AFFIDAMENTO CONDIVISO TRA MEDIAZIONE ED INTERVENTO DEL GIUDICE 
Luciano Guaglione


1. Premessa: il modello originario dell’affidamento esclusivo ed i suoi aspetti negativi.
La nuova legge recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso”, approvata dal Parlamento il 24 gennaio 2006 (1), attua la riforma più importante del diritto di famiglia dopo quella del 1975, introducendo nuove disposizioni e principi sia nel codice civile, attraverso la sostituzione dell’art. 155 c.c. e l’introduzione degli artt. 155 bis, 155 ter, 155 quater, 155 quinquies e 155 sexies, sia nel codice di rito, attraverso la modifica dell’art. 708 c.p.c. e l’aggiunta dell’art. 709 ter.
In tema di affidamento di minori il Code civil napoleonico, all’art. 302, stabiliva che in caso di divorzio, salvo che risultasse più opportuna una diversa collocazione, l’affidamento dei figli spettava al coniuge incolpevole, in base della presunzione iuris tantum che ciò corrispondesse maggiormente all’interesse della prole (2).
Il Codice civile del 1865 – distaccandosi da una tradizione che accordava preferenza al coniuge incolpevole – stabiliva che “il tribunale che pronuncia la separazione dichiarerà quale dei coniugi debba tenere presso di sé i figli e provvedere al loro mantenimento, alla loro educazione ed istruzione”, rimettendo così la scelta al prudente apprezzamento del giudice, senza alcun criterio orientativo. La disposizione veniva ripresa pressochè integralmente dal codice civile del 1942 ante riforma.
Sennonché successivamente la legge sul divorzio del 1970 e quella di riforma del diritto di famiglia del 1975 circoscrivevano la libera discrezionalità del giudice ponendo, quale criterio guida per decidere l’affidamento dei minori, quello dell’esclusivo interesse superiore dei minori (3). In tal modo la scelta del genitore affidatario si affrancava in modo ancor più deciso da qualsiasi valutazione sulla colpa: mentre, infatti, il giudizio di addebito fa discendere effetti patrimoniali (perdita del diritto al mantenimento e dei diritti successori) dalla violazione dei doveri coniugali, per contro l’affidamento dei figli, incidendo sulla posizione personale di costoro, deve essere ispirato esclusivamente alla tutela del loro interesse morale e materiale e, per l’effetto, prescinde da qualsiasi logica sanzionatoria o premiale nei confronti dei genitori stessi (4).
Sennonché tale criterio guida è stato sistematicamente interpretato come affidamento mono-genitoriale alla madre, favor che trova le sue radici nella condizione sociale e di mores della famiglia italiana; la maggior parte delle soluzioni diverse (il padre, i nonni, i servizi sociali, ecc.) è stata praticata in situazioni in cui mancava la richiesta materna di affidamento o esistevano nella madre gravi carenze di varia natura (psicopatie, uso di droga, alcolismo, ecc.).
C’è da aggiungere che la possibilità di accesso per il genitore non affidatario, in questi affidamenti a un solo genitore, è abitualmente limitata a poche ore durante la settimana, ad un fine settimana alternato e a 15 giorni in estate. In questa situazione, che trasforma di fatto la separazione tra i genitori in perdita per i figli del genitore non-affidatario (5), non può stupire che si riscontri una altissima percentuale di minori disadattati che, in taluni casi, necessitano di trattamenti di psicoterapia, per avere sviluppato una condizione di dipendenza da un genitore (in genere la madre) e di rifiuto nei confronti dell’altro (quasi sempre il padre) (6). A ciò si aggiunge l’elevata conflittualità tra gli ex coniugi, per i quali frequentemente ai motivi personali di rancore si sommano le tensioni per un rapporto con i figli mal risolto per entrambi. In sostanza, quindi, l’affidamento a un solo genitore, ben lungi dal privilegiare gli interessi del minore, come pure si proponeva in teoria la legge n. 151 del 1975 (di riforma del diritto di famiglia), si dimostra funzionale solo agli interessi di padri poco consapevoli e responsabili, che chiudendo i rapporti con l’ex coniuge pensano di non avere più altro dovere verso i figli che la corresponsione di un assegno, e di madri frustrate o morbosamente possessive che intendono servirsi dei figli per consumare vendette nei confronti dell’ex marito. Sotto altro profilo il modello di affidamento esclusivo determina, in non pochi casi, pericolosi disequilibri all’interno della famiglia: da un lato la madre è costretta a ricoprire il difficile ruolo di educatrice ferma e severa, un ruolo tipicamente disciplinare, a combattere con i problemi quotidiani legati alla scuola, alle malattie, agli impegni, alle amicizie dei figli; dall’altro, il padre, che vede la prole soprattutto a fine settimana, cerca di colmare la distanza fisica rendendo per i figli il più piacevole possibile il poco tempo trascorso insieme anche attraverso lusinghe di carattere ludico e monetario (7).
Su questo terreno può eventualmente innestarsi un disturbo ancora poco esplorato, soprattutto nel nostro Paese, che va sotto il nome di “Sindrome di alienazione parentale” (SAP): trattasi di una forma di disagio psicologico che affligge il genitore affidatario, che ritiene controproducente, se non pericoloso, il rapporto dei figli con l’altro genitore, e che pertanto pone in essere una serie di strategie allo scopo di escluderlo dalla vita dei figli. Il risultato di tale atteggiamento è la nascita di una sorta di alleanza tra il genitore affidatario e il minore, il quale finisce per nutrire, e dimostrare, astio e disprezzo nei confronti dell’altro genitore, il quale, a prescindere da reali comportamenti pregiudizievoli o colpevoli, è visto come l’assente, l’indifferente, il responsabile del naufragio della famiglia (8). Le conseguenze possono essere particolarmente gravi sia per il minore che per il genitore escluso: sotto il primo profilo non sono pochi i casi di minori coinvolti in casi di SAP che sono diventati giovani con disagi psicologici anche notevoli, come l’indebolimento della capacità di provare simpatia o antipatia, o mancanza di rispetto per l’autorità, anche estesa a figure non genitoriali come insegnanti o datori di lavoro. In secondo luogo, non è raro che le cronache diano notizia di gesti estremi compiuti da genitori non affidatari, come omicidi, rapimenti, ma soprattutto suicidi (9).


2. Dall’affidamento esclusivo all’affidamento congiunto.
A queste problematiche, comuni a tutti i Paesi ove esistano separazione e divorzio, si è da tempo cercato di dare soluzione mediante l’introduzione di forme diverse di affidamento ad entrambi i genitori, utilizzate in misura crescente praticamente in ogni parte civilizzata del mondo. Per quanto riguarda, in particolare, l’Europa, i vari Stati stanno modificando uno dopo l’altro i propri ordinamenti giuridici per riconoscere nella condivisione dell’affidamento la soluzione più idonea a salvaguardare l’interesse del minore. Così hanno fatto, ad esempio, Paesi largamente eterogenei come la Svezia, la Grecia e la Spagna (fino dal 1981), il Regno Unito (Children Act del 14 ottobre 1991), la Francia (legge 8 gennaio1993), il Belgio (legge 13 aprile 1995), la Russia (legge federale n. 223 del 29 dicembre 1995), l’Olanda (legge 1° gennaio l998) e la Germania (legge 1° giugno 1998). In questo modo l’Europa si sta adeguando alla Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176 (10).
Per quanto riguarda specificamente il nostro Paese con la legge 6 marzo 1987 n. 74, in sede di riforma della legge 1° dicembre 1970 n. 898, si è introdotta una disposizione – ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità applicabile anche alla separazione personale – in base alla quale “ove il tribunale lo ritenga utile nell’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato” (art. 6, comma 2, ultima parte).
Il regime di affidamento congiunto garantisce ai figli di non perdere la vicinanza ed il contributo educativo di entrambi i genitori facilitando inoltre la continuità della storia familiare; permette ad entrambi di esercitare diffusamente la potestà parentale (11).
Al di là di qualche apprezzamento per il coraggio mostrato dal legislatore, le reazioni al nuovo modulo di affidamento sono state, sia in dottrina che in giurisprudenza, prevalentemente di scetticismo. Così mentre taluno (Trabucchi) ha sostenuto che la scelta legislativa, maturata nel diverso humus della vita familiare americana, era ben distante dalla realtà dei nostri nuclei familiari, altri (A. Finocchiaro) ha opposto che l’istituto andava utilizzato con molta prudenza e richiedeva un generale accordo delle parti (12).
Sul piano pratico l’affidamento congiunto è stato scarsamente applicato nei Tribunali per due ordini di ragioni. Anzitutto per un ostacolo di carattere processuale legato alle modalità con le quali è assunta la decisione di affidamento nei giudizi di separazione e di divorzio: in sostanza l’affidamento viene oggi stabilito nella rapidissima udienza presidenziale, nella quale il magistrato non ha ancora elementi di giudizio per scegliere consapevolmente entro l’intera gamma di possibilità offerte dalla legge e quindi si affida alla tradizione, consegnando quasi sempre i figli alla sola madre; né serve che tale provvedimento sia provvisorio, perché anche quando, al termine di un giudizio, si conclude che sarebbe stata preferibile una soluzione diversa, essendo ormai passato molto tempo si finisce per lasciare le cose come stanno per evitare di turbare nuovamente la prole. In secondo luogo alla scarsa utilizzazione dell’affidamento congiunto hanno concorso in maniera determinante i limiti legati alle sue rigorose condizioni di applicabilità, quali enucleati dalla giurisprudenza di merito. Invero, nei pochi casi in cui è stato sperimentato, l’istituto è stato costantemente inteso come “esercizio congiunto della potestà”, nel senso che anche le decisioni su questioni di minimo rilievo devono avere il nulla osta contemporaneo di entrambi i genitori; e si è così andati incontro a frequenti fallimenti del tutto scontati.
Inoltre, questa lettura strettamente associativa dell’affidamento congiunto ha fatto sì che una bassissima conflittualità ne fosse indispensabile premessa (13), rendendo con ciò effettivamente l’istituto un inutile artificio giuridico (14), poiché ovviamente in tale ipotesi funziona bene qualunque soluzione. Per giunta, sono stati anche introdotti, e in larga misura richiesti, altri “prerequisiti” – dalla vicinanza delle abitazioni all’età elevata dei figli – che ne hanno ulteriormente ridotto le possibilità di applicazione (15).
Sebbene a cavallo tra gli anni ’90 e 2000 si è avuta una rivoluzione del ruolo dei padri che, da assenti o ufficiali pagatori, si sono lentamente riappropriati, a volte in maniera responsabile, dei compiti di cura, istruzione ed educazione della prole, prima pressochè integralmente delegati alle madri, ciononostante le statistiche ufficiali dimostrano che l’affidamento congiunto ha continuato a recitare un ruolo assai marginale e limitato (circa il 4%) nell’ambito dei provvedimenti adottati in sede di separazione e divorzio (circa il 96% di affidamenti alla madre).


3. Il nuovo modello di affidamento condiviso.
Nel presentare una nuova proposta di legge (progetto Tarditi, presentato il 30 maggio 2001) è apparso quindi indispensabile, per evitare pericolosi equivoci, sottolineare la diversità dei suoi contenuti rispetto a quelli assegnati in giurisprudenza all’affidamento congiunto abbandonando tale termine e sostituendolo con quello di “affidamento condiviso“, anche se in sostanza si intende solo mantenere il tipo di relazione genitori/figli vissuto in costanza di matrimonio, superando del tutto il concetto di affidamento come “novità” specifica, riservata alla coppia separata con prole.
In sostanza si è ritenuto fondamentale eliminare il problema della scelta del genitore più idoneo ad essere unico affidatario, nella convinzione che i genitori sono “entrambi” necessari ai figli per una crescita armoniosa e che quella conflittualità così spesso invocata per giustificare la soluzione monogenitoriale è invece in gran parte la “conseguenza” di essa (16).
Da allora per quattro anni si sono succedute altre proposte di legge sulle quali si è svolto un ampio e vivace dibattito, sia in Parlamento che sui media, approdato al testo definitivo di legge approvato il 24 gennaio 2006.
Centrale nella legge è l’idea espressa in modo specifico all’articolo 155 novellato del codice civile, che la bigenitorialità non è solo una legittima rivendicazione del genitore escluso dall’affidamento e relegato alla mera funzione sostentatrice, ma un “diritto soggettivo del minore”, da collocare nell’ambito dei diritti della personalità. Di modo che per ciascuno dei genitori la presenza nella vita dei figli non è più una facoltà che si può non esercitare o di cui si può privare l’altro, ma un diritto-dovere, per il quale è prevista una tutela, se minacciato, e al quale non ci si può sottrarre, ove faccia comodo, come del resto è sancito dall’articolo 30, comma 1°, Cost. Si è quindi elaborata una normativa che garantisca l’effettività di questa fondamentale affermazione in una dimensione non meramente programmatica, bensì immediatamente precettiva.
Lo strumento giuridico adatto allo scopo è stato visto, come già accennato, nel mantenimento dell’affidamento a entrambi i genitori, indicato come “affidamento condiviso” (art. 155, comma 2° c.c.), coerentemente configurato quale soluzione principale e ordinaria, e non più meramente residuale rispetto all’affidamento monogenitoriale. Si è dunque voluto sottolineare che i genitori “restano” responsabili nei confronti dei figli e “restano” investiti dei compiti di educazione e cura, a prescindere dall’evoluzione dei loro rapporti interpersonali. E’ sintomatico del resto che la legge non parla più di coniugi, bensì di “genitori”, disinteressandosi del rapporto affettivo esistente tra di essi (17).
La riforma amplia il contenuto del diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, estendendolo alla conservazione di “rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Detta disposizione è “bidirezionale”, ponendosi, per un verso, quale regola di condotta per i genitori (soprattutto quello presso cui è collocato il minore) e consentendo, per altro verso, al giudice, in caso di acclarata conflittualità, di disciplinare compiutamente, fin dall’inizio della fase giudiziale della separazione, anche ex officio, i rapporti tra il minore ed il contesto parentale significativo (18). Emergono in tal modo figure, quali soprattutto quelle dei nonni, che nella vita quotidiana costituiscono importanti punti di riferimento per il minore ma che la prassi giuridica della separazione ha quasi sempre trascurato se non del tutto ignorato, a differenza di quanto avviene nei tribunali per i minorenni dove sono frequenti procedimenti de potestate in cui si reclama il diritto dei minori al rapporto con i nonni.
E’ presto per dire come avverrà l’attuazione pratica di questi diritti, che viene rimessa agli accordi dei genitori o al provvedimento del giudice. Dal punto di vista processuale è da escludere che i nonni e i parenti assumano, in virtù della nuova legge, la qualità di litisconsorti necessari nel processo di separazione, mentre appare assai dubbio il riconoscimento di una loro legittimazione all’intervento ex art. 105 c.p.c., tenuto conto che il diritto tutelato in via diretta è quello dei minori. Resta invece certamente possibile l’audizione di tali soggetti da parte del presidente del tribunale o del giudice istruttore, nell’esercizio dei loro poteri officiosi.
Criterio guida nell’adozione dei provvedimenti di affidamento resta quello dell’interesse morale e materiale della prole minore, con riferimento al quale il giudice deve valutare prioritariamente la possibilità di un affidamento ad entrambi i genitori; l’affidamento monogenitoriale resta confinato all’ipotesi residuale in cui il giudice “ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore” (art. 155 bis c.c.) .
La nuova disciplina comporta dunque una sorta di rivoluzione copernicana rispetto alla precedente normativa, che vedeva nell’affidamento esclusivo il modello prioritario.
Nelle intenzioni del legislatore il modulo di affidamento condiviso sarebbe da preferire a prescindere dal livello di conflittualità esistente tra i coniugi (19), ma sarà indubbiamente l’esperienza pratica a dimostrare il grado di recettività del nuovo modello in funzione di quell’interesse del minore che ne costituisce anche il limite di utilizzabilità, atteso il diritto del minore stesso di non subire le conseguenze pregiudizievoli di forme di affidamento che potrebbero acuire la conflittualità tra i coniugi.
Certo è che se fosse sufficiente invocare l’esistenza di un contrasto tra i genitori per escludere l’affidamento condiviso sarebbe totalmente frustrata la ratio della legge, poiché non esiste in pratica separazione personale dei coniugi che non sia accompagnata da dissapori reciproci tra di loro. Deve sussistere, pertanto, una situazione di fatto oggettivamente grave (quale, ad es., il trasferimento delle residenze dei genitori in luoghi così distanti tra loro da essere impossibile, o pregiudizievole per i figli, un continuo alternarsi tra le stesse; l’assenza del genitore protratta per molti anni, o il suo totale disinteresse verso il figlio, per non parlare dei casi gravi come la violenza fisica o morale esercitata sulla prole.) che sconsigli il ricorso al nuovo modulo di affidamento, sebbene non occorre che sussistano addirittura i presupposti per l’adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c.
Naturalmente, potendo l’affidamento condiviso essere di pregiudizio al minore sia ab origine sia per effetto di circostanze sopravvenute al provvedimento di affidamento, è previsto che “ciascuno dei genitori, in qualsiasi momento” possa chiedere l’affidamento esclusivo (art. 155 bis, comma 2) (20).
Sennonché non si può fare a meno di sottolineare che la nuova legge, ad onta delle affermazioni di principio, rischia in concreto di garantire maggiormente gli interessi degli adulti a scapito dell’interesse della prole. Invero, per un verso, non v’è alcuna enunciazione di parametri oggettivi alla cui stregua valutare in quali casi ricorra un effettivo interesse del minore all’affidamento esclusivo piuttosto che a quello condiviso. Per altro verso, non può tacersi che le probabilità di successo dell’affidamento condiviso dipendono dall’esistenza tra i coniugi di un preciso ed equilibrato accordo nel quale debbano essere fissati, il più analiticamente possibile, i contenuti di quel modulo. Sotto questo profilo la disciplina attuale (secondo cui il giudice “prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”) è più edulcorata rispetto a quella prevista dal disegno di legge originario, che imponeva ai coniugi la presentazione di un vero e proprio “progetto condiviso”, contenente i patti da loro concordati circa i rapporti di ciascuno con il minore, eventualmente anche a seguito di una mediazione familiare preventiva; è accaduto, infatti, che nel corso dei lavori preparatori la prospettiva è mutata e la stessa mediazione familiare (meramente facoltativa) è ora prevista solo nella fase endoprocessuale.


4. Il ruolo della mediazione familiare ed i poteri del giudice.
L’affidamento condiviso si fonda sul principio che il fallimento di due individui come coppia non comporti necessariamente il loro fallimento come genitori: per evitare al minore il trauma legato alla perdita di un genitore, è fondamentale che durante la separazione i coniugi riescano a differenziare i problemi legati alla conflittualità della coppia da quelli relativi al proprio ruolo di genitore.
Questa aspirazione della nuova legge investe una problematica che il legislatore avrebbe potuto affrontare e risolvere una volta per tutte e che, invece, è stato completamente ignorato: il supporto del mediatore familiare.
La mediazione familiare si ascrive in senso ampio nell’ambito delle tecniche, di origine anglosassone, di gestione e soluzione delle controversie, note come ADR – Alternative Dispute Resolution (risoluzione alternativa delle controversie): il termine comprende tutti i sistemi di composizione informale del conflitto in contrapposizione alla composizione giudiziale, inteso come gestione formalizzata della lite.
L’ADR si è sviluppata per la necessità di contenere i tempi, i costi, il formalismo e la rigidità del giudizio ordinario.
Sennonché la mediazione familiare si distingue sotto vari profili dagli altri mezzi di composizione amichevole (transazione, conciliazione, arbitrato) soprattutto perché non mira alla soluzione di conflitti, e tantomeno ad una conciliazione, ma tende a ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto, ovvero a favorire una tregua tra i coniugi, una ripresa del dialogo tra loro (21).
Se il linguaggio del giudice è quello di chi deve decidere, quando il conflitto non ha altri sbocchi, il ruolo del mediatore è invece quello di occupare uno spazio diverso, di far riemergere le emozioni reciproche che consentano ai litiganti di riconoscersi come persone e di riappropriarsi della capacità di gestire autonomamente il conflitto.
La mediazione è un percorso (attraverso vari incontri: 10-12) in cui un terzo imparziale (22) (o più spesso una coppia di mediatori) aiuta i coniugi, su loro sollecitazione, ad elaborare in prima persona gli accordi che meglio rispondano ai bisogni di tutti i membri della famiglia, con particolare riguardo agli interessi dei figli.
L’elemento qualificante di ogni tipo di mediazione è proprio lo specifico ruolo attribuito alle emozioni, al conseguimento della pacificazione per effetto dello scoccare di una scintilla empatica che avvicina i contendenti.
Al rigore metodologico deve sapersi coniugare l’arte del “sentire”.
Il mediatore non risolve il problema, non riporta giustizia, non è il deus ex machina: le ragioni bisogna trovarle dentro se stessi; al limite il mediatore farà da ostetrico, da maieutikòs (23).
Nei procedimenti di famiglia, ed in quelli di separazione e di divorzio in particolare, conciliazione e mediazione non sono due concetti sovrapponibili o assimilabili sotto un unico quadro di riferimento ma, almeno se si vuole avere riguardo a quella che comunemente viene intesa come mediazione familiare in senso tecnico, rappresentano due diverse metodiche di approccio al conflitto, proprie di soggetti caratterizzati da diverse professionalità, condotte attraverso interventi di segno diverso e che si collocano in tempi e ambiti fra loro difformi, quantunque per certi versi omogenea sia la finalità ad entrambi sottesa, ovvero quella di spostare la risoluzione del conflitto da un ambito totalmente e radicalmente giurisdizionale a quello di una raggiunta condivisione: e sarà così che l’intervento autoritativo potrà cedere il passo ad una più diretta responsabilizzazione delle parti contendenti, secondo quel progetto di graduale e “morbida” degiurisdizionalizzazione delle relazioni che massima considerazione deve trovare nei conflitti di natura familiare.
La mediazione familiare, di origine statunitense, si è diffusa progressivamente in tutta l’Europa negli anni 80, soprattutto grazie alle esperienze francesi ed inglesi.
In Italia la mediazione comincia ad essere sperimentata alla fine degli anni ’80, mentre la produzione normativa risale alla metà degli anni ’90. La sperimentazione avviene sulla base di norme già esistenti oppure di leggi che parlano specificamente di mediazione familiare ovvero che individuano spazi di operatività funzionali a legittimare tale tipo di intervento in ogni contesto (famiglia, scuola quartiere, etc.): v. artt. 155 c.c., artt. 6 e 9 l. 898/70, artt. 330 e 333 c.c.; art. 317 bis c.c., art. 731 c.p. Si avverte comunque la necessità di regolamentazione organica a livello legislativo, anche se da vari anni si susseguono diversi disegni di legge al riguardo.
Con particolare riguardo alla scelta legislativa del nuovo modulo di affidamento, nella proposta di legge n. 66, nota come Pdl Tarditi, e nei progetti di legge concorrenti si oscilla tra facoltatività ed obbligo della mediazione familiare.
Il progetto di legge della Camera dei Deputati n. 2594 del 28 marzo 2002, relativo alla “Istituzione della figura professionale del mediatore familiare”, proponeva l’inserimento nel codice di rito di un art. 708 bis, rubricato “tentativo di mediazione familiare” in base al quale “in ogni stato e grado dei giudizi di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di successiva modifica delle relative condizioni, in presenza di figli minori, nonché nei procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni o del giudice tutelare, qualora ne ravvisi la necessità, il giudice può invitare le parti ad avvalersi dell’attività di un mediatore familiare presente nel territorio di residenza di entrambe o di una sola delle parti”. Era evidente, in questo disegno di legge, la volontà di configurare un “tentativo facoltativo di mediazione”.
Tale soluzione è stata accolta in Francia nella loi 305/2002 relative à l’autoritè parentale, in base alla quale il giudice ha facoltà di proporre ai genitori una misura di mediazione e, ricevuto il loro consenso, procede alla designazione di un mediatore familiare per procedere.
Nel c.d. Testo Unificato Paniz 1 (aprile 2003), intitolato “Affidamento condiviso” era prevista l’inserzione di un art. 709 bis c.p.c. (“Camera di mediazione”), in virtù del quale nel provvedimento di affidamento condiviso, nei casi in cui fosse disposto (art. 155 ter c.c.), dovesse essere inserito, d’ufficio o su comune indicazione dei coniugi, il nominativo di un centro o di un esperto di mediazione familiare, ai quali le parti avevano l’obbligo di rivolgersi, per la soluzione dei conflitti in ordine all’esercizio delle potestà o alle modalità dell’affido condiviso, prima di adire il giudice. Solo ove la mediazione non avesse prodotto risultati le parti potevano rivolgersi al giudice.
La stessa impostazione si ritrova nel successivo testo di sintesi c.d. Paniz 2 del 22 luglio 2003.
E’ evidente il cambiamento di rotta rispetto ai progetti del 2002: nei progetti Paniz 1 e 2 si coglie l’intento di introdurre un “tentativo obbligatorio di mediazione”.
Sennonché le reazioni della dottrina e delle stesse associazioni dei mediatori familiari alla previsione dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione è stata alquanto energica (24), sull’assunto che la spontaneità dell’adesione dei genitori al percorso mediativo costituisce presupposto indefettibile per la buona riuscita della mediazione stessa. Ne sono seguiti emendamenti al suddetto progetto di legge finalizzati ad eliminare l’obbligatorietà dell’incontro con il mediatore o a trasformarlo, quantomeno, in un “invito” da parte del giudice.
Il testo licenziato dalla Commissione giustizia della Camera dei Deputati dell’8 febbraio 2005, intitolato “Disposizioni in materia di separazione dei coniugi e affidamento condiviso dei figli”, ha eliminato l’art. 709 bis c.p.c. sulla mediazione familiare previsto dal testo Paniz, limitandosi a stabilire nell’art. 155 c.c. che i coniugi debbano concordare le modalità dell’affidamento condiviso in un “progetto di affidamento condiviso”, obbligatoriamente allegato alla domanda di separazione, del quale il giudice debba prendere atto, decidendo solo in caso di disaccordo.
L’ultimo testo del d.d.l. n. 3537, definitivamente approvato il 24 gennaio 2006, non contiene più alcun riferimento esplicito alla mediazione familiare; un cenno alla mediazione è contenuto solamente nella parte finale del testo legislativo (art. 155 sexies c.c.), quale percorso eventuale nell’ambito di una lite già iniziata.
Tale grave omissione rischia in concreto di accrescere le difficoltà applicative del nuovo modulo di affido condiviso, posto che viene a mancare l’occasione di indirizzare le parti in conflitto verso un processo di mediazione che, con il necessario supporto di un professionista, aumenti significativamente le possibilità di raggiungere un accordo e, soprattutto, le possibilità che tale accordo venga rispettato e mantenuto nel tempo.
Lo stesso concetto di “condivisione” implica una nuova cultura del dialogo tra genitori, capaci autoresponsabilmente di pianificare il futuro dei loro rapporti con la prole nonostante l’evento separativo, anziché subire passivamente le decisioni imposte autoritativamente dal “giudice”.
Ed invece, paradossalmente, ad un timido accenno all’ausilio di esperti si contrappone, nel testo finale della nuova legge, un’esaltazione della competenza decisionale e dei poteri del giudice, in difetto di accordi convincenti tra le parti.
Il testo novellato dell’art. 155, comma 2, c.c. prevede, infatti, che il giudice “valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”. Alla luce dei tre predicati verbali presenti nella disposizione (“valuta …, determina …, fissando altresì …”) è evidente che al giudice è attribuito il potere di “valutare” se l’affidamento ad entrambi i genitori appare plausibile, di “determinare” il collocamento del minore e di “fissare” le modalità della contribuzione (25).
E’ pur vero (come del resto emerge dai lavori preparatori) che l’intera proposizione va collegata alla frase successiva (“prende atto, se non contrari agli interessi dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”), ma il vero problema è proprio quello della prevedibile assenza (in molti casi) di una piattaforma concordata, che finisce inevitabilmente per potenziare il ruolo decisionale del giudice.
Così ancora, in base al comma 3° dell’art. 155 c.c. (26), è il giudice a dover offrire una soluzione in caso di disaccordo tra i genitori relativamente alle decisioni di maggior interesse per i figli (istruzione, educazione, salute) e a poter, inoltre, stabilire che i genitori esercitino separatamente la potestà limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione (il che sarà inevitabile, ad esempio, allorché i genitori abitino in città diverse e distanti o vi sia un’elevata conflittualità). In tal caso all’esercizio pieno della potestà da parte dei genitori si sostituisce un esercizio della potestà definito dal giudice, ampliato per un genitore e limitato per l’altro o distribuito per incarichi differenziati.
Ai sensi del comma 4° dello stesso articolo, salvo accordi diversi liberalmente sottoscritti dalle parti, è il giudice che stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, tenuto conto che la regola generale diventa il mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, cd. mantenimento diretto (27).
E’ ancora il giudice che può disporre, in base all’art. 155 bis c.c., l’affidamento esclusivo del minore ove ritenga che l’affidamento condiviso sia contrario all’interesse del medesimo.
L’art. 155 sexies c.c. è poi specificamente dedicato ai poteri istruttori del giudice, il quale può assumere, su impulso di parte oppure d’ufficio, mezzi di prova, nonchè disporre accertamenti sui redditi, tramite polizia tributaria, anche verso «soggetti diversi» (per es. parenti, ma anche società) (28).
E’ prevista espressamente l’audizione nel giudizio del figlio minore ultra-dodicenne (o di età inferiore ove capace di discernimento), anche se non ne sono disciplinate le modalità (29). Infine la norma richiama la possibilità di un intervento mediatorio ove il giudice ne ravvisi l’opportunità e i coniugi siano d’accordo, ma non ne vengono specificati nè i tempi nè le modalità.
Appare fin troppo evidente che nel nuovo testo approvato rimane la regola per cui a decidere è il giudice, mentre nei progetti Paniz 1 e 2, ed anche nel testo unificato del febbraio 2005, il giudice si limitava a prendere atto degli accordi intervenuti tra i genitori nel progetto di affidamento condiviso, purchè non palesemente contrari agli interessi dei figli, dovendo invece prendere provvedimenti solo in caso di disaccordo tra i genitori e tenendo conto delle rispettive proposte.
L’opzione legislativa è stata quindi quella di inserire il percorso di mediazione familiare all’interno del procedimento di separazione o divorzio solo previo consenso delle parti, qualora il giudice ne ravvisi l’opportunità; emerge inoltre che la scelta dell’esperto, necessario per raggiungere un accordo, è lasciato alle parti (ancorché sarebbe preferibile una specifica indicazione in tal senso da parte dell’autorità giudiziaria).
Va, peraltro, sottolineato che la nuova disciplina, nel suo insieme, rimane alquanto vaga sotto vari profili: a) la figura del mediatore non viene identificata, poiché si parla genericamente di “esperti”; b) quanto alla scelta dell’esperto, sembra eccessiva la libertà lasciata alle parti, le quali, in una fase particolarmente delicata della loro vita, dovrebbero essere indirizzate se non dal giudice quanto meno dagli avvocati; c) non viene indicato il momento più opportuno per tentare la mediazione (anteriore oppure in qualunque fase del processo; d) non viene disciplinata in alcun modo l’efficacia (in termini di vincolatività o meno) dell’accordo raggiunto al termine del percorso di mediazione.
Tale vaghezza costituisce in qualche modo il riflesso del clima di sfiducia o, quanto meno, di diffidenza serbato dagli operatori giuridici e, più in generale, dall’opinione pubblica nei confronti della figura del mediatore familiare, per molti aspetti ancora inesplorata; il che ripropone il problema dei requisiti di accesso alla categoria del mediatore familiare, alla sua specifica professionalità ed ai suoi rapporti con l’avvocatura (soprattutto per evitare qualsivoglia conflitto di interesse).
In occasione di un’indagine empirica condotta tramite interviste a dieci mediatori sociali operanti presso Centri di mediazione esistenti in Italia, è emerso anzitutto che non è chiaro, allo stato, se la mediazione debba essere intesa come un’attività professionale, svolta da un gruppo ristretto di persone formate e retribuite (30), o viceversa come un’attività informale e diffusa, realizzata da e per i cittadini, quale forma di lavoro civico ed a titolo gratuito. Questa diversa prospettiva sembra condizionare poi le opinioni dei mediatori italiani circa l’opportunità di adottare un codice deontologico, o un albo professionale, o di rendere obbligatorio, almeno in alcuni casi, un tentativo di mediazione prima di poter adire il giudice.
Quanto alla formazione che i mediatori intervistati hanno ricevuto, indipendentemente dalla scelta di dedicarsi alla mediazione, si è rilevato che la metà ha una preparazione di tipo giuridico (laurea in giurisprudenza, accompagnata spesso da un interesse per la criminologia o l’antropologia criminale) e l’altra metà si è formata invece nel campo delle scienze umane o psicologiche, laureandosi in psicologia, pedagogia, oppure seguendo i corsi per diventare consulente familiare.
E’ opportuno e necessario che il legislatore si faccia carico di queste problematiche attraverso una chiara definizione della figura del mediatore familiare e del suo inquadramento professionale (31), ovvero attraverso l’indicazione di un percorso alternativo (32) capace di offrire alla coppia un valido ausilio per recuperare quel dialogo costruttivo, presupposto indispensabile per il buon funzionamento del modello di affidamento condiviso.
Ho sempre pensato che una discreta separazione consensuale o, comunque, un accordo mediamente soddisfacente siano preferibili rispetto ad una buona, dotta, saggia e anche obiettivamente giusta sentenza, non foss’altro perché i primi sono il frutto di un’autoregolamentazione, espressione della volontà delle parti direttamente e profondamente coinvolte nel conflitto, mentre l’altra, per contro, proviene dall’esterno, da soggetti che possono solo sperare di avere compreso e colto qualche aspetto della realtà affettiva, emotiva e relazionale di quella coppia, senza alcuna certezza al riguardo: se questo è vero, si avrà come conseguenza che l’ausilio fornito al processo dal mediatore o da altro esperto professionale (33) potrà contribuire a rendere quel processo più equo e più giusto per le parti ed i loro figli, ovvero più aderente ai loro molteplici bisogni, realizzando una nuova cultura di pacificazione e contribuendo alla promozione di una nuova forma di giustizia variamente definita “giustizia emozionale, dei sentimenti, del quotidiano”, che tiene conto non soltanto dei diritti sanciti legislativamente ma anche dei bisogni affettivi e relazionali, dei reali interessi delle parti e non degli pseudointeressi spesso rappresentati nel processo.


Dott. Luciano Guaglione


Note










  1. Cfr. Cass., 14 aprile 1988, n. 2964, in Giust. civ. Mass. 1988, fasc.4, secondo cui: “In tema di separazione tra coniugi, i provvedimenti riguardanti l’affidamento della prole vanno adottati con esclusivo riferimento all’interesse materiale e morale di essa. Pertanto gli stessi non possono essere disposti nè intesi come premio o punizione per l’uno o per l’altro dei genitori, ma devono essere ispirati al criterio del minor danno che ai figli possa derivare dalla disgregazione familiare, prescindendo dalla responsabilità dell’uno o dell’altro coniuge, indipendentemente dalle richieste delle parti e del loro eventuale accordo. Pertanto, il giudice, nell’effettuare tale affidamento deve soltanto tener conto della maggiore idoneità dal punto di vista di vista materiale, psicologico ed affettivo dell’uno o dell’altro dei genitori ad assicurare la tutela e lo sviluppo fisico, morale e psicologico del minore. Nello stesso senso, v. Cass., 4 maggio 1991, n. 4936, in Nuova giur. civ. commentata, 1992, I, p. 90 (con nota di HUBLER, Trasferimento all’estero ed identità etnica. La difficile individuazione dell’esclusivo interesse del minore), secondo cui “La statuizione sull’affidamento del figlio prescinde del tutto dai rapporti tra i coniugi e dai comportamenti che hanno determinato la separazione: il riesame sulla addebitabilità della separazione non influisce sulla pronuncia relativa all’affidamento, che d’altronde va adottata con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale del figlio”.








  2. Il padre della SAP è considerato Richard A. Gardner, della Columbia University di New York, il quale sottolinea che il disturbo emerge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli: un genitore (“alienatore”) pone in essere un vero e proprio programma di denigrazione contro l’altro genitore (“alienato”), fino ad allontanarlo totalmente, ad alienarlo, appunto, dalla vita del figlio. Occorre tuttavia precisare che non tutte le ipotesi di “denigrazione” di un genitore nei confronti dell’altro possono ricondursi allo schema della Sindrome di alienazione parentale. Per la diagnosi di SAP infatti non è sufficiente che un genitore ostacoli semplicemente il rapporto dell’altro genitore con i bambini, o che manifesti una certa ostilità nei suoi confronti, cercando di trascinare il figlio dalla propria parte nella “guerra” che spesso consegue alla separazione. Perché possa parlarsi di vera sindrome di alienazione parentale infatti è necessario che sussistano alcune precise condizioni. Anzitutto, il genitore alienato deve essere “innocente”, sicchè in presenza di reali abusi o di un effettivo atteggiamento di trascuratezza e disinteresse, la diagnosi di SAP non è applicabile. In secondo luogo, occorre che il bambino rivesta un ruolo attivo nel processo di alienazione, non bastando un semplice “lavaggio del cervello”: il bambino infatti fornisce un suo personale contributo alla campagna di denigrazione.










  3. In tale ottica separazione consensuale e divorzio congiunto costituiscono la base ideale per la sua realizzazione, ma non mancano esempi in cui la giurisprudenza ha ritenuto di poter disporre l’affido congiunto anche in ipotesi di separazione giudiziale: cfr., al riguardo, Trib. Milano, 19 gennaio 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1997, secondo cui “(…) L’affidamento congiunto nel caso di specie non rispecchia quindi un’attuale disponibilità dei genitori a dialogare nell’interesse della figlia, ma deve esser recepito come un provvedimento che imponga ai genitori di aprire quel dialogo e quella collaborazione cui sino ad oggi, pur avendone la possibilità, non hanno voluto dare attuazione. Questo affidamento congiunto si ritiene risponda all’imprescindibile esigenza della minore di non sentirsi colpevole e responsabile, nel conflitto genitoriale, della sconfitta dell’uno o dell’altro”.








  4. Fermo restando l’affidamento condiviso, fermamente voluto dal legislatore, non ne sono stati disciplinati gli aspetti pratici, per i quali il legislatore non ha inteso precisare alcun principio.
    In base al previdente regime ordinario (di affidamento esclusivo) il figlio conviveva con il genitore affidatario (quasi sempre la madre) che si occupava quotidianamente di lui, salvo trascorrere con il padre parte dei week end, secondo un calendario di incontri stabilito dal giudice o dalle parti stesse. Di fatto, la situazione non dovrebbe modificarsi con la nuova legge, almeno fin quando il minore non avrà raggiunto un’età tale da potersi spostare facilmente da solo. Insomma, al di là della enunciazione del principio di bigenitorialità, il figlio continuerà a convivere stabilmente in un’abitazione con un genitore, mentre i tempi e le modalità dei rapporti con l’altro genitore saranno stabiliti dalle parti o dal giudice. Sotto questo aspetto, la legge va poco oltre l’aspetto simbolico, fin quando i minori sono piccoli. Cambia invece quando i minori hanno un’età tale da poter trascorrere periodi di tempo con l’uno o l’altro dei genitori. In questo caso, la legge prevede espressamente che siano stabiliti i tempi e le modalità “della loro presenza presso ciascun genitore”. Dei tempi di presenza si terrà conto ai fini dell’eventuale assegno periodico.








  5. La mediazione familiare è comunemente intesa come “quel percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito ad una separazione o ad un divorzio. In un contesto strutturato il mediatore, come terzo neutrale e con una formazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i coniugi elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i propri figli”: questa è la definizione adottata dalla Società Italiana di Mediazione Familiare (S.I.Me.F.), associazione fondata nel 1995 allo scopo di promuovere e coordinare l’attività di mediazione, di chiarire e individuare i requisiti di professionalità del mediatore, le linee guida e i profili deontologici ai quali il mediatore deve improntare il proprio intervento.


  6. Il mediatore deve essere super partes, nel senso cioè che non deve avere nessun legame con l’uno o con l’altro e non deve neppure avere una conoscenza diretta della vicenda o essere in qualche misura interessato alle modalità attraverso le quali la stessa potrà trovare la sua definizione: deve, cioè, essere equidistante rispetto ad entrambe le parti in quel momento contrapposte, perché solo da una perfetta neutralità così intesa potrà prendere le mosse il suo lavoro maieutico sulle persone.
    Anche il giudice della separazione e del divorzio, si dirà, è un soggetto terzo e neutrale perché questa sua terzietà è connaturata alla stessa sua figura istituzionale, ma il mediatore deve avere una neutralità diversa e, se possibile, di grado ancora più elevato: se la mediazione dovesse fallire, infatti, il giudice sarà necessariamente chiamato a decidere, e la consapevolezza di questo ruolo di fatto gli impedisce di svolgere una funzione mediativa in senso tecnico, con l’effetto che potrà il giudice procurare una conciliazione ma non potrà mai assumere la veste di mediatore familiare.








  7. La nuova norma conferisce ad entrambi i genitori l’esercizio congiunto della potestà e dell’amministrazione. Dalla straordinaria amministrazione, esercitata solo congiuntamente, va però distinta l’ordinaria amministrazione, per la quale il giudice può stabilire che sia esercitata separatamente. Trattasi ovviamente delle decisioni riguardanti il quotidiano, che mal sopportano di essere posticipate all’incontro tra i genitori ed al loro accordo. Perciò, quando il figlio sta con un genitore, questi è autorizzato a prendere le normali decisioni di vita, non inerenti questioni di rilevante interesse. Tra queste decisioni rientra ovviamente l’orario di rientro a casa il sabato sera, mentre la decisione di iscrivere il figlio ad una gita scolastica potrebbe già rientrare nelle decisioni da prendere congiuntamente: propendendo per l’ipotesi negativa, ci sembra che l’esercizio della potestà sarebbe svuotato di contenuto, limitandosi a pochissime decisioni sul futuro dei figli, tanto limitate da rendere vano il disposto della legge.


  8. Dunque, se i genitori non trovano un accordo diretto, il giudice, tenendo conto dell’affidamento condiviso, fissa la misura e il modo del contributo dei genitori. Ovviamente, va tenuto conto anche in questa fattispecie del principio della proporzionalità del contributo (previsto durante il matrimonio dall’art. 143, comma 3°, c.c.), per cui in caso di disparità economica tra i due genitori, il giudice (o le parti d’accordo tra loro) stabilirà la corresponsione di un assegno periodico di mantenimento, in base alle risorse economiche. Detto assegno, che in modo programmatico (come risulta dal testo dell’art. 155) attua il principio della proporzione tra i redditi dei genitori, diviene strumento di perequazione tra i redditi delle parti, ed ha quindi natura sussidiaria.
    Il vantaggio della nuova normativa è l’eliminazione del concetto di assegno di mantenimento per il figlio corrisposto al coniuge affidatario, sostituito dall’assegno diretto perequativo periodico: sono però sempre possibili diverse interpretazioni, determinate dall’eccessiva vaghezza delle formule utilizzate (tra l’altro non è specificato il termine “periodico” e non è precisato con quali modalità e il beneficiario dell’assegno).
    I criteri programmatici stabiliti dal legislatore per la determinazione dell’assegno, certamente non semplici da valutare, sono i seguenti 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
    Anche se l’elencazione appare esaustiva, potrebbe nascere la questione dell’esclusività o meno dei criteri utilizzabili dal giudice, in particolar modo tenendo conto dell’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole, indicato come parametro generale di tutti i provvedimenti del giudice.
    Riguardo all’assegno, va infine evidenziato che la legge riporta il principio dell’automatico adeguamento agli indici Istat, in difetto d’altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
    Detto principio era stato finora applicato anche ai giudizi di separazione solo in virtù del rinvio effettuato dall’art. 22 della legge n. 74/87 di modifica della legge sul divorzio.










  9. Il disegno di legge n. 66 sull’affidamento condiviso (che si basava essenzialmente su uno studio condotto dall’associazione Crescere insieme: v. M. MAGLIETTA, Il figlio diviso, in Testimonianze, anno XLI (398), p. 111-125, 1998) si preoccupava – attraverso l’art. 155 ter c.c. – di fornire ai genitori, ove necessario, un supporto (centro familiare polifunzionale) per impostare correttamente un nuovo tipo di vita, accettando i necessari sacrifici non tanto per venire incontro ai desideri dell’altro, quanto per rispettare le esigenze del bambino. Il centro era stato pensato come unità in grado di offrire ogni genere di aiuto di cui la coppia possa necessitare: non solo mediazione, ma anche consulenza e terapia familiare. Centri di questo genere – o studi professionali con l’una o l’altra delle qualifiche – sono già attivi in Italia, per cui non esiste un concreto problema di disponibilità di competenze. Appare, tuttavia, necessaria una legge istitutiva che ne disciplini caratteristiche e funzionamento e per essa si è preferito rimandare ad un apposito provvedimento.
    Si riteneva che la domanda di aiuto in tali strutture da parte delle coppie, sia per meglio comprendere l’importanza e l’utilità della presenza di entrambi i genitori per la crescita equilibrata dei figli, sia per costruire concretamente degli accordi, sarebbe stata elevata nella prima fase di applicazione della legge, venendo da una lunghissima tradizione monogenitoriale, mentre evolvendo il costume il ricorso a tale ausilio sarebbe stato sempre meno necessario, rimanendone, tuttavia, essenziale la funzione preventiva rispetto alle separazioni, dovendosi intendere i centri come servizi ai quali ogni coppia in difficoltà avrebbe potuto rivolgersi in qualsiasi momento. L’istituzione dei centri, d’altra parte, soddisfava anche l’esigenza di affidare un tentativo di riconciliazione tra i coniugi a personale con preparazione specifica e con ampie disponibilità di tempo in tutti quei casi in cui il giudice ne ravvisasse la possibilità di successo.
    E’ forse anche utile sottolineare come il modo in cui è prevista la partecipazione della coppia ad un attuale percorso di mediazione rispetti tutti i requisiti richiesti per essa dalla maggior parte dei centri già esistenti in Italia, che sono quelli volontarietà, della segretezza e della separazione dall’ambito giudiziario.