“Para los Amigos, Todo; para los Delincuentes, la Ley; para los Enemigos, Nada”
Diritto penale del nemico, diritto penale dell’amico, nemici del diritto penale (*)

di Giuseppe Losappio






SOMMARIO



  1. Feindstrafrecht, scenari della scienza penalistica e futuro della democrazia.

  2. Il tramonto dell’uguaglianza e l’altra faccia della medaglia: il diritto penale dell’amico.

  3. La lotta al nemico del diritto penale: concetti e principi.

  4. La lotta al nemico del diritto penale: le procedure legislative.


1. Feindstrafrecht, scenari della scienza penalistica e futuro della democrazia.
«Abbiamo perso un po’ dei nostri vecchi diritti, abbiamo guadagnato un po’ di nuove paure»: è il testo di una vignetta di Altan che descrive efficacemente l’impressione che suscita il diritto penale del nemico. Il lemma Feindstrafrecht ha una forte valenza emozionale
(1); ma le «paure» della citazione trascendono sia la carica di emotività che sprigiona dalla parola «nemico», sia quelle di altri fattori che concorrono, in ogni caso, ad alimentare l’apprensione.
L’evidente correlazione «Feindstrafrecht-società del rischio» evoca l’insicurezza autopoietica, ovvero, la difficoltà di definire i nuovi pericoli collegata con gli ostacoli che la stessa Risikogeselschaft pone all’elaborazione concettuale; non escluso, s’intende, il concetto di seguridad, il cui statuto gnoseologico, che non è mai stato certo, oggi, è quanto mai insicuro (2). La «scienza» giuspenalistica, tuttavia, ha raccolto la sfida del cambio di paradigma che la postmodernità sembrerebbe dettare al sistema punitivo e, salve isolate fughe negli esorcismi penali o nelle utopie rimozionali, si è confrontata a viso aperto con gli «aspetti innovativi, frutto della nostra civiltà» (3).
Certo all’inquietudine concorrono i riferimenti alla tortura; né la circostanza che l’argomento sia già stato esposto da Jakobs toglie qualcosa allo sgomento che suscita la conclusione (!) della sua relazione, esplicitamente seppur dubitativamente intitolato: «Folter ?». Impressiona, comunque, leggere che la forza necessaria all’adempimento dell’obbligo statuale di impedire la realizzazione dell’evento può assumere la consistenza della tortura; che «in diritto sussiste un assoluto divieto di tortura, quale pure e semplice contenuto concettuale», ma lo stato non può rimanere «nel diritto sempre e nei confronti di chiunque»; che semmai esiste un problema di «ragionevolezza» (4), superabile, però, circoscrivendo la tortura nei limiti della «moderata pressione fisica», dolorosa, ma non lesiva (es.: aghi sterili sotto le unghie (5)). Già da tempo, tuttavia, si sapeva di Guantanamo, della condizione riservata ai c.d. combattenti illegali, del carcere di Abu Ghraib, dei centri di reclusione segreta, dei voli ombra per i detenuti da interrogare e seviziare presso paesi terzi, delle detenzioni degiurisdizionalizzate, di durata indefinita (6). Ancor prima, peraltro, la preoccupazione «per lo stato di profonda arretratezza in cui versano molti Stati europei in tema di trattamento delle persone private della libertà, specie per motivi legati alla repressione del terrorismo e dei reati a sfondo politico» (7), aveva fatto superare le perplessità sull’utilità della «Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti» (CEPT) (8). Né al di là del vecchio continente si registrava una situazione migliore. Al cambio del secolo, infatti, il quadro mondiale appariva più che mai «carico … di sconfitte … per la causa dei diritti umani» (9).
Altro dunque è ciò che più sorprende, quasi spaventa, del Feindstrafrecht. Fa sensazione, piuttosto, che il diritto penale del nemico presti il «marco teórico» (10) alle disposizioni e alle prassi che, in nome della lotta al terrorismo, hanno violato e violano, quasi in ogni angolo del globo, i diritti umani. Sgomenta che la più raffinata dottrina abbellisca le pulsioni antigarantiste, figlie di una concezione fondamentalista e quindi perversa della democrazia (11); ma i diritti umani non sono optional della democrazia. Democrazia e diritti umani stanno e cadono insieme. E’ una complessa relazione biunivoca, nella quale – soprattutto quando la crisi è acuta – giocano un ruolo fondamentale gli interlocutori sociali qualificati. «Difendersi contro le aggressioni terroristiche è necessario – ha scritto di recente Tzvetan Todorov –, ma ci si difende male se facendolo si negano i diritti degli altri e si pratica la tortura. … Né demonizzare gli avversari, né cadere nell’angelismo credendo che tutti ci vogliono bene: questa doppia esigenza ci obbliga a camminare sul filo di un rasoio, e si rischia di ferirsi. Ma il rischio di dimenticare la nostra comune umanità è ancora più grande» (12). In tale prospettiva Claus Roxin e Aharon Barak hanno offerto fondamentali indicazioni.
Il primo, nel saggio «I compiti futuri della scienza penalistica» (primo articolo del primo fascicolo della «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2000), scriveva: «Si badi: anche in futuro la dottrina penalistica dovrà salvaguardare le fondamenta spirituali sulle quali è sorto il diritto penale moderno». E’ «irrinunciabile», in particolare, «l’idea … che il miglior diritto penale possibile non è un sistema repressivo perfetto, ma è un insieme di norme in grado di conciliare un efficiente controllo sociale con il massimo grado di libertà individuale dei cittadini. I diritti fondamentali dell’uomo … costituiscono oggi – per quanto il loro contenuto non sia dappertutto incontroverso – la base comune di ogni legislazione penale progredita, e così dovrà continuare ad essere. … anche nel futuro un compito essenziale della dottrina penalistica sarà quello di vigilare sulla salvaguardia dei fondamenti liberali del diritto penale, tra i quali va collocato – accanto alla tutela del complesso dei diritti del cittadino contro gli arbitri del potere statale – anche il riconoscimento di una sfera privata della persona, nella quale sia vietata ogni intromissione da parte dello Stato» (13).
«Noi, quali giudici delle moderne democrazie, siamo responsabili di tutelare la democrazia sia dal terrorismo sia dai mezzi che lo Stato vuole usare per combatterlo. Naturalmente, la vita di tutti i giorni mette costantemente alla prova la capacità dei giudici di tutelare la democrazia, ma i giudici affrontano la loro massima prova in situazioni di guerra e terrorismo. È certamente vero che la tutela dei diritti umani è un dovere, naturalmente più arduo in periodi di guerra e di terrorismo, che in periodi di pace e di sicurezza; ma se non riusciamo – se non siamo all’altezza del nostro ruolo – in tempi di guerra e di terrorismo, non saremmo all’altezza neppure in tempi di pace e di sicurezza. È un’utopia pensare che si possa mantenere una netta distinzione tra la protezione dei diritti umani in periodi di guerra e in periodi di pace. È un autoinganno ritenere che una sentenza sia valida soltanto durante il periodo di guerra e che le cose cambieranno in tempo di pace. … Devo prendere sul serio i diritti umani sia in tempo guerra che di pace. Non devo cadere nell’errore di credere che, alla fine del conflitto, si potrà riportare indietro l’orologio»: Aharon Barak, presidente della Corte Suprema dello Stato di Israele (14).
L’evidente contrasto tra questi scenari e il Feindstrafrecht precisa definitivamente l’origine dello smarrimento che lo stesso diritto penale del nemico genera dopo che i suoi foschi presagi si sono realizzati. Nel momento in cui era chiamata a svolgere con maggiore impegno il «compito essenziale … di vigilare sulla salvaguardia dei fondamenti liberali del diritto penale», di prendere «sul serio i diritti umani sia in tempo guerra che di pace», di non «cadere nell’errore di credere che, alla fine del conflitto, si potrà riportare indietro l’orologio» una voce della dottrina si è levata in altra direzione. Sconforta che la medesima elaborazione teorica sia pressoché coeva alle molte disposizioni europee che esprimono principi di segno completamente diverso. Si pensi all’art. I-1 della c.d. Costituzione (15) e soprattutto alla CEPT. Disposizioni – è appena il caso di osservare – figlie della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e, quindi, dei principi (16) per cui «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1); «Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica» (art. 6); «Chaque individu a droit au respect de sa dignité et de ses droits, quelles que soient ses caractéristiques génétiques» (17).
Né vale ad attenuare l’intensità delle impressioni negative il rilievo che Jakobs si sarebbe limitato a descrivere una situazione di fatto, senza convalidarla. Certo l’obiezione è seria, non solo perché coinvolge sotto vari profili il discorso sui fini della pena – dalle crisi delle teorie preventive (18), al significato dell’intervento penale nei confronti del «delinquente per convinzione» (19), fino al disincanto nei confronti delle prestazioni di rieducazione e di risocializzazione della pena (20) –, ma anche perché pone in luce il ritardo che caratterizza gli studi sulle conseguenze del reato rispetto alla teoria del delitto (21). Ciononostante, persuade la replica che addebita al diritto penale del nemico «una visione puramente tecnocratica, funzionalista o descrittiva di un sistema giuridico, che converte il giurista a semplice notaio della realtà … . E’ come descrivere una sedia elettrica, senza un giudizio a favore o contro la pena di morte» (22).


2. Il tramonto dell’uguaglianza e l’altra faccia della medaglia: il diritto penale dell’amico.
S’intende che il riferimento ai diritti umani deve essere modulato tenendo conto della diffusa constatazione della loro ambiguità. Nel difficile esordio del terzo millennio, ambigua, in particolare, appare la relazione tra universalità dei diritti, culture locali e poteri nazionali »
(23); eppure se un orientamento assiologico univoco emerge dai documenti internazionali e regionali è che alcuni diritti competono all’uomo per il solo fatto di essere uomo. Si può discutere quando inizia e quando finisce l’essere umano, quali sono questi diritti, qual è il loro fondamento e in che misura limitano il potere; certo è, però, che l’accettazione dei diritti umani implica che l’uomo, solo perché uomo, a prescindere dalle ulteriori qualificazioni giuridiche che il diritto attribuisce all’esistenza (dalla personalità giuridica alla cittadinanza, dalla capacità giuridica ai vari status internazionali), ha diritti originari, inalienabili, intangibili. Non è giusnaturalismo; è il risultato più avanzato della moderna coscienza giuridica. Inutile soffermarsi ad argomentare sulla distanza tra questi enunciati e la distinzione persona/uomo, il postulato sul quale si fonda il diritto penale del nemico.
Non è inutile, invece, soffermarsi, seppur brevemente, ad illustrare sotto quale profilo i principi appena richiamati mettono a nudo l’aspetto più irriguardoso per i diritti umani dello stesso Feindstrafrecht.
L’elaborazione di Jakobs, com’è noto, discende dalla premessa che le aspettative normative non sono dirette agli individui, ma bensì alla persone. La persona, quindi, non è un concetto naturalistico, ma normativo. Persona è un dato distinto dall’essere umano. L’una è un prodotto sociale, l’altro invece è il risultato di un processo naturale. Quale concetto normativo, la persona è un concetto relativo. Di conseguenza non tutti gli esseri umani sono persone giudico-penali ma solo quelli che dispongono della capacità di valutare la struttura della società e il diritto. In questo senso la colpevolezza è un deficit – esteriorizzato in un fatto o in un tentativo – di fedeltà all’ordinamento giuridico. La pena a sua volta contraddice il significato del fatto e, in quanto sofferenza, produce prevenzione generale positiva; ma non è sempre così. Nei confronti dei soggetti che costituiscono focolai di pericolo – gli infermi mentali, i bambini pericolosi e coloro che non promettono fedeltà alla società – la pena non esprime una funzione preventiva; ma questi non sono persone, bensì semplici esseri umani, e, quindi, nella misura in cui sono esclusi dall’ambito delle persone, possono essere annoverati tra i nemici » (24).
L’articolazione persona/essere umano dissolve il legame tra uguaglianza e diritti umani sul quale si fonda un diritto penale liberale (25). Se rispetto ai diritti sociali e politici vale la distinzione tra cittadino e uomo (o altra contrapposizione), rispetto ai diritti umani non sono ammesse distinzioni. « … sono diritti dell’uomo (…) nella loro universale pienezza di senso, quelli che sono conformi alla struttura dell’individuo. Da codesti diritti sono condizionati, e sono loro subordinati, quei diritti che tengono conto e rivendicano le differenze etniche, culturali, di costume: i diritti della persona. Sul limite di questi ultimi gravano ancora le parole antiche e decisive di S. Paolo nella lettera ai Galati: “non c’è né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina”» (26). L’articolazione persona/essere umano, inoltre, subordinando il riconoscimento dei diritti fondamentali al potere legislativo (o normativo), stravolge il rapporto tra diritto e potere che si fonda sul riconoscimento dei diritti umani: questi limitano il potere che non può, nemmeno con le maggioranze richieste nelle procedure di revisione costituzionale, cancellarli o ridurli a meri simulacri formali.
Sotto questo profilo il problema del diritto penale del nemico coincide con il problema del rapporto tra potere e diritto penale.
Nella medesima prospettiva emerge che il Feindstrafrecht è complementare al diritto penale dell’amico (o diritto penale del privilegio). Entrambi sono degenerazioni del rapporto tra potere e diritto penale (27). Il diritto penale del nemico e il diritto penale dell’amico incarnano l’espressione del potere che si fa nemico del diritto penale. Il diritto utilizzato come strumento di lotta del nemico è in realtà uno strumento di lotta contro il diritto penale; il diritto penale dell’amico, dietro la facciata delle istanze garantistiche e di civiltà giuridica, è il mezzo di un potere che lotta contro l’uguaglianza, forte con i «portoricani» (28), soave nei confronti dei «gentiluomini» di turno. Il diritto penale del nemico perverte il diritto penale, cancellando i diritti; il diritto penale dell’amico realizza lo stesso effetto disegnando una frammentarietà arbitraria; nell’uno e nell’altro modo, entrambi erodono l’uguaglianza.
Il primo introduce nel sistema il principio della tirannia; il secondo una tirannia dei principi; l’uno profila una caricatura della democrazia, l’altro una caricatura del garantismo; entrambi delegittimano il diritto penale, perché il primo alimenta un «antigarantismo populista» (29), il secondo lo rafforza ricoprendo il garantismo con il manto odioso del privilegio.


3. La lotta al nemico del diritto penale: concetti e principi.
La flessione del diritto penale tra i poli della ragion di stato e del favore non è certo una novità degli ultimi anni. Pullulano in tal senso le testimonianze letterarie. Si pensi – tanto per citarne alcune – alle invettive di Cicerone contro Verre (« … ac si hoc juris non unius hominis edixisses cautius composuisses»); a Paolo quando denuncia lo « … ius singolare contra tenorem rationis propter aliquam utilitatem … »; all’accusa di Dante contro Semiramide, quando «Libito fé licito in sua legge per tòrre il biasmo in che era condotta».
Ma la fase storica che congiunge l’illuminismo, lo stato di diritto, le democrazie costituzionali, le esperienze dei totalitarismi e le dichiarazioni universali dei diritti umani, ha determinato un’evoluzione radicale del rapporto tra diritto e potere. L’affermazione che l’uomo ha diritti originari, intangibili da qualsiasi potere temporale, che non li concede, ma deve riconoscerli, «rappresenta una vera e propria svolta sia nella teoria sia nella prassi politica»
(30); una svolta epocale, non un’evoluzione definitiva e irreversibile, però. La democrazia non è mai un dato acquisito, scontato, soprattutto nell’occidente postindustriale sempre in crisi (31). Alla democrazia da conquistare dove manca, corrisponde la democrazia da difendere dove già vige un sistema democratico.
«Conquista» e «difesa» della democrazia sono, anch’esse a loro volta, prospettive non scontate, come dimostra il serrato confronto globale che le vede protagoniste; un dibattito tra posizioni molto distanti anche dove la contrapposizione non raggiunge il livello di radicalità che caratterizza il discorso sulla c.d. esportazione della democrazia. Lo stesso diritto penale del nemico, che i sostenitori presentano come uno strumento di difesa della democrazia, secondo i critici «per difendere lo Stato di diritto si propone di eliminare i principi e le garanzie che precisamente definiscono la Stato di diritto» (32). Come dire, seguendo i detrattori, che si tratta di un rimedio disnomico, fomentatore di eterogenesi dei fini, sicché l’opposizione e non il sostegno alla tesi di Jakobs è indispensabile per la difesa della democrazia. Non è questa la sede per approfondire un tema così profondo è complesso. Già si è enunciata, peraltro – nei limiti concessi dalla natura del presente intervento – la radicale contrapposizione tra Feindstrafrecht e diritti umani; premessa dalla quale è agevole trarre la conclusione che il diritto penale del nemico è incompatibile con l’ideale democratico, se è vero che il presente come il futuro della democrazia corrispondono alla difesa degli stessi diritti umani.
Preme avvertire, piuttosto, che non bisogna confondere la teoria di Jakobs con leggi e prassi beneficiate dal suo «marco teórico». Le une e le altre non sono interdipendenti. Non stanno e cadono insieme. Falsificare il Feindstrafrecht non vuol dire affatto delegittimare – nel senso di rendere giuridicamente illegittimi (incostituzionali) – le regole o i comportamenti che a quella opinione sembrano riconducibili.
Lo scarto tra le due prospettive ha molteplici ragioni che qui possono essere solo accennate. Il Feindstrafrecht non è «falso» perché afferma la limitazione, più o meno ampia di questo o quel diritto; è «falso» perché nega radicalmente la relazione tra uguaglianza e diritti, che sta alla base dei diritti umani e, quindi, della democrazia. Le singole disposizioni che restringono i diritti in nome della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, alla pedofilia, etc., invece, sono da valutare alla stregua dei principi costituzionali e, quindi, delle diverse molteplici interpretazioni che di un principio possono essere elaborate nella difficile, complessa, ma ineludibile opera di bilanciamento con gli altri principi-criteri-valori costituzionali (33). La «falsità» del diritto penale del nemico, pertanto, è dogmatica; delle norme che si ispirano al diritto penale del nemico non è la falsità che bisogna accertare, ma la legittimità/illegittimità. I piani sono diversi e la comunicazione reciproca è scarsa.
Quali che debbano essere i rapporti tra scienza e politica-criminale, in tempi di tensioni così forti, non è una speranza ragionevole quella che la politica si disponga all’ascolto della dogmatica. L’esperienza, per il momento, convalida piuttosto l’ironica osservazione di chi nota che il potere politico quando ricorre al diritto penale ha preoccupazioni che non convergono con le inquietudini delle «tribù dottrinali», tra le quali, peraltro, spesso manca un solo sicuro elemento aggregatore («aglutinador») (34).


4. La lotta al nemico del diritto penale: le procedure legislative.
Insieme con la lotta per i principi e per i concetti, che tuttavia, come si è accennato, non sembra promettere, almeno nel breve periodo, risultati apprezzabili, il tentativo di contrastare il potere-nemico del diritto penale può essere portato da un nuovo fronte: quello delle procedure legislative.
Qui il discorso non può che essere circoscritto alla realtà nazionale. Una serie di fattori, tra i quali, in particolare, l’evoluzione in senso maggioritario del sistema elettorale (e i suoi corollari. es.: la personalizzazione e l’esposizione mediatica della politica), hanno ridotto il ruolo del Parlamento accrescendo quello dell’esecutivo, come dimostra il ricorso sempre più frequente al voto di fiducia e il numero sempre più elevato di leggi che traggono origine dall’iniziativa governativa
(35).
Se fino agli novanta, nella riflessione della dottrina sul rapporto tra poteri dello stato e diritto penale, la preoccupazione prevalente è stata quella che fosse garantita la distanza tra legge e sentenza e, quindi, che disposizioni penali precise e altrettanto vincolanti regole sulla giurisdizione e l’interpretazione circoscrivessero la figura del «giudice legislatore» (36), oggi è tempo di assumere consapevolezza che un’analoga esigenza corre tra la legge e il potere normativo del governo (ivi compresa, s’intende, l’influenza sul potere legislativo delle Camere). Il rifiuto di annoverare il decreto legge e il decreto legislativo tra le fonti del diritto penale non basta più. L’evoluzione del sistema istituzionale italiano richiede ben altro. Per alcune materie questa nuova condizione può essere un progresso, il manifestarsi di un processo di razionalizzazione; per altre, in particolare quelle soggette alla riserva di legge e, quindi, elettivamente il diritto penale, invece, sembra più corretto parlare «iperazionalizzazione» del Parlamento (37). In relazione ad assemblee soggiogate dalla volontà del governo scema il significato di garanzia del principio di legalità. Mancano in ogni caso alternative in grado di offrire la medesima trasparenza-pubblicità che le procedure parlamentari ancora assicurano (38), sottraendo (se non altro) la legge agli «arcana imperii» e al «potere invisibile» (39), esiziali antagonisti della democrazia. Per tale ragione le paure vissute nell’ultimo quinquennio – come fu sotto certi aspetti anche in occasione degli «anni di piombo» – devono rappresentare uno stimolo ad una presa di coscienza dei limiti dei disegni costituzionali del secondo dopoguerra; l’occasione per un ulteriore acquisto di razionalità pratica (40). Occorre aggiornarsi e creare, se necessario, nuove categorie; ma non bisogna indulgere nell’infondatamente nuovo (41). Nell’ottica così segnalata, l’unica alternativa alla crisi del principio di legalità è semplicemente il suo rafforzamento, mediante – ma questa è sola una delle soluzioni possibili – la previsione di maggioranze qualificate.
Vantaggi ? Quorum più elevati degli attuali ripristinerebbero una distanza apprezzabile tra la legge e il potere legislativo del governo con un saldo attivo del significato garantistico della riserva di legge. La necessità che l’opposizione concorra all’approvazione delle disposizioni penali sottrarrebbe la nostra materia ai calcoli di rendimento politico dell’esecutivo che sono alla base delle perversioni nel rapporto potere-diritto. Obiezioni ? Molte, s’intende, alcune fondate, alcune forse persino insuperabili. Tra queste, però, di sicuro non s’iscrive la critica che l’elevazione del quorum rallenterebbe l’approvazione delle leggi penali. Certo non si potrebbe escludere una maggiore lentezza dell’iter parlamentare, ma non è detto che questo sia necessariamente un effetto negativo. Come dire: «poco male». La riforma è l’unica vera emergenza del diritto penale italiano. I settant’anni del Codice rocco dimostrano che l’andamento lento non dipende certo dalle regole del Parlamento, mentre l’esperienza insegna che sono proprio le leggi motorizzate (42) lo strumento più comune del potere nemico del diritto penale e, quindi, della libertà.


Prof. Avv. Giuseppe LOSAPPIO
Professore associato di diritto penale – Università di Bari


Note


(*) Testo dell’intervento presentato al Convegno Delitto politico e diritto penale del nemico, Trento, Sardagna, 10-11 marzo 2006 (già pubblicato sulla rivista www.derechopenalonline.com).






  1. G.I. ANITUA, Seguridad insegura. El concepto jurídico de seguridad humana contra el discurso bélico (http://www.pensamientopenal.com). Se l’opinione pubblica si allarma perché non ha gli strumenti per analizzare le complesse caratteristiche della società del rischio, le scienze sociali non riescono ad elaborare definizioni della sicurezza che non siano tautologiche o ideologiche. Cfr., sotto il primo aspetto, R. ROBLES PLANAS, Violencia y seguridad, in Revista Electronica de Ciencia Penal y Ciminologia, 2004, n. 6, p. 1 (http://criminet.ugr.es); per il secondo, vedi J. BUSTOS RAMÍREZ, In-seguridad y lucha contra el terrorismo, in El derecho ante la Globalización y el terrorismo. «Cedant arma togae», Atti del Colloquio internazione Humboldt, Montevideo, Aprile 2003, Tirant lo blanch, Valencia, 2004, p. 404; E.L. AGUIRRE, Los esencial es imperceptible a los ojos (http://www.carlosparma.com). Sulla mancanza di uno statuto condiviso della sicurezza ad es.: W.SOFSKY, Das Prinzip Sicherheit, trad. it., Torino, Einaudi, 2005, pp. 147-160. Sul rapporto tra Risikogeselschaft e «silenzio dei concetti», per tutti: U. BECK, Das Schweigen der Wörter. Über Terror und Krieg, trad. it. di L. Castoldi, Torino, Einaudi, 2003, p. 6.


  2. U. BECK, op. loc. ult. cit..
    Ex multis, limitatamente alla dottrina italiana: C.E. PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici ?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1244; G. FIANDACA, E. MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale ?, ivi, 1994, p. 43; G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Diritto penale «minimo» e nuove forme di criminalità, ivi, 1999, p. 802; G. FIANDACA, Pensare ed ordinare il molteplice, in La bilancia e la misura. Giustizia, sicurezza, riforme, a cura di S. Anastasia, M. Palma, in Dem. dir., 2001, 5, p. 5; M. DONINI, Un nuovo medioevo penale. Vecchio e nuovo nell’espansione del diritto penale economico, in Cass. pen., 2003, p. 1810; Federico STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, Giuffrè, III ed., 2003; Giovannangelo DE FRANCESCO, Programmi di tutela e ruolo dell’intervento penale, Torino, Giappichelli, 2004; Enzo MUSCO, L’illusione penalistica, Milano, Giuffrè, 2004; Mario ROMANO, Razionalità, codice e sanzioni penali, in Studi A.Cavanna, Milano, Giuffrè, 2003, p. 1893 e ss.; L. STORTONI, Angoscia tecnologica ed esorcismo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 71.






  3. Cfr. sul punto: M. BOUCHARD, Guantanamo, in Quest. giust., 2003, p. 1005; S.RIONDATO, Sul diritto penale di guerra negli Stati Uniti d’America. La tortura, testo provvisorio della relazione presentata al Convegno Guerra, diritto e relazioni internazionali, 4 dicembre 2004, Pordenone (http://files.studiperlapace.it); L. P. SALAS, Terrorismo e giustizia penale negli Stati uniti, presentata al Convegno, cit., pp. 4-21 (in particolare).
    Leggi da ultimo: COMMITTEE ON LEGAL AFFAIRS AND HUMAN RIGHTS, Alleged secret detentions and unlawful inter-state transfers involving Council of Europe member states, Draft report – Part II (Explanatory memorandum), Rapporteur: Mr Dick Marty (http://assembly.coe.int).
    Il 6 settembre 2006, Bush jr. ha riconosciuto l’esistenza di centri segreti di detenzione gestiti dalla CIA fuori dal territorio statunitense (
    www.repubblica.it).


















  4. «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».
    Ma si considerino anche gli artt.: II-61 «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»; II-62, cpv «Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato»;
    II-64 «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti»;
    II-79 «1. Le espulsioni collettive sono vietate. 2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti»;
    II-108 «1. Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. 2. Il rispetto dei diritti della difesa è garantito ad ogni imputato»;
    II-109 «Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».








































  5. Cfr. Rapporto sullo stato della legislazione 2004, IV, Dati e tendenze della legislazione statale, a cura dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati (www.camera.it).
    Il documento registra:
    – il «dato strutturale rappresentato dalla perdita di peso percentuale delle leggi ordinarie, la cui incidenza, ancora molto elevata nella X legislatura, si riduce poi nelle legislature successive, mantenendosi comunque – anche nei primi quattro anni della legislatura in corso – su valori percentuali superiori al 50 per cento» (p. 295);
    – il «dato ancora non stabilizzato concerne invece il ruolo variamente giocato dagli altri strumenti normativi; in particolare, varia di legislatura in legislatura l’incidenza percentuale dei decreti-legge, mentre sembra in costante aumento quella dei decreti legislativi che, unitamente ai regolamenti di delegificazione, rappresentano circa il 30 per cento della produzione normativa sia nella legislatura precedente, sia in quella in corso» (p. 295);
    – «la netta prevalenza di leggi che per la loro tipologia discendono dall’iniziativa del Governo: in primo luogo le leggi di conversione; quindi le leggi di bilancio e collegate alla manovra finanziaria; le leggi di ratifica, la cui iniziativa non è più esclusiva del Governo già dalla scorsa legislatura ma che rappresentano ancora parte rilevante dell’attività normativa dell’Esecutivo» (pp. 300-301).