Normalità e devianza nella prospettiva penalistica (*)
Giuseppe Losappio


Una breve premessa metodologica e un indice dell’intervento, innanzitutto.
La premessa metodologica. Il mio sarà, e non può essere diversamente, un approccio “tecnico”, se possibile “scientifico”: temo che il discorso presenterà qualche asperità argomentativa. È il prezzo da pagare contro il rischio della confusione dei linguaggi; il rischio, in altri termini, del «silenzio dei concetti» (1): uno dei tanti aspetti dell’orrendo e invischiante blob di informazioni non informanti che infesta il sistema della comunicazione post-moderna.
L’indice. Le riflessioni che seguiranno saranno incentrate su tre set di interrogativi:
a. cosa è la normalità per il diritto penale ? che rapporto lega normalità e diritto penale ?
b. cosa è la devianza per il diritto penale ? che rapporto lega devianza e diritto penale ?
c. che rapporto intercorre fra normalità e devianza nella prospettiva del carcere ?


1. Normalità e diritto penale.
Esiste una definizione penalistica di normalità ?; e, cioè, più precisamente, il codice penale, le leggi penali speciali, il codice di procedura penale e il diritto penitenziario propongono una definizione di normalità ?
No. Nel sistema penale italiano manca una definizione di normalità. È un’assenza che apprezzo. Non credo che sia compito della legge, e ancora meno del sistema penale, definire cosa è la “normalità”. Ciò non toglie che tra normalità e diritto penale si dia una relazione complessa, suscettibile di esame sotto molteplici angolature.
Normalità e diritto penale pongono innanzitutto il problema della correlazione fra normalità e normatività. In questa prospettiva, sono convinto che oggi siano cruciali interrogativi come: «ciò che è normale è naturale ?»; «ciò che è naturale/normale ha, in sé, valore ?»; «il valore della normalità/naturalità ha una sua specifica pregnanza giuridica ?»; «la pregnanza giuridica della normalità/naturalità merita tutela ?»; «merita tutela penale ?» È un approccio drasticamente semplicistico ? può darsi, ma ho fiducia che ritragga le coordinate attuali del problema. È ovvio che sono possibili altre letture, ma, insisto, in questo momento a me sembrano meno rilevati.
Dei molti altri aspetti della correlazione tra normalità e diritto penale, nel contesto della nostra riflessione, il più rilevante è quello della correlazione tra anormalità e diritto penale. In questo caso, la disponibilità di riferimenti normativi permette di restringere il campo di indagine e di procedere in modo più puntuale/analitico.
Nell’ottica del diritto positivo, l’anormalità ha assunto rilievo nel diritto penale (prevalentemente) sotto tre angolature:
a. condizioni psicofisiche (es. rapporto fra pazzia e diritto penale);
b. razza (non c’è nemmeno bisogno di fare esempi);
c. orientamenti sessuali.
In linea di tendenza, i sistemi penali hanno utilizzato i tre elementi di ritenuta «anormalità» appena indicati per aggravare la risposta sanzionatoria. Nel sistema penale scozzese, per esempio, vige un’offence (reato) di Common law che reprime(va) (il reato oramai è caduto in desuetudine) l’omosessualità, perché l’omosessualità nella Scozia del passato era percepita come un comportamento anormale/deviante e, per questo, in quanto, cioè, comportamento anormale, era divenuta oggetto di qualificazione sanzionatoria-penalistica.


2. Devianza e diritto penale.
Nel sistema penale non esiste una definizione di devianza. Non per questo cade il problema del rapporto tra devianza e diritto penale.
L’esperienza storica insegna che non si è mai realizzata una totale separazione tra i due termini della relazione. Una «quota» di devianza – com’è ovvio – sfocia nel diritto penale e viceversa: una «parte» del diritto penale – com’è altrettanto scontato – allude a comportamenti devianti.
Per il resto l’esperienza storica indica che quella «quota» e quella «parte» cambiano di continuo nello spazio e nel tempo. I modelli di relazione tra devianza e diritto penale sono molti e instabili. Impossibile, in questa sede, cercare di comprenderli tutti. Si possono indicare tuttavia due linee di tendenza: quella della «coincidenza» e quella della «separazione». La prima ha trovato espressione nei sistemi di common law dove – ho accennato all’esempio dell’omosessualità – la percezione di un comportamento deviante (per lo più moralmente) orienta(va) (anche sotto questo profilo, a partire dal secondo dopoguerra, il quadro è molto mutato) il potere di dichiarare la legge (declaratory power) e di affermare la rilevanza penale di quel comportamento ritenuto appunto deviante. In realtà, anche nei sistemi di common law questo modello è rimasto valido finché il contesto sociale di riferimento è stato omogeneo e stabile, con un orizzonte e soprattutto una gerarchia di valori e interessi altrettanto semplice, univoca e condivisa (2). Una relazione di identità, di corrispondenza, tra devianza e diritto penale è indissolubilmente legata, infatti, all’esistenza di un sistema sociale semplice (o forzatamente semplificato, come nel caso dei totalitarismi o delle dittature). Nelle società «complesse», come la nostra, il rapporto tra devianza e diritto penale non può che essere di corrispondenza/separazione parziale. Si può pensare a due cerchi che si intersecano, e, quindi, ad una «quota» di comportamenti devianti che sono anche reati, ad una «quota» di comportamenti devianti che non sono reati, e, anche, ad una «parte» di diritto penale che non qualifica comportamenti (ritenuti) devianti (è il problema di alcuni reati c.d. economici o della c.d. criminalità artificiale).


3. Normalità e devianza nella prospettiva del carcere.
Per essere virtuosa la relazione tra carcere e devianza dovrebbe corrispondere ad una struttura fondamentalmente dialettica:
– la devianza è negazione della socialità;
– il carcere è negazione della devianza;
– il carcere emenda la devianza e produce il reinserimento sociale.
Il carcere, cioè, alla luce del principio costituzionale della rieducazione, dovrebbe negare la negazione della socialità espressa mediante la devianza, allestendo le condizioni per il reinserimento del detenuto nella società.
Inutile dire che la realtà è molto diversa. Questo progetto è rimasto sulla carta; un progetto dal quale il sistema e l’esperienza penale tendenzialmente si allontanano piuttosto che avvicinarsi.
Si può affermare, infatti, che:
– il carcere tendenzialmente non emenda la devianza;
– il carcere tendenzialmente non produce integrazione sociale;
– il carcere a volte produce devianza.
Quest’ultima è un’affermazione davvero molto grave. Sostenere che a volte il carcere produce devianza significa affermare che non solo si consumano ingenti risorse senza realizzare lo scopo di quella spesa ma che, di più, si registra la produzione di effetti opposti rispetto a quelli per cui la spesa era stata programmata e sostenuta. È il fallimento totale.
A fronte di questa situazione, la percezione del problema carcerario prevalente nella società civile, nella politica e in molte agenzie intermedie sembra essere piuttosto primordiale. Ho l’impressione, infatti, che il carcere sia diffusamente avvertito come uno strumento di rimozione, di due ordini di problemi:
– quelli (sociali, economici, culturali ecc.) che alimentano la devianza;
– quelli relativi ai flussi migratori (3).
Non credo che esistano – comunque mi mancano – rilevazioni statistiche o sociometriche a conforto di questo assunto. Forse – ribadisco – è solo un’impressione. Molti segnali, tuttavia, mi inducono a credere che davvero il carcere venga vissuto come un placebo del sentimento di insicurezza che attanaglia sempre di più le società globalizzate, post moderne; che il carcere sia percepito come il luogo del totalmente altro, del nemico (secondo il programma di alcuni autori tedeschi e statunitensi); che il carcere diventi un luogo dell’alienazione da sé e dalle proprie responsabilità. Pongo un esempio per chiarire. In regioni come quelle meridionali, dove le organizzazioni criminali esercitano un controllo stretto delle attività devianti economicamente più fruttuose, è appena credibile che cittadini extracomunitari possano inserirsi nel territorio e delinquere senza il “consenso” delle mafie locali (dalle quali spesso siamo meno lontani di quanto vorremmo credere) ? È più plausibile ritenere che operino come collettori del rischio penale, che siano – in altri termini – i prestanome del crimine organizzato. Niente di più niente di meno. Rilevato questo fenomeno si comprende perchè pensare che gli extracomunitari delinquono perché sono diversi da noi, perché sono extracomunitari, attiva un processo di alienazione dalla propria identità e della proprie responsabilità; un processo persino pericoloso quando interagisce con i riferimenti al sedicente conflitto di civiltà, tra occidente e mondo islamico.
Il carcere quindi è un problema; un problema grave. Il carcere che dovrebbe risolvere i problemi, invece è esso stesso un grande contenitore/generatore di problemi.


Conclusioni.
Chiudo accennando qualche spunto meno critico e più costruttivo-programmatico. Cosa può dire il penalista, se ha qualcosa da dire, rispetto ai problemi fin qui sommariamente elencati ?
Il penalista, oggi, ha, innanzitutto, il compito di parlare una lingua realistica, evitando pericolose fughe in avanti. Non si tratta di dare ragione ai fatti, ma di coltivare prospettive riformistiche realizzabili immuni dal rischio di contraccolpi di segno rigoristico ovvero emergenziale (es. i programmi di tolleranza zero). Il carcere è e deve continuare ad esistere. Nel carcere sono, saranno e devono essere reclusi i detenuti, perchè le pene devono essere scontate. Bisogna lavorare, piuttosto, perché le condizioni dei penitenziari non siano più la premessa di sedicenti atti di clemenza. Bisogna superare la situazione per cui – come ha notato David Davids, Shadow home secretary del Regno Unito – leggi e sentenze sono dettate dalla situazione delle case di custodia piuttosto che dalla gravità dei reati commessi o da contrastare. Le carceri, però, devono recuperare una vivibilità che oggi nel sistema carcerario nazionale è un’eccezione.
Per il resto, tra i molti possibili livelli di intervento, ne segnalo due:
a. culturale;
b. politico-economico.
Livello culturale. Deve cambiare la percezione del carcere come il luogo della morte civile del cittadino, come luogo di smaltimento dei rifiuti sociali. Mi è piaciuta molto l’espressione usata da Don Raffaele Bruno nella comunicazione introduttiva di questo convegno. La faccio mia: «Il carcere deve diventare il luogo di una difficile, difficilissima, con-cittadinanza».
Livello politico-economico. Occorrono riforme, ma soprattutto bisogna resistere alla tentazione/illusione delle riforme. Ciò di cui davvero si avverte l’indispensabile bisogno è l’incremento delle risorse. Il diritto penale viene paradossalmente vissuto dalla politica come un intervento sociale a costo zero. Introdurre un nuovo reato non costa nulla, ma offre un discreto feedback comunicativo. Aumentare una pena, in sé per sé non costa nulla. Più reati, pene più severe, maggiore prevenzione/repressione portano, tuttavia, ad un inevitabile aumento della popolazione carceraria. Se così è le alternative sono ineluttabili:
– accettare la prospettiva, sicuramente disumana e anticostituzionale, che tra breve le carceri siano nuovamente iper-affollate;
– accettare un nuovo indulto o comunque un nuovo intervento di clemenza;
– investire più risorse per il sistema carcerario.
Quest’ultima è l’unica soluzione corrispondente ai valori costituzionali. In realtà, è un’indicazione minimale; non per questo è scontato che sia realistica e utile.
A parte i vincoli imposti dalla permanente esigenza di risanamento dei conti pubblici, non dovremmo dimenticare le riflessioni svolte in precedenza sul carcere che produce devianza e dobbiamo chiederci, comunque, se un’espansione della spesa destinata al sistema carcerario possa trovare il consenso dell’opinione pubblica. Temo di no, per effetto del ritardo culturale al quale ho fatto appena cenno; ritardo che rischia di aumentare piuttosto che ridursi. Ma basta questa impressione a chiudere il discorso ? Dipende dalle prospettiva della politica. Una politica che fa solo scelte di breve periodo e calibra i suoi interventi con i sondaggi alla mano, assecondando ogni possibile umore sociale, non sceglierà di investire risorse in progetti non paganti in termini di consenso. Una politica capace di pensare nel lungo periodo che sappia guardare al di là del contingente sarà – anche a rischio del potere – capace di progettare le condizioni per un carcere meno lontano dal paradigma costituzionale.


Giuseppe Losappio
Professore Associato di diritto penale
Facoltà di Giurisprudenza – Università di Bari


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Note


(*) Testo riveduto della relazione presentata al Convegno, promosso dal Centro di aggregazione Don Bosco, insieme con molte associazioni locali, Normalità e devianza, Andria, 30 maggio 2007.
Sono grato alla dott. ssa Teresa di Bari per la preziosa collaborazione.




  1. U. BECK, Das Schweigen der Wörter. Über Terror und Krieg, trad. it. di L. Castoldi, Torino, Einaudi, 2003, p. 6.

  2. Questo è un “punto” sul quale si fa molta confusione. Una cosa è che vi sia una gerarchia di valori condivisa, altro è l’esistenza di un orizzonte di valori condivisi. Sono due concetti che non devono essere sovrapposti. Il diritto penale non solo riconosce i valori, il diritto penale stabilisce delle gerarchie; perché si giustifichi l’intervento del diritto penale non basta rilevare che nel sentire comune (ammesso che, oggi, esista e che, se esiste, qualcuno sia capace di intercettarlo, piuttosto che di manipolarlo) un determinato valore è generalmente apprezzato; occorre, piuttosto, che vi sia una precisa gerarchia fra la libertà individuale e il valore che viene affermato (e il dis-valore che il diritto penale è chiamato a qualificare, prevenire e reprimere).

  3. È noto che ormai le carceri italiane sono ampliamente popolate da stranieri; ma perché non ci sono cittadini EU nei nostri penitenziari, ma soltanto cittadini extracomunitari? Forse che le celle sono pieni di tedeschi? Di francesi? Di inglesi? Di spagnoli? No, le carceri sono piene di marocchini, tunisini, algerini. Perchè?