Congresso Straordinario AIGA – Roma Campidoglio 25 novembre 2006


Sintesi della Relazione del Presidente Nazionale Avv. Valter Militi


Omissis…………………………………………………….


Ma come è cambiato l’avvocato?
Dalla unificazione del Regno, in Italia l’avvocato è stato identificato come quel soggetto esponente della borghesia agiata, al quale era affidata la funzione di contribuire al buon funzionamento della giustizia e di garantire ad ogni cittadino il diritto di difesa dinanzi all’autorità giudiziaria in una sorta di patto di stabilità con lo Stato. L’avvocato per oltre un secolo ha svolto una funzione di pubblico interesse perché con il suo ministero consentiva l’ordinato svolgimento del processo (dunque l’efficienza della giustizia) e l’attuazione di un diritto di rango costituzionale: un modello ideale di professionista la cui identità e fonte di gratificazione era il mestiere e la posizione sociale ancor prima che il reddito: è il cosiddetto canone dei bene pubblico perseguito dal professionista gentiluomo.
All’avvocato ci si rivolgeva, con timore reverenziale, quando insorgeva una lite, difficilmente per prevenirla.


In un certo momento storico, però, intervengono due fattori che destabilizzano un equilibrio centenario.
Proprio mentre nuove disposizioni allargano l’accesso alla professione, vengono alla luce le gravi inefficienze del sistema giudiziario, che lo Stato non sa o non può riorganizzare.
Cresce il contenzioso ma lo Stato non si preoccupa (o non è in grado economicamente) di riorganizzare la macchina giudiziaria, che rimane quella del ventennio fascista.
Così, l’inefficienza del sistema giustizia è direttamente correlata alla perdita di credibilità dei ceto forense, identificato come il responsabile principale dei tempi, sempre più lunghi, dei processi e della ineffettività della tutela giudiziale.
L’immagine dell’avvocato si appanna inevitabilmente, e negli anni ’70 il canone dei bene pubblico è ormai svuotato di ogni contenuto. Weberíanamente, i professionisti vengono percepiti come gruppi sociali mossi da mero interesse che lungi dal produrre integrazione erano governati da logiche di potere e di esclusione.
Così gradualmente iniziano ad affermarsi nuove figure professionali, non necessariamente iscritte ad un albo e spesso neanche laureate, che intercettando la crescente insofferenza delle imprese verso un servizio totalmente inefficiente, offrono a queste ultime assistenza al di fuori delle aule giudiziarie, approfittando dei fatto che la consulenza legale non è riservata agli avvocati come la difesa in giudizio. Nascono i consulenti dei lavoro, i consulenti d’impresa, i giuristi d’impresa. 11 campo della consulenza è invaso da soggetti di ogni genere, non sempre dotati delle necessarie competenze.
Peraltro, è proprio il rapporto con l’impresa il vero nodo problematico.
Tre sono le conseguenze di questa trasformazione ormai compiuta nei paesi anglosassoni ed in corso nell’Europa continentale:
la fine dei professionismo fiduciario e la sua sostituzione con il professionismo degli esperti;
la fine dell’indipendenza del professionista ed il mutamento del rapporto con i clienti;
quindi, la fine dell’umanesimo professionale.
Anche nel nostro paese i titolari delle più quotate law firm siedono nei consigli di amministrazione di quelle grandi imprese già citate, senza peraltro impedirne crolli epocali, in palese conflitto di interessi. L’introduzione del patto di quota lite identifica il professionista con il cliente senza alcun interesse del bene comune. Non è un caso, dunque, se oggi il professionista in genere, ma l’avvocato in particolare, venga considerato una costosa e ingombrante zavorra per la competitività dei paese e non è un caso l’accanimento ideologico verso prerogative che ne avevano caratterizzato l’identità per secoli.
Pertanto, mentre l’università italiana continua a sfornare laureati in giurisprudenza neppure bene attrezzati per esercitare l’attività giudiziale, il mercato comincia a cercare (o meglio a creare) altre professionalità.
E tutto ciò avviene sotto gli occhi di una categoria distratta da altri problemi, alla lunga rivelatisi inesistenti.
L’affannosa ricerca dell’unitarietà, sulla quale abbiamo speso mille energie, ci ha fatto perdere di vista quanto stava accadendo, sino a quando il decreto Bersani ci ha richiamato bruscamente alla realtà.
Il ceto forense sì è risvegliato dal torpore ed ha rispolverato argomenti nobili, e però non più attuali e convincenti per opinione pubblica e società che hanno altre priorità.
La crisi di competitività dei nostro paese si traduce, invero, in un diffuso senso di insicurezza e di sfiducia nei cittadini. Nelle statistiche periodicamente pubblicate sullo stato di salute delle economie mondiali l’Italia è fanalino di coda e spesso a questo risultato poco lusinghiero contribuisce la inefficienza dei servizi alle imprese ed ai consumatori.
In questo contesto, dietro alle maggiori liberalizzazioni e privatizzazioni, si cela una rivoluzione ancora più epocale per la società italiana dal cui dibattito i ceti professionali sono totalmente assenti.
Da qualche tempo, infatti, con sempre maggiore insistenza si leggono interventi di autorevoli economisti che lamentano la assenza in Italia di attenzione della classe politica sul fare impresa, lamentano cioè la mancanza di una cultura di impresa che collochi le aziende al centro dello sviluppo e che le consideri il motore del progresso e del benessere dei cittadini.


In realtà, dietro questa enunciazione di principio (per certi versi condivisibile) si cela un ripensamento dei valori fondamentali sui quali si basa la democrazia italiana.
Alberto Quadrio Curzio arriva a lamentare la lacunosità della Carta Costituzionale nella parte in cui non parla di efficienza, di mercato, di concorrenza così che 9’economia è subordinata allo statal-sindacalismo che comprime la libertà d’impresa e le libertà dei cittadini a favore di un presunto interesse generale di cui Stato e sindacati sarebbero portatori”.
In questa direzione, oggi, si muove ‘l’intellighenzia” del nostro paese, quella stessa “l’intellighenzia” che ha salutato come panacea per i mali dei Paese la riforma Bersani in materia di professioni, spacciata falsamente come iniziativa indispensabile per coerenza con l’europeismo (Bolkestein docet).


Ed allora, poiché la società è cambiata e sta cambiando, l’avvocatura come le altre professioni intellettuali non ha via di scampo: o riesce a condizionare il dibattito che accompagna i processi di trasformazione del paese, investendo in quella direzione adeguate risorse umane e finanziarie e riappropriandosi dei tradizionale ruolo di classe dirigente, ovvero accetta passivamente i cambiamenti, ai quali peraltro è scarsamente in grado di adattarsi, che altri ed altrove avranno concertato.


Per governare il cambiamento però è necessario comprenderne le ragioni e cercare di dare delle risposte efficaci.


L’avvocatura deve fare i conti con gli effetti dei decreto Bersani e già si staglia minacciosa all’orizzonte la riforma Mastella: dobbiamo acquisire consapevolezza delle criticità che affliggono il ceto forense ed intervenire senza indugio.


Sarà bene soffermarsi su tre aspetti sui quali, peraltro, si è anche appuntata l’attenzione del DDL, Mastella: credibilità, qualità, dimensione.


La credibilità dell’avvocatura è in caduta libera per almeno tre ordini di fattori: la tendenza ad associare la lentezza dei processi all’opera dell’avvocato; l’elevato numero dei professionisti, molti dei quali ai margini del mercato professionale e non adeguatamente attrezzati per offrire prestazioni di qualità; la previsione, nell’attuale ordinamento, di un sistema disciplinare assolutamente inefficace.
Orbene, mentre per i primi due fattori, se gli avvocati hanno delle responsabilità certamente le condividono con altri, sulla disciplina e sulla pressoché totale assenza di controllo deontologico la categoria deve fare profonda autocritica comprendendo una volta per tutte che va spezzato quel perverso conflitto di interessi che lega il giudice all’incolpato e che fa dei secondo potenziale elettore del primo.
Fino a quando chi ha affidato il delicato compito di sanzionare i propri colleghi che sbagliano sarà condizionato dal rapporto di colleganza se non amicale o peggio clientelare, sarà e (soprattutto) apparirà poco imparziale, con gravi conseguenze sia sulla affidabilità dei controllo deontologico sia sulla credibilità ed immagine della categoria.
Questo non significa rinunciare alla giurisdizione domestica, tutt’altro. Significa introdurre quei correttivi che consentano a chi giudica di essere ed apparire al di sopra delle parti.
Il cittadino, sia esso impresa o consumatore, ha diritto di pretendere prestazioni professionali dagli adeguati standard qualitativi
La professionalità di un avvocato, però, dipende da numerose variabili che intervengono durante i molteplici momenti in cui essa è acquisita dal singolo.


Ed allora è indispensabile:
far sì che le facoltà di giurisprudenza siano in grado di assicurare agli iscritti una offerta formativa di qualità (grazie ad una programmazione degli accessi ed all’insegnamento obbligatorio e prevalente di discipline realmente professionalizzanti);
anticipare alcuni momenti dei tirocinio pratico durante la frequenza dei corso universitario con la previsione di appositi stage;
rendere obbligatoria la frequenza di una scuola forense nel periodo di formazione post lauream; trasformare l’esame in un serio momento di verifica delle competenze acquisite durante il tirocinio;
introdurre l’obbligatorietà dell’assicurazione professionale e dell’aggiornamento permanente, sanzionando chi vi si sottrae;
prevedere un sistema serio e certificabile di specializzazioni
Fino a quando questi interventi resteranno lettera morta o solamente tra i buoni propositi dei più lungimiranti, l’obiettivo di assicurare all’utenza prestazioni legali di qualità rimarrà una chimera.
C’è un elemento che accomuna il mondo delle imprese italiane a quello delle professioni: il nanismo dimensionale.
Con questa caratteristica si misurano oramai da tempo le aziende italiane che, in alcuni casi, sono riuscite a neutralizzare questo gap facendo sistema attraverso i distretti industriali.


In generale, però, il tessuto produttivo italiano è fatto da piccole e medie imprese che rappresentano oltre il 90% delle aziende italiane.
Non meno frammentata è la realtà delle professioni intellettuali, senza che in questo l’avvocatura costituisca una eccezione: anzi, a fronte dei numero impressionante di iscritti agli albi, è ancora prevalente lo studio mononucleare o, comunque, di tipo familiare.


E’ diversa, però, l’attenzione della classe politica verso il problema.
Mentre per le imprese non raramente il legislatore ha pensato ad incentivi di tipo fiscale od altro genere di agevolazioni per favorire l’accorpamento delle aziende, per i professionisti il legislatore si è limitato ad introdurre la possibilità di consentire a costoro la costituzione di società multidisciplinari ed ha allo studio la introduzione di un tipo societario ad hoc (il DDL Mastella dedica un intero articolo alla società tra professionisti).


Una volta tanto possiamo dire che l’avvocatura non è certamente indietro per sé già da alcuni anni è consentita la costituzione di società tra avvocati.
Ma proprio perché l’appeal di questo istituto si è rivelato in concreto assai modesto, possiamo sin d’ora prevedere che non basta permettere la possibilità di esercitare in forni societaria una attività professionale se a ciò non si accompagnano altre misure di sostegno.


Ancor più sono oggi indispensabili queste misure di sostegno se sol si pensa al decreto Bersani: l’avvocatura (e le professioni tutte) stanno conducendo una battaglia contro 1e liberalizzazioni volute da questo governo, ma, se dovesse rimanere immutato il quadro normativo di riferimento, è interesse dei professionisti immaginare di esercitare l’attività in forma collettiva ed è altrettanto interesse di costoro la introduzione di forme societarie che facilitino e favoriscano l’aggregazione.


L’avvocatura ha il dovere di comprendere che credibilità, qualità e organizzazione devono divenire parole d’ordine della propria agenda politica.
Ma l’avvocatura ha anche il dovere di riflettere sulla sua composizione, su come i mutamenti sociali hanno influito sulla composizione della categoria.
Sotto questo aspetto, almeno tre sono gli elementi di discontinuità rispetto alla tradizione: l’età media, inferiore a 45 anni, la componente femminile (in costante crescita) e le aspettative professionali (con un reddito medio in costante diminuzione   l’87% degli iscritti alla cassa forense se dichiarano meno di 75.000,00 euro, con un reddito medio di poco superiore a 21.000,00 euro. Età, genere e redditi denunciano una categoria debole ed insicura, non meno insicura, per la verità, della stessa società di cui è parte.
In fondo, questione giovanile, questione femminile e questione occupazionale sono tre grandi problemi del nostro paese che attendono da tempo risposte soddisfacenti.
L’Aiga ha sempre manifestato attenzione alla questione giovanile, anche perchè ché quella di maggiore interesse per i propri iscritti, ma ha interesse ad estendere gli orizzonti.
E’ debole l’avvocato giovane, ma è altrettanto debole l’avvocato donna, indipendentemente dall’età, ed è ancora più debole l’avvocato (indipendentemente dall’età e dal sesso) che ha un reddito basso, perché in qualunque contesto eserciti la professione vedrà messo a repentagli il valore fondamentale della sua indipendenza.


La debolezza e la insicurezza sono stati d’animo e professionali che affliggono trasversalmente tutta l’avvocatura e dei quali occorre farsi carico senza con ciò rinunciare alla propria specificità.
Intanto però di giovani (e di questione giovanile) parlano quelli che giovani non sono più; di donne (o di quote rosa) parlano anche e soprattutto coloro che donne non sono; della precarietà reddituale parlano indistintamente tutte le forze politiche, in piena coerenza col superamento di quella concezione che vorrebbe la società suddivisa per classi e che si scontra, per esempio, con l’implosione dei ceto medio e con la perdita di specificità dei partiti politici, che si rivolgono alla società civile nella sua generalità  icasticamente descritta con la figura limitata ma indistinta dei consumatore   cercando di intercettarne gli umori e di interpretarne le esigenze.
E’ scontato che Aiga si occupi di problemi che riguardano la giovane avvocatura ma le due proposizioni sono così intimamente legate da configurare un’endiadi: la giovane avvocatura è oggi l’avvocatura tout court.
Perfino il conflitto tra generazioni è infatti diventato liquido: da un lato, come ha scritto in un saggio recente Roger Debary, la nostra è la prima civiltà in cui la competenza acquisita è di ostacolo alla competenza da acquisire, in cui “il giovane se la cava meglio del vecchio”. Solo la mancata evoluzione tecnologica della giustizia in Italia non ha messo fuori mercato centinaia di professionisti che non usano la telematica. Per altro verso l’identità giovanile non caratterizza più solo i giovani: le nostre società sono pervase da un culto della giovinezza che ha rimosso il valore culturale dell’anziano, in una sorta di corto circuito che brucia tanto gli uni quanto gli altri per mancanza di integrazione tra modernità ed esperienza.
Questa lunga analisi trova il proprio palinsensto nelle tappe fondamentali dell’ultimo anno di attività dell’associazione, che  forse agevolata proprio dal fatto di essere un’associazione di giovani in continuo ricambio  ha percepito le linee di tendenza dei mutamenti sociali, e ha cercato di intervenire su di essi.
Con la mobilitazione del dicembre 2005, intervenuta quando la direttiva Bolkenstein sembrava dover riguardare anche i servizi legali, abbiamo lanciato il primo grido d’allarme sulla possibile mercantilizzazione della professione; e almeno il pericolo europeo è stato scongiurato.
A Pisa abbiamo dialogato con l’università, richiedendole un approccio maggiormente professionalizzante; e non a caso la bozza Mastella prevede stages formativi anche nella fase conclusiva del ciclo universitario.


A Bergamo abbiamo cercato di fare sistema con gli altri giovani professionisti, intuendo che solo con un’azione coordinata si possono affrontare tematiche comuni come l’avvio dell’attività professionale; abbiamo ottenuto risposte positive e la sinergia futura si presenta importante e incisiva.
Il rapporto che abbiamo commissionato al Censis ci consente di fotografare lo stato attuale dell’avvocatura e di immaginare i trend del prossimo futuro.


Ma quest’analisi dei grandi cambiamenti sociali non può trascurare anche il ruolo e la stessa identità della nostra associazione, senza risultare ipocritamente incompleta. Anche noi dobbiamo saperci mettere in discussione e chiederci se i pilastri su cui abbiamo fondato l’attività sociale, che ci hanno consentito di celebrare oggi il quarantesimo compleanno, siano diventati liquidi anch’essi o mantengano la loro solidità.
Il tutto nella consapevolezza che in una società complessa è impossibile restare arroccati, ma smarrire la propria identità può essere altrettanto rischioso.


Forse l’avvocato del XXI secolo non può più essere il professionista gentiluomo ma non dovrà neppure essere il professionista mercante: la collusione con l’impresa uccide quell’umanesimo che è stato e che deve continuare ad essere il tratto distintivo della nostra professione. Il giovane avvocato deve comprendere l’importanza delle dinamiche economiche non dimenticando mai, però, che la professione intellettuale non può neppure essere definita in termini materialistici.
Solo rifuggendo la semplificazione conformistica dei liberisti dell’ultima ora ma comprendendo la complessità della professione riusciremo a sottrarci dall’abbraccio mortale del mercato senza regole.


La conclusione dì questo intervento è lasciata a Maria Malatesta la quale ha delineato la figura dei professionista dei XXI secolo come colui che, tra la paura della proletarizzazione, le lusinghe della ricchezza e del potere “altro non può fare se non trovare un difficile e precarìo equilibrio tra lo stato ed il mercato, il pubblico ed il privato, l’altruismo e l’interesse, la parola ed il silenzio“.


Siamo in condizione di superare questo stato di incertezza?


Siamo giovani, ma al tempo stesso abbiamo un vissuto associativo di idee, di passione, di entusiasmo, che ha lasciato in ciascuno di noi traccia incancellabile. Eduardo De Filippo diceva che la tradizione può dare le ali; se ci si ferma al passato diventa un fatto negativo, ma se ce ne serviamo come di un trampolino, salteremo molto più in alto.


Portiamoci appresso i valori fondamentali della professione, e interpretiamoli in maniera evolutiva, alla luce dei contesto economico e sociale in cui oggi ci troviamo ad operare. Definiamo così l’avvocato dei XXI secolo: solo chi ha una lunga tradizione davanti a sé può comprendere e governare la complessità dei tempi nuovi.


Avv. Valter Militi