CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA N. 192
ANNO 2007



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE


composta dai signori:



  • – Franco BILE Presidente

  • – Giovanni Maria FLICK Giudice

  • – Francesco AMIRANTE “

  • – Ugo DE SIERVO “

  • – Paolo MADDALENA “

  • – Alfio FINOCCHIARO “

  • – Alfonso QUARANTA “

  • – Franco GALLO “

  • – Luigi MAZZELLA “

  • – Gaetano SILVESTRI “

  • – Sabino CASSESE “

  • – Maria Rita SAULLE “

  • – Giuseppe TESAURO ”

  • – Paolo Maria NAPOLITANO “

ha pronunciato la seguente


SENTENZA


nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma quarto del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 12 (nn. 2 ordinanze) e del 24 gennaio 2006 dal Tribunale di Ravenna, del 3 marzo, del 28 febbraio, dell’8 marzo, dell’8 e del 3 aprile 2006 dal Tribunale di Cagliari, del 25 marzo 2006 dal Tribunale di Perugia, dell’11 marzo 2006 dal Tribunale di Cagliari, del 14 marzo 2006 dal Tribunale di Livorno, del 24 febbraio 2006 dal Tribunale di Firenze, del 6 aprile 2006 dal Tribunale di Perugia, del 23 giugno 2006 dal Tribunale di Cagliari e del 20 maggio 2006 dal Tribunale di Perugia, rispettivamente iscritte ai nn. 102, 103, 104, 223, 235, 295, 297, 307, 308, da 404 a 406, 408, 559 e 615 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 15, 29, 37, 42, 49, prima serie speciale, dell’anno 2006 e 3, prima serie speciale, dell’anno 2007.


Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;


udito nella camera di consiglio del 4 giugno 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.



Ritenuto in fatto


1. – Il Tribunale di Ravenna, con tre ordinanze di analogo tenore emesse il 12 gennaio 2006 (r.o. n. 102 e n. 103 del 2006) e il 24 gennaio 2006 (r.o. n. 104 del 2006), ed il Tribunale di Cagliari, con ordinanza emessa l’8 marzo 2006 (r.o. n. 295 del 2006), hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.


I giudici a quibus – investiti dei processi nei confronti di persone imputate dei reati di estorsione in concorso (ordinanza r.o. n. 102 del 2006); di detenzione e vendita illecite di sostanze stupefacenti (ordinanze r.o. n. 103 e n. 295 del 2006); e di rapina aggravata, violenza sessuale aggravata e porto abusivo di arma (ordinanza r.o. n. 104 del 2006) – riferiscono che in ciascuno dei casi sottoposti al loro esame sarebbero configurabili a favore degli imputati (la cui responsabilità risulterebbe comprovata dalle acquisizioni processuali) determinate circostanze attenuanti: rispettivamente, quella del contributo di minima importanza alla commissione del reato, di cui all’art. 114 cod. pen.; quella del fatto di lieve entità, di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); e quelle del danno patrimoniale di speciale tenuità e dell’avvenuta riparazione del danno, di cui all’art. 62, numeri 4) e 6), cod. pen.


Agli imputati – soggiungono i rimettenti – è stata tuttavia contestata la recidiva reiterata, di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., avendo essi riportato in precedenza due o più condanne per delitti dolosi di vario genere.


Ciò premesso, i giudici a quibus osservano come le disposizioni regolative del cosiddetto giudizio di comparazione fra circostanze eterogenee trovino applicazione, in virtù dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., anche quando si tratti di circostanze inerenti alla persona del colpevole, qual è la recidiva. A seguito, tuttavia, della modifica operata dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005 – entrata in vigore prima della commissione dei fatti oggetto dei giudizi a quibus – restano esclusi «i casi previsti dall’art. 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4)», cod. pen., per i quali «vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti». Di conseguenza, le circostanze attenuanti configurabili nei casi di specie a favore degli imputati – le quali, anteriormente alla novella, avrebbero dovuto essere ritenute senz’altro prevalenti sulla recidiva reiterata, tenuto conto delle modalità dei fatti e dell’entità dei precedenti penali dei giudicabili – alla luce dell’attuale formulazione della norma censurata potrebbero essere considerate, al più, solo equivalenti ad essa.


A parere dei rimettenti, peraltro, la neointrodotta regola limitativa degli esiti del giudizio di comparazione tra circostanze si porrebbe in contrasto sia «con il principio di ragionevolezza quale accezione particolare del principio di uguaglianza» (art. 3, primo comma, Cost.), il quale funge da limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione della qualità e quantità delle sanzioni penali; sia con il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).


Il giudizio di bilanciamento tra circostanze costituirebbe, difatti, uno strumento per consentire al giudice il perfetto adeguamento della pena al caso concreto, tramite la valorizzazione degli elementi positivi o negativi più significativi ai fini della qualificazione del fatto e del suo autore. Precludendo in assoluto la dichiarazione di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, la norma censurata determinerebbe, viceversa, un «appiattimento» del trattamento sanzionatorio, in rapporto a situazioni che potrebbero risultare assai diverse; e rischierebbe, al tempo stesso, di imporre l’applicazione di pene manifestamente sproporzionate all’entità del fatto, la cui espiazione non consentirebbe la rieducazione del condannato.


Tale evenienza ricorrerebbe puntualmente nei casi di specie: giacché, una volta ritenute le attenuanti solo equivalenti alla recidiva reiterata, le pene minime irrogabili agli imputati (prima della diminuzione prevista per il rito abbreviato, da essi richiesto) – vale a dire: cinque anni di reclusione ed euro 516 di multa, nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 102 e n. 104 del 2006; due anni di reclusione ed euro 5.164 di multa, nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 103 e n. 295 del 2006 – si rivelerebbero palesemente eccessive rispetto ai fatti per cui si procede.


L’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 soggiunge, altresì, che l’irragionevolezza denunciata risulterebbe esaltata dal fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza delle attenuanti è stata sancita a carico del recidivo reiterato indipendentemente dalla gravità dei delitti commessi, dalla data della loro commissione e dall’entità delle pene irrogate: mentre ad una diversa conclusione si sarebbe potuti pervenire qualora la preclusione in parola fosse stata limitata ai soli recidivi reiterati condannati per reati di una certa gravità, analogamente a quanto lo stesso legislatore della legge n. 251 del 2005 ha stabilito nel novellare l’art. 62-bis cod. pen., in tema di concessione delle attenuanti generiche.


2. – Analoga questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale di Livorno, con ordinanza emessa il 14 marzo 2006 (r.o. n. 405 del 2006), nell’ambito di un processo penale nei confronti di persona imputata del reato di cessione e detenzione illecite di sostanza stupefacente, di cui all’art. 73, commi 1 e 1-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990 (come modificato dall’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49), con l’aggravante della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale.


Sulla premessa della configurabilità, nel caso di specie, dell’attenuante del fatto di lieve entità, di cui al comma 5 del citato art. 73, anche tale giudice rimettente assume che l’art. 69, quarto comma, cod. pen. – impedendo, nell’attuale formulazione, di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata – contrasti tanto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), stante il radicale divario, a fronte della commissione del medesimo fatto, tra la pena che può essere inflitta al recidivo reiterato e quella irrogabile al soggetto che non lo è; quanto con la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), considerata l’assoluta sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto alla effettiva gravità dell’illecito, che in casi quale quello oggetto del giudizio a quo la norma censurata finirebbe per determinare.


3. – Con quattro ordinanze, di analogo tenore, emesse il 3 marzo 2006 (r.o. n. 223 del 2006), il 28 febbraio 2006 (r.o. n. 235 del 2006), l’8 aprile 2006 (r.o. n. 297 del 2006) e l’11 marzo 2006 (r.o. n. 404 del 2006), il Tribunale di Cagliari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce il «divieto di prevalenza» delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti, nell’ipotesi prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.


Il Tribunale rimettente – chiamato a giudicare persone imputate del reato di detenzione o cessione illecita di sostanze stupefacenti, di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con l’aggravante della recidiva reiterata – premette che, in ognuno dei casi, tenuto conto della modesta quantità di stupefacente detenuta o ceduta dagli imputati e delle altre modalità dell’azione, il fatto andrebbe ritenuto di lieve entità, ai fini dell’applicazione del comma 5 dello stesso art. 73: disposizione, quest’ultima, che – secondo la costante giurisprudenza di legittimità – contempla non già una fattispecie autonoma di reato, ma una circostanza attenuante ad effetto speciale, la quale, nel caso di concorso con eventuali aggravanti, resta dunque obbligatoriamente soggetta al giudizio di comparazione previsto dall’art. 69 cod. pen.


Tale attenuante comporta, d’altra parte, una sensibilissima mitigazione della risposta punitiva ai reati di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, tanto nell’assetto anteriore che in quello successivo alle modifiche apportate dal decreto-legge n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 49 del 2006: in particolare, dopo tale novella, la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 a euro 260.000, comminata dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, viene sostituita, ove ricorra l’attenuante in questione, da quella della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000. Nella specie, tuttavia, tale drastica riduzione del trattamento sanzionatorio resterebbe irrimediabilmente vanificata, stante l’impossibilità di ritenere l’attenuante in parola – per il divieto posto dalla norma censurata – prevalente sulla contestata recidiva reiterata, come pure le caratteristiche del fatto e la personalità degli imputati richiederebbero.


Siffatta soluzione normativa si rivelerebbe contraria ai principi di ragionevolezza e di eguaglianza: giacché, per un verso, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta (nella specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità verrebbero puniti con la medesima pena prevista i fatti non lievi); e, per un altro verso, farebbe sì che vengano puniti in modo del tutto diverso fatti oggettivamente identici o analoghi (quali, nella specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità), sulla base del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell’autore.


Tramite la norma censurata, il legislatore avrebbe introdotto, in sostanza, un «automatismo sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata omologazione» dei recidivi reiterati, sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità che – prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne, dall’epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a quella del nuovo reato – non troverebbe fondamento nell’«id quod plerumque accidit». La recidiva reiterata, difatti, potrebbe non essere indicativa di una effettiva pericolosità, segnatamente allorché vengano in considerazione condanne risalenti nel tempo e relative a delitti di scarsa gravità, o comunque non significativi sul piano criminale in rapporto al nuovo delitto per cui si procede.


Tale «automatismo sanzionatorio», ancorato alla sola personalità del colpevole ed alla sua pericolosità presunta, lederebbe anche l’art. 25, secondo comma, Cost., il quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un «fatto»: impedendo, quindi, che si punisca la mera pericolosità sociale o l’«atteggiamento interiore» del reo.


La norma censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con i principi stabiliti dall’art. 27, primo e terzo comma, Cost. Al riguardo, verrebbero in rilievo tanto il principio di personalità della responsabilità penale, a fronte del quale la pena non potrebbe essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale; quanto il principio di proporzionalità della pena, insito nella funzione retributiva, il quale impone la congruità della pena irrogata in concreto rispetto alla gravità del fatto ed alle condizioni personali dell’agente; quanto, infine, il principio della finalità rieducativa della pena: finalità che – secondo la giurisprudenza di questa Corte – deve essere associata alla funzione retributiva in termini di necessaria coesistenza. Da tale complesso di precetti costituzionali emergerebbe dunque l’esigenza dell’individualizzazione della pena, giacché solo mediante l’adeguamento della risposta punitiva alle caratteristiche del singolo caso – adeguamento che costituisce l’obiettivo del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee – sarebbe possibile assicurare un’effettiva eguaglianza di fronte alle pene, rendendo realmente «personale» la responsabilità penale e facendo sì che il trattamento sanzionatorio assolva ad una funzione rieducativa.


Il novellato art. 69, quarto comma, cod. pen. – con l’escludere il giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva reiterata – impedirebbe viceversa il suddetto adeguamento, imponendo l’irrogazione di pene che possono rivelarsi, come nei casi di specie, del tutto sproporzionate rispetto all’effettiva entità dei fatti e dunque inidonee, proprio perché percepite come ingiuste ed abnormi, ad agevolare la risocializzazione del reo.


4. – Il Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., con due ulteriori ordinanze, emesse il 3 aprile 2006 (r.o. n. 307 del 2006) ed il 23 giugno 2006 (r.o. n. 559 del 2006), che svolgono censure in parte differenziate.


Anche in tali occasioni, il rimettente – investito di processi penali nei confronti di persone imputate dei reati di cessione e detenzione illecite di sostanze stupefacenti, di cui all’art. 73, commi 1 e 1-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990, con l’aggravante della recidiva reiterata – ritiene che i fatti oggetto di giudizio vadano qualificati di lieve entità, ai fini dell’applicazione dell’attenuante di cui al comma 5 del citato art. 73; e che tale attenuante – ove non lo impedisse la norma censurata – dovrebbe essere considerata prevalente rispetto alla recidiva reiterata.


Ciò posto, il giudice a quo osserva come, alla luce delle indicazioni di questa Corte, l’adeguamento della pena al caso concreto da parte del giudice – sulla base dei parametri forniti dall’art. 133 cod. pen. – rappresenti attuazione e sviluppo dei principi costituzionali di eguaglianza, di personalità della responsabilità penale e di finalizzazione della pena alla rieducazione; e come, al tempo stesso, la pena abbia un carattere «polifunzionale» – rispondendo sia a fini di prevenzione generale e difesa sociale, sia a fini di prevenzione speciale e di rieducazione del reo – senza che fra tali finalità sia possibile stabilire una «gerarchia statica»: così che il legislatore, nei limiti della ragionevolezza, può far prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra di esse, a patto, però, che nessuna risulti obliterata.


Ai sensi dell’art. 133 cod. pen., d’altro canto, la «pena giusta» deve essere determinata combinando in maniera sintetica, ma razionale, il giudizio in ordine alla gravità del reato e quello concernente la capacità a delinquere, desunta, fra l’altro, dai precedenti penali e giudiziari. Tale ultimo criterio – quello, cioè, della capacità a delinquere – potrebbe essere letto o come espressivo della finalità specialpreventiva della pena, cioé quale indice, «proiettato nel futuro», della pericolosità sociale del reo; ovvero come «ancorato al momento del fatto», nel senso che esso rappresenterebbe null’altro che una componente del giudizio relativo alla colpevolezza, in un’ottica retributiva. Anche a voler privilegiare, peraltro, l’aspetto specialpreventivo e rieducativo della pena, tali funzioni non potrebbero comunque prescindere – alla luce dei ricordati dicta di questa Corte – dall’applicazione di una pena «giusta», ossia proporzionata alla gravità complessiva della responsabilità dell’autore. Nel contesto dell’art. 133, secondo comma, cod. pen., inoltre, l’indice rappresentato dai precedenti penali e dalla complessiva condotta di vita dell’imputato sarebbe «del tutto indipendente dalla valutazione del fatto»: con la conseguenza che, quanto è maggiore la rilevanza accordata a tale elemento, tanto più la sanzione – «a causa dell’efficacia determinante svolta dal “tipo d’autore”» – acquisterebbe caratteri di «esemplarità», incompatibili non soltanto con il principio della finalità rieducativa della pena, ma anche con il principio di offensività desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost.


Il giudizio di comparazione delle circostanze, di cui all’art. 69 cod. pen. – prosegue il rimettente – attiene anch’esso alla valutazione del reato nel suo complesso, e deve essere operato dal giudice alla stregua dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e nel rispetto dei limiti fissati discrezionalmente dal legislatore, in base a scelte di politica criminale: scelte che non debbono tuttavia varcare il confine della ragionevolezza, né creare disparità di trattamento prive di giustificazione, rimanendone altrimenti lesi il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., e, di riflesso, quelli di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena.


Tali limiti non risulterebbero osservati, per contro, dal nuovo disposto dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui vieta di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata.


Con l’impedire che elementi di segno contrario possano travolgere l’indice negativo rappresentato dalla reiterazione del reato, il legislatore avrebbe infatti introdotto una sorta di presunzione legale di pericolosità sociale, o quantomeno di spiccata tendenza a delinquere del recidivo reiterato. La razionalità di una simile previsione risulterebbe peraltro dubbia: e ciò anzitutto alla luce del carattere «perpetuo» della recidiva, la quale si configura – fatta eccezione per la recidiva infraquinquennale – a prescindere dal lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’ultimo reato, e dunque anche in casi in cui, essendosi al cospetto di precedenti penali remoti, l’indicata presunzione di pericolosità non trovi in concreto giustificazione.


Per altro verso, poi, il divieto di «subvalenza» della recidiva reiterata è stato sancito in rapporto a tutte le circostanze attenuanti, indipendentemente dal fatto che esse abbiano carattere soggettivo od oggettivo, o che si tratti di attenuanti ad effetto comune o ad effetto speciale.


Sotto il primo profilo, tuttavia, la non omogeneità degli elementi considerati nel giudizio di bilanciamento renderebbe irrazionale la preclusione: giacché, se la disposizione mira a rendere indefettibile la valutazione della recidiva nel giudizio relativo alla personalità dell’imputato, detto divieto sarebbe «forse» giustificabile in rapporto alle attenuanti che hanno fondamento nella tendenza a delinquere del reo; ma risulterebbe comunque illogico rispetto alle attenuanti a carattere oggettivo, le quali riflettono esclusivamente il minor disvalore del fatto.


Sotto il secondo profilo, alle attenuanti ad effetto speciale risulta sovente sottesa una valutazione legislativa «del tutto diversa della gravità del fatto e quindi del bisogno sociale di repressione»: il che avverrebbe puntualmente per l’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, stante la «siderale distanza» intercorrente fra gli episodi di piccolo spaccio, spesso commessi da tossicodipendenti che in cambio della loro attività ricevono dal fornitore la sostanza necessaria al loro consumo; e gli episodi di vero e proprio traffico, volti a rifornire il mercato degli stupefacenti e a procurare ingenti guadagni.


Di conseguenza, l’elisione degli effetti dell’attenuante in parola, a fronte dei limiti al bilanciamento con la recidiva reiterata, imporrebbe di applicare agli imputati nei giudizi a quibus, per fatti di «spaccio minuto», la stessa pena prevista per il trafficante, ossia una pena iniqua perché non proporzionata alla gravità della loro responsabilità penale.


5. – Con tre ordinanze di analogo tenore, emesse il 25 marzo 2006 (r.o. n. 308 del 2006), il 6 aprile 2006 (r.o. n. 408 del 2006) e il 20 maggio 2006 (r.o. n. 615 del 2006), nell’ambito di procedimenti penali nei confronti di persone imputate dei reati di detenzione e cessione illecite di sostanze stupefacenti, con l’aggravante della recidiva reiterata, il Tribunale di Perugia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude che possa ritenersi prevalente sulla recidiva reiterata la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990: circostanza che il giudice a quo reputa configurabile nei casi di specie.


Il Tribunale rimettente muove anch’esso dal rilievo che, per affermazione di questa Corte, l’adeguamento della pena ai casi concreti – cui il giudizio di bilanciamento fra circostanze di segno opposto è preordinato – costituisce espressione dei principi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, nonché, al tempo stesso, strumento di attuazione dell’eguaglianza di fronte alla sanzione penale.


Su tale premessa, il giudice a quo osserva che è ben vero che anche nel caso in cui sia preclusa la formulazione di un giudizio di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti – come avviene attualmente per la recidiva reiterata, in forza dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. – permane un residuo margine di graduabilità della pena; ma che tale graduabilità residua deve risultare comunque idonea ad assicurare la ricordata finalità rieducativa, oltre che connotata da razionalità e proporzionalità.


Ciò non avverrebbe, per contro, nell’ipotesi in cui – per valutazioni attinenti alla concreta offensività del reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti – detto reato possa considerarsi di lieve entità: apparendo del tutto incongruo che, in tale ipotesi, venga preclusa la formulazione di un giudizio di prevalenza dell’attenuante di cui al comma 5 del citato art. 73 rispetto alla recidiva reiterata. In questo modo, infatti, sulla base di una mera presunzione, svincolata dall’apprezzamento del fatto concreto e della effettiva pericolosità del reo – il quale potrebbe risultare gravato da precedenti assai tenui e di diversa indole – si imporrebbe l’irrogazione di una pena corrispondente a quella, di gran lunga superiore, che il legislatore ha stabilito in rapporto al «disvalore oggettivo del reato nella sua dimensione ordinaria».


6. – Con ordinanza emessa il 24 febbraio 2006 (r.o. n. 406 del 2006) il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole, nel caso previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.


Il giudice a quo – premesso di essere chiamato a giudicare una persona tratta in arresto nella flagranza della cessione a terzi di una modestissima quantità di eroina: fatto da ritenere di lieve entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 – rileva come la circostanza attenuante prevista da tale disposizione abbia, per costante giurisprudenza di legittimità, carattere prettamente oggettivo, essendo volta a mitigare le severe pene stabilite per le violazioni in materia di stupefacenti allorché la condotta presenti una ridotta offensività; così da rendere il sistema sanzionatorio stabilito dal citato d.P.R. n. 309 del 1990 complessivamente conforme al dettato costituzionale. La pena inflitta in concreto dovrebbe risultare, infatti, sempre adeguata alla effettiva offensività della singola condotta criminosa, in base al disposto dell’art. 25, secondo comma, Cost.; e conforme, altresì, alla finalità rieducativa della sanzione penale, prevista dall’art. 27, terzo comma, Cost.


Alla realizzazione di tali principi costituzionali era preordinata anche la previsione dell’art. 69 cod. pen. – nel testo anteriore alla novella – in tema di giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee, la quale consentiva al giudice di adeguare discrezionalmente la pena alla concreta offensività del fatto sottoposto al suo giudizio. Per contro, la nuova formulazione della norma – vietando il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, anche ad effetto speciale, rispetto alla recidiva reiterata (giudizio che si imporrebbe nel caso di specie) – precluderebbe il conseguimento del suddetto obiettivo in presenza di determinate condizioni personali dell’imputato: ponendosi così in contrasto, non soltanto con i precetti, già ricordati, degli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.; ma anche con quelli degli artt. 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Cost., stante l’impossibilità, per il giudice, «di adempiere, nel processo, all’obbligo di legge di adeguare la sanzione al caso concreto ed irrogare una sanzione che abbia finalità rieducative».


Ad avviso del giudice rimettente, sarebbe violato anche l’art. 3, primo comma, Cost., giacché, per effetto della norma denunciata, a condotte estremamente diverse sotto il profilo della offensività conseguirebbe una identica sanzione.


7. – In tutti i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.


La difesa erariale osserva, in via preliminare, come la modifica apportata all’art. 69 cod. pen. dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005 si collochi nell’alveo di un indirizzo legislativo – già precedentemente manifestatosi tramite norme che hanno escluso o limitato il giudizio di equivalenza o di prevalenza rispetto a determinate circostanze aggravanti – volto a ridimensionare il potere discrezionale del giudice, in sede di bilanciamento delle circostanze eterogenee: potere che, a seguito della riforma operata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, ha finito per assumere una latitudine eccessiva.


La scelta discrezionale del legislatore sottesa alla norma denunciata non confliggerebbe, peraltro, con il principio di ragionevolezza, essendo diretta ad attuare – unitamente alla riforma della disciplina della recidiva, di cui all’art. 99 cod. pen., introdotta dall’art. 4 della stessa legge n. 251 del 2005 – una forma di prevenzione speciale della recidiva reiterata, inasprendone il trattamento sanzionatorio.


La norma censurata non contrasterebbe neppure con la funzione rieducativa della pena, dovendosi escludere che essa comporti l’applicazione di pene sproporzionate, in quanto indirizzata nei confronti di soggetti che hanno commesso un altro reato essendo già recidivi ed hanno così dimostrato un alto e persistente grado di «antisocialità»: l’irrigidimento della risposta punitiva resterebbe ancorato, quindi, ad un fatto che obiettivamente attesta la particolare pericolosità del colpevole, onde non potrebbe essere considerato arbitrario.


D’altro canto, il nuovo testo dell’art. 99 cod. pen., pur rendendo (in parte) fissi gli aumenti di pena previsti per le varie ipotesi di recidiva, avrebbe conservato il carattere facoltativo della relativa applicazione (introdotto dalla riforma del 1974), salvo che per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale. Rimarrebbe pertanto integro il potere del giudice di escludere l’applicazione della circostanza aggravante – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – allorché ritenga che la ricaduta nel reato non sia indice di insensibilità etico-sociale del colpevole, o sia comunque irrilevante dal punto di vista della tutela sociale, in considerazione del lungo tempo trascorso dal precedente reato. Con la conseguenza che, anche nelle ipotesi di recidiva reiterata, il giudice sarebbe tuttora in grado di adeguare il trattamento sanzionatorio alla effettiva gravità del fatto ed alla reale necessità di rieducazione del colpevole.



Considerato in diritto


1.1. – Il Tribunale di Ravenna, con tre distinte ordinanze (r.o. n. 102, n. 103 e n. 104 del 2006) ed il Tribunale di Cagliari, con una ulteriore ordinanza (r.o. n. 295 del 2006), dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.


Ad avviso dei rimettenti, la neointrodotta regola limitativa degli esiti del giudizio di comparazione tra circostanze – giudizio che mira a permettere al giudice il perfetto adeguamento della pena al caso concreto – si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena, determinando, per un verso, un livellamento del trattamento sanzionatorio di situazioni assai diverse; e imponendo, per un altro verso, l’applicazione di pene che possono risultare manifestamente sproporzionate all’entità del fatto, la cui espiazione non consentirebbe la rieducazione del condannato.


1.2. – Analogo dubbio di costituzionalità è sollevato dal Tribunale di Livorno (ordinanza r.o. n. 405 del 2006), a cui parere il nuovo art. 69, quarto comma, cod. pen., violerebbe, in parte qua, tanto l’art. 3, primo comma, Cost., stante il radicale divario – a fronte del medesimo fatto – tra la pena che, per effetto della norma censurata, può essere inflitta al recidivo reiterato e quella irrogabile a chi non lo è; quanto l’art. 27, terzo comma, Cost., attesa la sproporzione della risposta punitiva alla effettiva gravità dell’illecito commesso, che la norma stessa sarebbe idonea a determinare.


1.3. – Il Tribunale di Cagliari, con quattro ordinanze (r.o. n. 223, n. 235, n. 297 e n. 404 del 2006), sottopone a scrutinio di costituzionalità l’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella medesima articolazione precettiva, con riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost.


Avendo di mira, in particolare, le conseguenze che la norma denunciata determinerebbe sul trattamento sanzionatorio dei delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti – in termini di ineluttabile “neutralizzazione”, rispetto al recidivo reiterato, della sensibilissima mitigazione della risposta punitiva prefigurata per l’attenuante del fatto «di lieve entità», di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 – il giudice rimettente ritiene compromessi, anzitutto, i principi di ragionevolezza e di eguaglianza. Con l’escludere, infatti, che le attenuanti possano essere ritenute prevalenti sulla recidiva reiterata, il nuovo art. 69, quarto comma, cod. pen., da un lato, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta (in specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità verrebbero puniti con la medesima pena prevista i fatti non lievi); dall’altro lato, farebbe sì che vengano puniti in modo del tutto diverso fatti oggettivamente identici o analoghi (quali, in specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità), sulla base del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell’autore.


Il legislatore avrebbe introdotto, in sostanza, tramite la previsione normativa denunciata, un «automatismo sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata omologazione» dei recidivi reiterati: «omologazione» da reputare peraltro irrazionale, in quanto basata su una presunzione assoluta di pericolosità che – prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne, dall’epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a quella del nuovo reato – non troverebbe fondamento nell’«id quod plerumque accidit».


Ne risulterebbe quindi leso anche l’art. 25, secondo comma, Cost., il quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un «fatto»: impedendo, così, che si punisca la mera pericolosità sociale presunta o l’«atteggiamento interiore» del reo.


Da ultimo, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost., avuto riguardo sia al principio di personalità della responsabilità penale, il quale esclude che la pena possa essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale o di difesa sociale, indipendentemente dalla valutazione della personalità del condannato; sia al principio di proporzionalità della pena – insito nella funzione retributiva – il quale postula la congruità della risposta punitiva rispetto alla gravità concreta del fatto; sia alla finalità rieducativa della pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione di pene eccessivamente severe in rapporto all’effettiva entità del reato commesso.


1.4. – Lo stesso Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., con due ulteriori ordinanze (r.o. n. 307 e n. 559 del 2006), che svolgono censure in parte differenziate.


Il Tribunale rimettente ritiene nell’occasione leso l’art. 3 Cost., in rapporto al principio di ragionevolezza, sotto un duplice profilo. In primo luogo, perché la norma censurata introdurrebbe una presunzione legale di pericolosità sociale del recidivo priva di fondamento razionale, stante il carattere «perpetuo» della recidiva, la quale si configura – fatta eccezione per la recidiva infraquinquennale – indipendentemente dal lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’ultimo reato. In secondo luogo, perché il divieto di «subvalenza» della recidiva reiterata risulta sancito – in assunto, altrettanto irrazionalmente – in rapporto a tutte le attenuanti: e dunque anche a quelle a carattere oggettivo (non omogenee rispetto alla recidiva, in quanto non riferite alla personalità dell’autore, ma espressive del minor disvalore del fatto) e a quelle ad effetto speciale, cui è sovente sottesa una valutazione legislativa del tutto diversa in ordine alla gravità del fatto medesimo.


Gli artt. 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost. sarebbero d’altro canto vulnerati in quanto l’«efficacia determinante» attribuita – ai fini della commisurazione del trattamento sanzionatorio – ai precedenti penali del reo, e dunque al «tipo d’autore», farebbe sì che la pena acquisti caratteri di «esemplarità», incompatibili con i principi di offensività del reato e della finalità rieducativa della pena.


1.5. – Con tre ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 308, n. 408 e n. 615 del 2006), il Tribunale di Perugia dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude che possa ritenersi prevalente sulla recidiva reiterata la circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 in rapporto ai delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope.


A parere di tale giudice rimettente, i parametri costituzionali evocati risulterebbero compromessi a fronte della impossibilità di giustificare – in presenza di un reato in materia di stupefacenti, qualificabile come di lieve entità – l’enorme divario tra la pena minima di un anno di reclusione, oltre la multa, applicabile in presenza dell’attenuante de qua; e quella di sei anni di reclusione, oltre la multa, che dovrebbe essere invece inflitta ove l’attenuante stessa non possa essere ritenuta prevalente, ma, al più, solo equivalente rispetto alla concorrente aggravante della recidiva reiterata: donde la lesione del principio di eguaglianza e della finalità rieducativa della pena.


1.6. – Il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole, nel caso previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. (ordinanza r.o. n. 406 del 2006).


Secondo il giudice a quo, la norma impugnata violerebbe gli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., in quanto – prevedendo una indefettibile elisione delle attenuanti concorrenti nei confronti del recidivo reiterato – non consentirebbe al giudice di infliggere una pena adeguata alla effettiva offensività della singola condotta criminosa e conforme alla finalità rieducativa della sanzione penale.


Verrebbero di conseguenza compromessi anche gli artt. 101, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., stante l’impossibilità, per il giudice, «di adempiere, nel processo, all’obbligo di legge di adeguare la sanzione al caso concreto» e di «irrogare una sanzione che abbia finalità rieducativa».


La disposizione denunciata lederebbe, infine, l’art. 3 Cost., facendo sì che a condotte estremamente diverse, sotto il profilo della offensività, consegua una identica sanzione.


2. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni di costituzionalità inerenti alla medesima norma, svolgendo altresì censure in larga parte identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.


3. – Le questioni sono inammissibili.


3.1. – I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, della conformità a Costituzione dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee – vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. La maggioranza dei rimettenti sottopone a scrutinio tale divieto nella sua globalità; mentre il solo Tribunale di Perugia si duole, in modo specifico, del fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza sia stata sancita anche in rapporto alla circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, relativamente ai delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope.


Le censure formulate dai giudici a quibus trovano, in ogni caso, la loro comune premessa fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato. Si tratterebbe, peraltro, di una presunzione irrazionale, a fronte dei caratteri di “perpetuità” e “genericità” propri della recidiva, la quale – fatta eccezione per le ipotesi di recidiva aggravata previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 99, secondo comma, cod. pen. (recidiva specifica e infraquinquennale) – si configura a prescindere dal tempo trascorso dalla condanna precedente e dalla identità dell’indole fra il nuovo delitto e quelli anteriormente commessi.


Ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi – quali che essi siano – farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dall’art. 69, quarto comma, cod. pen.: con l’effetto di “neutralizzare” – anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto – la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime.


Siffatto assunto poggia peraltro, a sua volta, sul presupposto – implicito e non motivato – che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto; con la conseguenza di rendere inapplicabile la censurata disciplina in tema di bilanciamento con le circostanze attenuanti concorrenti.


3.2. – Quella che i rimettenti danno per scontata non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo.


A sostegno della tesi della obbligatorietà, in ogni caso, della recidiva reiterata, regolata dal quarto comma dell’art. 99 cod. pen. (nel nuovo testo introdotto dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005) – così come della recidiva cosiddetta pluriaggravata, di cui al terzo comma del medesimo articolo – parrebbe militare, in effetti, prima facie, l’argomento letterale. L’avvenuta utilizzazione, in tali disposizioni, con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente («è») – in luogo della voce verbale «può», che compariva nel testo precedente, e che figura tuttora nei primi due commi dello stesso art. 99 cod. pen., con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva aggravata – indurrebbe difatti a ritenere che il legislatore abbia inteso ripristinare, rispetto alle due forme di recidiva considerate, il regime di obbligatorietà preesistente alla riforma attuata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220.


Nondimeno – secondo quanto osservato da più parti – la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso. A tale conclusione indurrebbe, segnatamente, la considerazione che la recidiva pluriaggravata e la recidiva reiterata rappresentano mere “species” della figura generale delineata dal primo comma dell’art. 99 cod. pen.: il che implicherebbe che la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata, limitandosi i commi successivi a derogare alla relativa disciplina solo in relazione all’entità degli aumenti di pena.


La soluzione interpretativa in parola risulterebbe avvalorata – ad avviso dei suoi fautori – soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’art. 99 cod. pen., è quella racchiusa nell’attuale quinto comma; quest’ultimo – con disposizione collocata dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva – stabilisce che, «se si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto». Da tale previsione si desumerebbe che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività: e che, dunque – per quanto al presente più interessa – la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale.


Avendo omesso di verificare la praticabilità di tale diversa opzione interpretativa, i giudici rimettenti non si sono posti neppure l’ulteriore problema – anch’esso rilevante, in rapporto al thema decidendum – della corretta esegesi della previsione del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., dianzi riprodotta: quello, cioè, di stabilire se – affinché divenga operante il regime di obbligatorietà della recidiva ivi prefigurato – debba rientrare nell’elenco dei gravi reati, di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o, piuttosto, indifferentemente l’uno o l’altro, o addirittura entrambi; soluzioni, queste, tutte alternativamente prospettate dai primi interpreti della norma, a fronte del suo dettato letterale.


3.3. – Nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è d’altro canto possibile ritenere – come rilevato, nella sostanza, anche dall’Avvocatura dello Stato – che venga meno, eo ipso, anche l’«automatismo» oggetto di censura, relativo alla predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale. Conformemente, infatti, ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.


Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.


I giudici a quibus non indicano, del resto, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione. In particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare ostacolo nell’indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità – formatosi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (e peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria) – in forza del quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all’aumento di pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza; o se assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo – la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch’esso al momento commisurativo della pena. In effetti, qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale, di una circostanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “aggravante” – eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato “in mitius”. In altre parole, appare assai problematico, sul piano logico, supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: profilo problematico, questo, con il quale i giudici a quibus avrebbero dovuto necessariamente misurarsi.


3.4. – In tale ottica, l’eventuale esclusione dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, nei termini precedentemente indicati, verrebbe dunque ad inficiare tanto la motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza delle questioni, formulate dai rimettenti.


Sotto il primo profilo, vale infatti osservare che, alla stregua di quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, tutti i giudici rimettenti – fatta eccezione per il solo Tribunale di Ravenna, in rapporto all’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 – procedono per delitti non compresi nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. I delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (oggetto dei giudizi a quibus in rapporto a tredici delle quindici ordinanze di rimessione) risultano difatti inclusi nel suddetto elenco solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 80, comma 2, e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990; mentre il delitto di estorsione (cui ha riguardo l’ordinanza r.o. n. 102 del 2006) vi figura solo se aggravato ai sensi dell’art. 629, secondo comma, cod. pen. (numeri 2 e 6 dell’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen.). I rimettenti che procedono per i delitti ora indicati non riferiscono, peraltro, dell’avvenuta contestazione delle predette aggravanti.


D’altro canto, tutte le ordinanze di rimessione – senza alcuna eccezione – o non indicano i delitti ai quali si riferiscono le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero (come la citata ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006) fanno riferimento a condanne relative a delitti non compresi nell’elencazione dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.


Sotto il secondo profilo, poi – al lume di quanto dianzi indicato – sia il problema dei limiti di obbligatorietà della recidiva reiterata, sia quello della necessità o meno di effettuare comunque il giudizio di comparazione, a fronte di una recidiva facoltativa, incidono anche sulla valutazione di non manifesta infondatezza della questione formulata dai singoli rimettenti: questi ultimi – espressamente o implicitamente – si dolgono tutti del fatto che la presunzione di pericolosità, sottesa alla norma denunciata, scatti a prescindere dalla natura dei reati di cui si discute.


La stessa ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006 – l’unica emessa, come detto, nell’ambito di un processo per delitti inclusi nella lista dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (in specie, rapina e violenza sessuale aggravate dall’uso di armi: numeri 2 e 7-bis della citata disposizione) – afferma, del resto, expressis verbis, che la valutazione circa la ragionevolezza della scelta legislativa di limitare i possibili esiti del giudizio di bilanciamento potrebbe essere diversa, in presenza di un divieto di prevalenza delle attenuanti limitato ai soli recidivi reiterati «condannati per reati di una certa gravità»; e ciò analogamente a quanto la medesima legge n. 251 del 2005 ha previsto con riguardo alla neointrodotta limitazione alla concessione delle attenuanti generiche, di cui all’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen. (limitazione, peraltro, parimenti connessa al fatto che si discuta di uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen., sia pure con l’ulteriore condizione che la relativa pena minima risulti non inferiore a cinque anni di reclusione).


4. – L’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) – è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia. Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze n. 32 del 2007, n. 244, n. 64 e n. 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate.


per questi motivi


LA CORTE COSTITUZIONALE


riuniti i giudizi,


dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, della Costituzione, dai Tribunali di Ravenna, Cagliari, Livorno, Perugia e Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe.


Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.


F.to:


Franco BILE, Presidente


Giovanni Maria FLICK, Redattore


Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere


Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2007.


Il Cancelliere


F.to: FRUSCELLA