civile. La stessa considerazione vale anche per la parte soccombente che, prestando acquiescenza nel resto alla sentenza, si dolga unicamente della quantificazione dell’obbligo di rimborso delle spese di lite.
La Tariffa civile poi non contiene in realtà una pluralità di importi degli onorari articolati in scaglioni al primo dei quali assegnare, secondo l’opposto orientamento giurisprudenziale da ultimo citato, una particolare valenza residuale. Essa infatti prevede importi base tabellati e “coefficienti di applicazione” di incremento, ma talora anche di riduzione, dai quali si ricavano gli scaglioni secondo il valore della controversia. Se invece l’oggetto della causa è di valore indeterminabile sono previsti parametri di moltiplicazione che individuano la forbice (in questo caso più ampia) del minimo e del massimo degli onorari.
Ma al di là delle controversie che hanno un “valore” determinabile – tra le quali quelle di valore minimo appartenenti al primo scaglione non hanno un particolare rilievo – e di quelle per le quali non è possibile determinare un “valore”, non c’è un tertium genus dato dalle controversie non riferibili ad una domanda per essere stata questa interamente e definitivamente delibata nei precedenti gradi di giudizio salvo che per le spese di lite e tali quindi da ricadere residualmente tra quelle del primo scaglione della Tariffa civile, di valore inferiore a tutte le altre. Sarebbe del resto una contraddizione in termini ipotizzare un giudizio di impugnazione che non abbia un oggetto potendo questo essere sempre desunto dal petitum, sicché non può condividersi l’affermazione, fatta dall’opposta menzionata giurisprudenza, secondo cui il giudizio che prosegue solo per le spese di lite “non ha per oggetto, neanche in parte, una qualsiasi domanda”.
In realtà, ai fini che interessano, un petitum c’è ed è diretto ad una rettifica della quantificazione della somma che la parte soccombente è tenuta a pagare alla parte vittoriosa a titolo di rimborso di spese di lite sulla base della pronuncia impugnata.
Insomma, a parità di importi controversi nel giudizio di impugnazione, contrasterebbe con l’enunciato principio di adeguatezza e proporzionalità una valutazione ingiustificatamente differenziata del valore della controversia, ai fini in esame, secondo che la causa petendi sia un qualsiasi credito ovvero sia il rimborso delle spese di lite del precedente grado di giudizio.


12. In conclusione in ordine ai due profili della questione finora esaminata ed alle fattispecie prese in considerazione devono enunciarsi i seguenti principi di diritto:



  • a) il valore della controversia al fine del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato all’opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall’interpretazione sistematica dell’art. 6, primo e secondo comma, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, contenuta nella delibera del Consiglio nazionale forense del 12 giugno 1993, approvata con D.M. 5 ottobre 1994 n. 585 del Ministro di grazia e giustizia, avente natura subprimaria regolamentare e quindi soggetta al sindacato di legittimità di questa Corte – sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto dalla parte attrice nell’atto introduttivo del giudizio), tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo parziale della domanda, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione (criterio del decisum), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel qual caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum, ove riconosca la fondatezza dell’intera domanda.

  • b) Analogamente nel caso in cui, ove una parte impugni la decisione resa dal giudice soltanto in parte, il valore della controversia nel suo successivo sviluppo nel grado di impugnazione è limitato a quanto richiesto dalla parte impugnante secondo il criterio del disputatum, integrato dal criterio del decisum in caso di accoglimento parziale dell’impugnazione.

  • c) Ove il giudizio prosegua in un grado di impugnazione soltanto per la determinazione del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il differenziale tra la somma attribuita dalla sentenza impugnata e quella ritenuta corretta secondo l’atto di impugnazione costituisce il disputatum della controversia nel grado e sulla base di tale criterio, integrato parimenti dal criterio del decisum, vanno determinate le ulteriori spese di lite riferite all’attività difensiva svolta nel grado.

13. Nella specie il tribunale di Barcellona P.G. ha correttamente fatto applicazione di questi principi perché ha considerato il valore della causa tenendo conto del disputatum e del decisum come evolutisi via via ed quindi – giustamente pretermettendo il valore iniziale della controversia, come invece sostenuto dalla ricorrente nel motivo di n’corso – ha considerato che il secondo giudizio di rinvio ha avuto ad oggetto solo la rivalutazione monetaria e che il successivo giudizio di cassazione ed il secondo giudizio di rinvio hanno avuto ad oggetto solo le spese di lite contestate.


Il ricorso va pertanto rigettato senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio non avendo la parte intimata svolto difesa alcuna.


P.Q.M.


La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso in Roma il 3 luglio 2007


Il Presidente
Dott. Vincenzo Carbone


Il Consigliere estensore
Dott. Giovanni amoroso


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Massima


PROCESSO CIVILE – TARIFFE FORENSI – VALORE DELLA CONTROVERSIA


Il valore della controversia al fine del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente va fissato sulla base del criterio del quid disputatum (ossia di quanto richiesto dalla parte attrice nell’atto introduttivo del giudizio), tenendo però presente che, in caso di accoglimento solo parziale della domanda, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione (criterio del decisum), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel qual caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum, ove riconosca la fondatezza dell’intera domanda. E’ quanto hanno statuito le Sezioni Unite, componendo un contrasto di giurisprudenza