Soluzioni alternative alla crisi d’impresa
di Sido Bonfatti
Relazione tenuta in Trani il 13 maggio 2006 alla seduta inaugurale
del Corso di Formazione per Curatori ed Operatori della Crisi d’Impresa
)







SOMMARIO:


Sezione I
Il “Piano di risanamento dell’esposizione debitoria”.



















Sezione II
Gli “accordi di ristrutturazione dei debiti”.















Sezione III

La esenzione dall’azione revocatoria come strumento di promozione delle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa.























Sezione I
Il “Piano di risanamento dell’esposizione debitoria”


1.Premessa. Le procedure di composizione negoziale delle crisi  d’impresa nella nuova legge fallimentare.
La nuova legge fallimentare persegue l’obiettivo di favorire la tempestiva emersione delle situazioni di “crisi” dell’impresa e di garantirne per quanto possibile il superamento o per lo meno la sistema-zione in modi più efficienti e più efficaci rispetto al passato.
A tale proposito viene agevolata la conclusione di accordi tra l’imprenditore “in crisi” ed i suoi creditori, abbandonando i pregiudizi che questi suscitavano nel passato quando pure fossero stati raggiunti in sede giudiziale (dove si pensava che potessero essere messi nel nulla da una valutazione di “non convenienza”, espressa, per esempio, dal tribunale fallimentare in sede di omologazione del concordato preventivo); e tanto più quando fossero stati raggiunti in sede extragiudiziale (dove addirittura mancava, nella sostanza, una tutela della “stabilità” degli effetti prodotti dalla loro conclusione).
La nuova disciplina del Concordato preventivo esclude che l’autorità giudiziaria possa sovrapporre una propria valutazione di non convenienza dell’accordo raggiunto tra il debitore ed i suoi creditori all’assenso espresso (a maggioranza) da costoro: ed anzi, ribaltando la prospettiva, legittima e investe i tribunali della funzione di valutare se la mancata adesione alla proposta del debitore epressa da una “classe” di creditori, non debba essere considerata priva di effetti per la convenienza dell’accordo “rispetto alle alternative concretamente praticabili “(art.177, co. 2, l.f. come introdotto dal d.-l. n. 35/2005)
La riforma della legge fallimentare, inoltre, favorisce la conclusione di accordi funzionali a prevenire o sistemare le situazioni di “crisi” dell’impresa anche quando la loro formazione sia avvenuta in sede extragiudiziale – e l’autorità giudiziaria venga adita solo perché verifichi l’innocuità dell’accordo rispetto ai creditori che ne siano rimasti estranei – (art. 182- bis l.f.); e finanche quando non via previsto alcun intervento del giudice – cfr.art. 67, co 3,lett. d), l. f. –.
Lo strumento principale con il quale viene favorita la formazione di accordi “collaborativi” tra l’imprenditore ed i suoi creditori (o con terzi in genere il cui intervento può agevolare la prevenzione, il superamento o la sistemazione della “crisi”) è rappresentato dalla previsione di altrettante fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria. Per tale ragione la disciplina delle procedure di composizione negoziale delle “crisi” d’impresa dovrà essere considerata in modo unitario, al fine di valutare se ed in quali situazioni la soluzione della “esenzione” da revocatoria si riveli strumento adeguato al raggiungimento dello scopo di  favorire questo o quel genere di accordi “collaborativi”.
In via preliminare accorrerà peraltro prendere in esame  la disciplina (specie processuale) dei singoli istituti ai quali è demandata la funzione di dare spazio alle possibili forme di collaborazione tra l’imprenditore in crisi e gli altri soggetti interessati.
Del procedimento di Concordato preventivo si è già detto (supra, Cap.II): rimangono pertanto da considerare le (nuove) figure del “Piano di risanamento” e degli “Accordi di ristrutturazione dei debiti”.


2. Il “piano di risanamento” disciplinato dal nuovo art. 67, co. 3, lett.d), l.f. Caratteristiche soggettive ed oggettive dell’istituto.
Il nuovo art. 67, co. 3, lett. d) l.f. introduce una fattispecie di “esenzione”  dall’azione revocatoria per gli atti di esecuzione del “piano” predisposto dall’imprenditore che appaia idoneo a consentire il “ri-sanamento” della sua esposizione e il “riequilibrio” della sua situazione finanziaria.
Il richiamo delle norme dettate in materia di fusione conseguente ad acquisizione con indebitamento (leverage buy out) evoca evidentemente fenomeni di natura societaria: ma non è revocabile in dubbio che il ricorso all’istituto del “piano di risanamento” debba essere consentito anche all’imprenditore (commerciale) individuale (non piccolo), ed in generale a tutti i soggetti suscettibili di essere sottopo-sti a fallimento:  tutti e solo, prevedibilmente, giacchè essendo costituito l’effetto del ricorso all’istituto (esclusivamente) dalla “esenzione” da revocatoria (fallimentare) degli atti posti in essere in esecuzio-ne del “piano” , pare ragionevole circoscriverne la attivabilità ai soli soggetti che, in quanto fallibili, potrebbero vedere sottoposti gli atti posti in essere nell’esercizio della loro attività economica alle a-zioni revocatorie previste dalla procedura fallimentare.
Sotto un profilo oggettivo, il “piano di risanamento” non è necessariamente costituito da un accordo con i creditori: potendo essere rappresentato sia da un accordo con terzi estranei (per esempio, nuovi investitori chiamati a sottoscrivere un aumento di capitale, oppure ad acquistare asset dell’impresa in crisi), sia da un progetto unilaterale (per esempio il conferimento di nuovi beni nell’impresa, o l’erogazione di nuovi finanziamenti da parte dei soci alla società in “crisi”):


3. Segue. “Risanamento della esposizione debitoria” e “ristrutturazione dei debiti” a confronto.
L’intervento sulle criticità che l’impresa in difficoltà presenta dal punto di vista finanziario è descritto, nell’istituto in commento, come la predisposizione di un “risanamento della esposizione debitoria”: mentre nel contesto della procedura di concordato preventivo e del procedimento conseguente alla stipulazione di un “accordo di ristrutturazione” è descritto come “la ristrutturazione dei debiti” (art. 160, co. 1, lett. a) l.f.; art. 182-bis).
Le due espressioni sembrano alludere a fenomeni diversi l’uno dall’altro. Il “risanamento della esposizione debitoria “può essere conseguito tramite la “ristrutturazione dei debiti”: ma la “ristrutturazione dei debiti” non costituisce di per sé (sempre e necessariamente) il “risanamento” della situazione finanziaria dell’impresa.   Quest’ultima, inoltre, può essere conseguito con il ricorso a strumenti diversi, che non siano quelli che intervengono a modificare, nella quantità e/o nelle scadenze, le esposizioni dell’impresa verso i creditori (per esempio lo strumento dell’incorporazione dell’impresa in crisi in altra società più patrimonializzata e più “liquida”, che risulti in grado di fronteggiare le passività verso terzi).


4. Segue. “Risanamento dell’esposizione debitoria” e “riequilibrio della situazione finanziaria”.
Il riequilibrio della situazione finanziaria sembra mirare al conseguimento di una condizione dell’impresa nella quale i debiti verso terzi risultano fronteggiati, per entità e (soprattutto) per scadenza, da corrispondenti crediti vantati verso clienti od altre fonti di liquidità (anche un programma di sottoscrizione di capitale di rischio che i soci si siano già impegnati ad attuare).
E’ da ritenere che la verifica della conseguibilità di questo obiettivo sarà attuata facendo uso delle tecniche di riclassificazione delle poste (di stato patrimoniale) di bilancio, idonee a mettere in luce il grado di liquidabilità degli attivi, a fronte delle caratteristiche di esigibilità delle passività verso terzi.
La dottrina aziendalistica ha tuttavia già fatto notare come la preoccupazione del legislatore abbia in-vestito, nell’occasione, solamente i profili finanziari delle situazioni di “crisi”d’impresa, apparentemen-te disinteressandosi dei (più importanti) profili economici: giacchè il solo conseguimento del riequilibrio finanziario non potrebbe avere l’attitudine (se non nel brevissimo periodo) a superare la situazione di “crisi”, ove non fosse accompagnato dal ritorno ad un equilibrio economico assicurato dalla crea-zione delle condizioni (organizzative, industriali, commerciali) per la produzione di ricavi sufficienti a fronteggiare i costi (nonché a remunerare il capitale di rischio, nonché a rafforzare la struttura pa-trimoniale dell’impresa).


5. Segue. Redazione del “piano “ e profili pubblicitari.
La legge non richiede che il “piano di risanamento” venga reso noto (o conoscibile) ai creditori ed ai terzi.   Esso d’altro canto è destinato a produrre i suoi propri effetti (unicamente) in caso di evoluzione negativa della situazione, conseguente dichiarazione di fallimento, ed eventuale assoggettamento a revocatoria di uno degli atti che vi hanno dato esecuzione.   In tale ipotesi (e solo in tale ipotesi) il “piano” avrà ragione di emergere, per essere utilizzato come “scudo” contro l’iniziativa “recuperatoria” assunta dagli organi della procedura fallimentare.
In questa prospettiva, tutti i primi commentatori ammoniscono – e comprensibilmente – che al “piano” venga comunque conferita “data certa”, al fine di conseguirne l’opponibilità all’eventuale fallimento successivo.   Non meno deciso dovrebbe peraltro essere l’invito ai soggetti che si propongano di avvalersi della protezione del “piano” (principalmente e segnatamente le banche) a pretenderne una ostensione ai possibili controinteressati (in primis gli altri creditori, pregressi e anche futuri, della impresa), per evidenti esigenze di “trasparenza”.


6. Segue. La Relazione del professionista sulla ragionevolezza del “piano di risanamento”.
Il “piano di risanamento” redatto ai sensi dell’art. 67, co. 3, lett. d) l.f. consegue i suoi effetti (di rendere esenti da revocatoria i relativi atti di esecuzione) in tanto in quanto la sua “ragionevolezza” sia attestata “ai sensi dell’articolo 2501-bis, quarto comma, del codice civile”.   La norma richiamata riguarda la disciplina della fusione in ipotesi di “acquisizione (di società) con indebitamento”: e l’affinità tra le due fattispecie viene individuata nell’esigenza di verificare, in entrambe le situazioni, la capacità delle risorse finanziarie in campo (nel nostro caso: le risorse finanziarie contemplate dal “piano) di assorbire l’esposizione debitoria in essere.
Nell’ambito del “piano” (di ristrutturazione dei debiti) presentato dal debitore che chiede l’ammissione al concordato preventivo, la Relazione dell’esperto deve attestare la “fattibilità” del programma proposto dall’imprenditore (art. 161, co. 3, l.f.); mentre nell’ambito dello “accordo” (di ristrutturazione) previsto dall’art. 182-bis l.f. la Relazione dell’esperto deve pronunciarsi sulla sua “attuabilità”.
La differenza delle espressioni utilizzate non sembra volere esprimere corrispondenti diversificazioni concettuali.  In tutti i casi si tratta di congetture, il cui valore è legato alla accuratezza ed alla professio-nalità con le quali sono sottoposte ad esame le ipotesi di lavoro formulate dall’imprenditore, e che nel caso del “piano di risanamento” riguarderanno, essenzialmente, la congruità delle risorse finan-ziarie previste nel piano rispetto al raggiungimento dell’obiettivo del riequilibrio della situazione de-bitoria.


7. Segue. Il rapporto tra la attestazione di ragionevolezza del “piano” e la verifica della veridicità dei dati aziendali di riferimento.
Già ad un primo e sommario confronto, le caratteristiche tecniche dell’attività dell’esperto chiamato ad attestare la ragionevolezza del “piano di risanamento” ex art. 67, co. 3, lett. d) l.f. paiono discostarsi da quelle concernenti l’attività dell’esperto chiamato ad attestare la fattibilità del “piano di ristrutturazione” previsto in sede di Concordato preventivo, in quanto manca, nel primo dei due casi, la previsione dell’obbligo di attestare (anche e preliminarmente) “la veridicità dei dati aziendali” (art. 161, co. 3, l.f.).
Ciò non autorizza peraltro a ritenere che l’esperto chiamato ad attestare la ragionevolezza del “piano di risanamento” possa prescindere dal verificare in via preliminare la veridicità dei dati (contabili e più generalmente “aziendali”) sui quali esso si fonda.   Di più.   Tutte le volte nelle quali l’attuazione del “piano” attribuisca rilievo anche a profili extra contabili (come un programma di dismissione di asset; la previsione di iniezioni di capitale di rischio; ecc.), la Relazione dell’esperto non potrà prescindere dal fornire adeguati elementi di valutazione sulla attendibilità anche di tali profili.


8. Segue. Il richiamo alle norme in tema di leverage buy out per la nomina dell’esperto.
L’attestazione del “piano di risanamento” deve avvenire, come detto, “ai sensi dell’articolo 2501-bis, quarto comma, del codice civile”.   La norma richiamata rinvia, a sua volta, all’altra disposizione prevista nell’art. 2501-sexies c.c.: e tale doppio rinvio ingenera l’incertezza se la disciplina di riferimento debba valere solamente a dare indicazione sul contenuto della “attestazione”, oppure anche sulle caratteristiche e sulle modalità di designazione dell’esperto.
Prevale – e giustamente – la seconda opinione: ed in conseguenza di ciò si dovrà ritenere che l’esperto debba essere costituito almeno da un revisore contabile o da una società di revisione iscritta nell’apposito registro presso il Ministero della Giustizia, salvo doversi necessariamente designare una società di revisione ove la società interessata sia quotata in mercati regolamentati.
Contemporaneamente si dovrà opinare per l’attribuzione al Tribunale (del luogo in cui la società ha sede) della competenza a designare l’esperto, ove si tratti di società per azioni o in accomandita per azioni.


Sezione II
Gli “accordi di ristrutturazione dei debiti”


1. Premessa. Il nuovo istituto degli “accordi di ristrutturazione dei debiti”.
La riforma della legge fallimentare attuata (in parte) con il d.-l. 14 marzo 2005 n. 35 (convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80) ha introdotto nella disciplina delle procedure concorsuali il nuovo istituto concernente gli “accordi di ristrutturazione dei debiti”.  Esso rappresenta (o dovrebbe rappresentate) una risposta all’esigenza di favorire il superamento di situazioni di “crisi” di natura economica e finanziaria dell’impresa mediante la conclusione di un accordo “largo” tra il debitore ed i suoi creditori, verificato nella sua “attuabilità” dall’esame di un “esperto”, e sottoposto al controllo dell’autorità giudiziaria.
La disciplina del nuovo istituto è tutta contenuta nell’art. 182-bis l.fall., introdotto con la richiamata riforma, al quale devono aggiungersi le previsioni contenute nell’art. 67, co. 3, lett. e) – che dichiara sottratti all’azione revocatoria, tra gli altri, “gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione … dell’accordo omologato ai sensi dell’articolo 182-bis” -; nonché le previsioni dettate dall’art. 183 in materia di reclamo contro il provvedimento di omologa del tribunale davanti alla Corte d’Appello, siccome richiamate (“in quanto applicabili”) dallo stesso art. 182-bis. 


2. Segue. Presupposti soggettivi ed oggettivi.
L’art. 182-bis l.fall. attribuisce la facoltà di (concludere e) “depositare” un “accordo di ristrutturazione” concluso con i creditori (rappresentanti almeno il 60% dei crediti) al “debitore”: e ciò impone di valutare se qualsiasi soggetto possa invocare l’applicazione di tale disciplina, oppure se l’istituto riguardi solamente l’imprenditore commerciale non piccolo (cioè l’imprenditore soggetto al fallimento e alle altre procedure concorsuali di diritto comune).   La circostanza che lo “accordo di ristrutturazione” risulti concepito – salvo considerare gli effetti di tale scelta – come una variante, od una articolazione, della procedura di concordato preventivo (nel cui tessuto normativo, che va dall’art. 160 l.fall. all’art. 186, la nuova disposizione dell’art. 182-bis è stata inserita); e la circostanza che a detto accordo sia dato rilievo allo scopo di sottrarne gli atti di esecuzione all’azione revocatoria (fallimentare); inducono a propendere per la soluzione più restrittiva.
Quanto al presupposto oggettivo, nulla è precisato circa la natura e l’intensità della situazione di “crisi” che legittimerebbe l’imprenditore ad invocare l’applicazione dell’istituto. L’art. 182-bis afferma che lo “accordo di ristrutturazione” può essere depositato dal debitore “con la dichiarazione e la documentazione di cui all’articolo 161”: ma il richiamato art. 161 l.fall. non prevede in realtà il deposito di alcuna “dichiarazione”: tanto meno il deposito di (quella che avrebbe potuto, e forse dovuto, essere) una “dichiarazione di stato di crisi” – la norma infatti prevede solo il deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo -.
Ciò consente di sostenere la tesi, che appare quella più idonea a soddisfare le esigenze sottese all’introduzione del nuovo istituto, secondo la quale qualsiasi situazione di “crisi” (dal confessato stato di insolvenza alle difficoltà non ancora emerse ma previste dall’impresa per un prossimo futuro) legittima il debitore ad invocare della disciplina prevista dall’art. 182-bis.
In particolare, lo “accordo di ristrutturazione” potrà essere proposto dal debitore ai suoi creditori, e poi sottoposto all’omologazione del tribunale, anche quando nessun inadempimento delle obbligazioni del debitore sia ancora in atto, ma si preveda che giunga un momento nel quale l’impresa non sarà in condizione di fronteggiare il proprio indebitamento.
L’istituto si segnalerebbe, per esempio, all’attenzione dell’imprenditore che avesse già proceduto ad una prima “ristrutturazione” del suo indebitamento (a breve termine); oppure avesse sostenuto l’impegno finanziario per la effettuazione di una operazione straordinaria di acquisizione (di una società, di una azienda, di una partecipazione azionaria), attraverso l’emissione di un prestito obbligazionario, il cui rimborso alla scadenza stabilita (magari neppure prossima) si prevedesse già incerto e problematico.   L’imprenditore potrebbe allora concludere per tempo con i creditori obbligazionisti (e con quanti eventuali altri fossero necessari per raggiungere il sessanta per cento delle passività dell’impresa) un accordo di “ristrutturazione” del debito obbligazionario, prevedendone – per esempio – il pagamento di una parte alla scadenza; il riscadenziamento del residuo; il ritocco del rendimento cedolare.
Ognuno vede che la disponibilità di un istituto di tal genere sarebbe stata preziosissima per le molte imprese che alle soglie del terzo millennio sono ricorse al mercato delle emissioni obbligazionarie (corporate bond) per finanziare il loro sviluppo, oppure per ristrutturare le ingenti passività a breve presentata soprattutto verso le banche. Tali imprese hanno emesso, in quegli anni, prestiti obbligazionari per ingenti importi, caratterizzati da una scadenza di medio periodo (spesso ventiquattro o trentasei mesi), con il dichiarato programma di procedere ad un parziale rinnovo del prestito (contestualmente ad un parziale rimborso dello stesso) alla scadenza pattuita – mediante l’emissione di un nuovo prestito obbligazionario, ai tassi che sarebbero risultati “di mercato” a quella data, per un importo corrispondente alla quota di passività non immediatamente rimborsabili per mezzo delle risorse generate dalla gestione ordinaria dell’impresa -.
Il “crollo” del mercato dei corporate bond, determinato dalla insolvenza del “Gruppo CIRIO” (nell’anno 2002)  ha reso inattuabile il programma delle altre imprese che avevano in corso prestiti obbligazionari, che prevedeva che essi fossero rinnovati parzialmente, quando sarebbero scaduti, con l’emissione di altri prestiti – giacchè il crollo della fiducia dei risparmiatori avrebbe impedito la necessaria collocazione dei nuovi titoli sul mercato dei capitali -: ciò che ha determinato, in molti casi, il dissesto anche di queste imprese.
Noi pochi casi nei quali la pendenza di un prestito obbligazionario (divenuto) insuscetti-bile di “riscadenziatura” non ha “affondato” l’impresa che lo aveva emesso, la soluzione è stata rappresentata dalla conclusione di accordi stragiudiziali con i creditori (obbliga-zionisti, ma non solo) resi particolarmente sofferti e particolarmente difficili (oltre che, prevedibilmente, particolarmente onerosi per il debitore) dalla totale mancanza di una disciplina giuridica che ne prevedesse – sia pure a determinate condizioni – qualche forma di tutela.
La disciplina degli “accordi di ristrutturazione” viene alla luce a distanza di … anni da quando si è manifestata in modo drammatico l’esigenza, peraltro avvertita, in termini generali,  da sempre, di una disciplina normativa (con corrispondente tutela assicurata dall’ordinamento) degli “accordi stragiudiziali”: e viene alla luce – come si dirà – gravida di incertezze e di inadeguatezze.


3. Segue. Il contenuto dell’accordo.
Il nuovo art. 182-bis l.f. mira a disciplinare gli “accordi di ristrutturazione” dei debiti: e ciò può indurre a domandarsi quale sia il contenuto dell’intesa  tra debitore e (maggioranza dei) creditori, così definita. Il termine “ristrutturazione” è evidentemente atecnico: e può alludere indifferentemente (e contemporaneamente) tanto a patti ed effetti remissori; quanto a patti ed effetti dilatori; quanto a patti ed effetti novativi.
Il minimo comune denominatore è rappresentato dalla circostanza che il debitore intervenga sulle passività dell’impresa, evidentemente considerate come il profilo critico che viene per primo in considerazione nelle situazioni di “crisi” d’impresa. Posto questo, peraltro, è da ritenere che le modalità tecniche ed operative della ricercata “ristrutturazione” possano essere le più varie: dalle più tradizionali alle più innovative.
Dal momento che la considerata “ristrutturazione” rappresenta l’oggetto di un “accordo” con una parte (rilevante) dei creditori; e dal momento che gli effetti complessivi di tale accordo (e per esso della “ristrutturazione” perseguita) non possono pregiudicare gli interessi dei no aderenti (dovendo trattarsi di intervento “idoneo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei”); è da ritenere che nessuno possa sindacare i risultati economici delle misure attraverso le quali la “ristrutturazione” è perseguita.
In particolare, non pare possa esservi spazio per la contestazione della eventuale attribuzione a singoli creditori, od a categorie di creditori, di trattamenti differenziati (e segnatamente di trattamenti preferenziali) rispetto ad altri. Per i creditori aderenti, il trattamento differenziale (di taluni tra di essi) costituirebbe la clausola di un accordo giuridicamente vincolante, e dunque – in linea di principio inattaccabile (dovendo ritenersi che si versi qui in materia di diritti disponibili); per i creditori estranei, mancherebbe l’interesse a contestare gli effetti di intese intervenute tra terzi ed in suscettibili [se sono tali, come devono essere] di pregiudicarne il diritto ad un integrale soddisfacimento; per l’autorità giudiziaria, in sede di omologazione degli “accordi”, mancherebbe ogni competenza che non sia quella di decidere le eventuali “opposizioni”, le quali peraltro non potrebbero avere ad oggetto – per le ragioni dette – la conclusione di patti non rispettosi di una teorica par condicio creditorum.


4. Segue. Condizioni di ammissibilità.
Lo “accordo di ristrutturazione dei debiti” deve rispondere, per rendere applicabile la disciplina introdotta dall’art. 182-bis, l.fall., ai seguenti requisiti:
(i) essere stato stipulato “con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti”;
(ii) essere accompagnato da “una relazione redatta da un esperto”, avente ad oggetto la “attuabilità” dell’accordo, e la sua “idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei”.
La norma non precisa quanti e quali creditori possano contribuire a formare il “monte crediti” del sessanta per cento delle passività dell’imprenditore, che costituisce il primo requisito. Può quindi trattarsi di un numero elevato di creditori (per es., i sottoscrittori di obbligazioni – bond – emessi dall’impresa), oppure di un numero esiguo (per es., le banche maggiormente esposte).  Analogamente potrà trattarsi indifferentemente tanto di creditori chirografari, quanto di creditori privilegiati – non derivando a costoro nessun effetto pregiudizievole dalla adesione all’accordo, che non sia esplicitamente previsto dall’accordo stesso -.
Neppure è precisata la tipologia dello “esperto” chiamato a redigere la Relazione sulla “attuabilità” dell’accordo, e sulla sua idoneità a consentire il regolare pagamento dei creditori estranei: potrà quindi trattarsi sia di un professionista appartenente alle categorie normalmente impegnate nella soluzione delle “crisi” di impresa (dottori commercialisti; ragionieri commercialisti; revisori; avvocati); sia di una società operante in questo campo (come una società di revisione).
Non è precisato, infine, chi debba designare lo “esperto”: dando la possibilità che esso sia designato dallo stesso imprenditore (e non, per esempio, dall’autorità giudiziaria).


5. Segue. Il procedimento di conclusione e di omologazione dell’accordo.
Lo “accordo di ristrutturazione” previsto dall’art. 182-bis l.fall. deve essere depositato presso la cancelleria del tribunale (“fallimentare”) insieme alla documentazione indicata nell’art. 161 l.fall. (in materia di domanda di ammissione al concordato preventivo), ed alla istanza per la sottoposizione ad omologa.
L’accordo va altresì pubblicato nel registro delle imprese: e dalla data di tale pubblicazione decorre il termine (di 30 giorni) per la proposizione delle eventuali opposizioni da parte dei creditori (estranei all’accordo) e di ogni altro interessato.
Il tribunale procede all’omologazione dell’accordo in camera di consiglio, con decreto motivato, “decise le opposizioni”. Contro il decreto del tribunale è proponibile il reclamo alla Corte d’Appello ai sensi dell’art. 183 l.fall., entro il termine di quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese.
La legge non precisa dunque quali siano le modalità con le quali può o deve essere stipu-lato lo “accordo di ristrutturazione” tra il debitore ed i suoi creditori (rappresentanti al-meno il sessanta per cento dei crediti). E’ evidente la mancanza di qualsiasi (necessaria) procedura di convocazione, di discussione, di votazione, potendo il debitore anche procedere al-la raccolta delle adesioni in via individuale.   Non è escluso il ricorso a soluzioni organiz-zative quali la convocazione dei creditori per l’illustrazione dello “accordo” e la raccolta delle adesioni: mentre non pare possa rappresentate una opportunità la suddivisione dei creditori per “classi”, stante l’inattitudine della volontà della maggioranza a produrre qual-che effetto nei confronti dei creditori dissenzienti (infra).
Neppure è precisato come debba articolarsi il procedimento per la omologazione dello “accordo”. Essendo già stata acquisita, in sede extragiudiziale, l’approvazione dei creditori (nella percentuale considerata sufficiente dalla legge), è da ritenere che il giudizio di omologa possa svilupparsi secondo quanto previsto (per l’omologa del concordato preventivo) dell’art. 180 l.fall., con i necessari adattamenti (primi fra i quali quelli derivanti dalla mancanza, nel procedimento in esame, di organi della procedura diversi dallo stesso tribunale fallimentare).
Quanto alle condizioni di omologabilità dell’accordo, la loro individuazione è legata alla presenza o meno di “opposizione” da parte di creditori dissenzienti (o altri interessati); ed al contenuto che si ritiene tali opposizioni possano avere.
Esse potranno ovviamente contestare l’effettivo raggiungimento della percentuale di adesioni richiesta (potrebbe essere obiettato che le passività da prendere in considerazione sono superiori a quelle prospettate dal debitore; o che le adesioni di taluni creditori non possano essere conteggiate); ma è da ritenere che possano contestare anche la condividibilità del giudizio di “attuabilità” dell’accordo – con particolare riguardo alla sua attitudine ad “assicurare” il regolare pagamento dei creditori estranei -.
Va da sé, conseguentemente, per chi condivida questa tesi, che il giudizio del tribunale in sede di omologa possa dovere essere espresso, oltre che sulla ricorrenza del presupposto soggettivo; ed oltre che sulla effettiva sussistenza dell’approvazione di tanti creditori rappresentanti il sessanta per cento del passivo; anche sulla “attuabilità” dell’accordo, attraverso – prevedibilmente – la disposizione di una Consulenza Tecnica d’Ufficio.


6. Segue. Effetti degli “accordi di ristrutturazione”.
Secondo l’art. 182-bis, co. 5, l.fall. “l’accordo (di ristrutturazione dei debiti) acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione nel registro delle imprese”.
Ciò parrebbe significare che precedentemente esso non ha alcun effetto, neppure per i creditori che vi abbiano prestato adesione – forse perché si è immaginata una adesione che è conseguita per tappe progressive -: ma la norma presenta un significato trascurabile.   L’accordo, infatti, potrebbe prevedere tutt’altro, ed in particolare tanto la sua vincolatività immediata (beninteso, per chi l’abbia sottoscritto); quanto il differimento degli effetti ad un momento successivo (per esempio all’omologazione dell’accordo, assumibile anche come possibile condizione risolutiva dello stesso).   Il fatto è che l’accordo impegna solo i creditori che l’hanno sottoscritto: e se da una parte questi possono definirne gli effetti (per ciò che li concerne) in piena libertà, per un’altra parte nessun effetto si produce, invece, in capo ai creditori estranei.
La mancanza di effetti dello “accordo” nei confronti dei creditori estranei è ribadita dalla circostanza che costoro mantengono inalterato il diritto a conseguire “il regolare pagamento” dei loro crediti: dove per “regolare” si deve intendere “puntuale” – rispetto alla scadenza – ed “integrale” – rispetto all’importo -.   Tanto è vero che la Relazione dell’esperto che deve necessariamente integrare il deposito dello “accordo” deve esprimere un giudizio sull’idoneità dello stesso a fronteggiare “regolarmente” le passività estranee ad esso.
Va da sé – conseguentemente – che nessun “effetto protettivo” per il debitore nei confronti dei creditori estranei all’accordo, che non venissero pagati puntualmente ed integralmente, si produce nè a seguito dell’approvazione da parte dei creditori titolari di almeno il sessanta per cento delle passività; né a seguito dell’omologazione da parte del tribunale. Per la precisione, nessun “effetto protettivo” si produce neppure nei confronti dei creditori aderenti all’accordo, che non sia stato previsto dalle clausole dello stesso.
La omologazione dell’accordo di ristrutturazione produce invece l’effetto di sottrarre all’azione revocatoria gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere “in esecuzione” dello stesso – art. 67, co. 3, lett. e) l.fall. -: e questa pare rappresentare l’unica (anche se certamente non trascurabile) agevolazione introdotta per favorire il superamento delle situazioni di “crisi” da sovraindebitamento con la conclusione degli accordi della specie.
In dottrina è stato posto il problema se la sottrazione a revocatoria fallimentare degli atti di esecuzione degli “accordi di ristrutturazione” riguardi i soli creditori ed essi aderenti, oppure riguardi anche i creditori dissenzienti (od i terzi che non sono qualificabili “creditori”, ma che abbiano ugualmente posto in essere con l’imprenditore atti di esecuzione del “piano” approvati dalla maggioranza qualificata dei creditori). La risposta deve senz’altro privilegiare la seconda soluzione, e segnatamente sottolineare che i primi beneficiari della “esecuzione” da revocatoria saranno, paradossalmente, i creditori estranei all’accordo, che per definizione devono essere pagati integralmente e puntualmente, e che si ritrovano anche a fruire dello “”scudo” conseguito dal debitore contro la revocatoria. D’altro canto il pagamento (integrale e puntuale) dei creditori estranei rappresenta senz’ombra di dubbio uno dei “passaggi” principali della esecuzione del “piano” di ristrutturazione.


Sezione III 
La esenzione dall’azione revocatoria come strumento di promozione delle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa.


1. I pagamenti di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali minori.
In funzione della agevolazione della adozione di soluzioni alle situazioni di crisi delle imprese, che passino attraverso la conclusione di accordi tra il debitore (imprenditore) ed i creditori, è stabilita una “esenzione” dalla revocatoria per “i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottene-re la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di con-cordato preventivo”.
Non è facile comprendere la portata della condizione per cui i pagamenti de quibus dovrebbero essere effettuati – per rientrare nella esenzione – “alla scadenza”.  Dovendosi trattare di pagamenti di “debiti liquidi ed esigibili”, è ovvio che non potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione del beneficio i pagamenti anticipati rispetto alla scadenza (perché soddisferebbero crediti non esigibili); né costituirebbe una soluzione realistica quella di sottrarre al beneficio (ed assoggettare a revocatoria) i pagamenti (dei “servizi” qui presi in considerazione) effettuati dopo la scadenza, cioè da un debitore in mora, giacchè a questa stregua l’ambito della “esenzione” sarebbe destinato a risultare sostanzialmente inesistente.
Si può forse ipotizzare che con la complicata espressione utilizzata il riformatore intendesse alludere al pagamento di debiti che pur essendo (divenuti) “esigibili”, non sarebbero stati estinti alla data della loro (originaria) “scadenza”, perché ancorati ad un termine non ancora sopravvenuto, ma divenuti esigibili in conseguenza di un evento traumatico quali la risoluzione del contratto o la decadenza del debitore dal beneficio del termine (in parallelo con quell’orientamento giurisprudenziale favorevole a consentire l’applicabilità dell’azione revocatoria dei pagamenti cc.dd. “anticipati”, prevista dall’art. 65 l.fall., anche agli atti estintivi di debiti divenuti esigibili, per risoluzione del contratto o per decadenza del debitore dal beneficio del termine, prima della apertura del fallimento, ma caratterizzati da una scadenza originaria successiva alla data della sentenza dichiarativa).
Ma l’interrogativo più importante riguarda le fattispecie alle quali la esenzione de qua sarebbe indirizzata.   Esse sarebbero costituite dal pagamento (della prestazione) dei “servizi strumentali all’accesso” alle procedure concorsuali minori: e mentre appare chiaro il segno di disfavore non solo per gli accordi “stragiudiziali” stricto sensu – come l’accordo di “risanamento” ex art. 67, co. 3, lett. d) -, ma anche per gli accordi solo parzialmente “stragiudiziali” – come l’accordo di “ristrutturazione” ex art. 182-bis l.fall. -; meno chiara è la portata dell’agevolazione.
Quali “servizi”?  Può essere qualificato “servizio” una fornitura essenziale per (continuare l’esercizio dell’impresa ed in questo modo) accedere alla procedura concorsuale minore – come una fornitura di energia elettrica, o di gas metano, ecc. -?: parrebbe di no!   Certamente non sarebbe qualificabile “servizio” neanche qualsiasi prestazione creditizia – e ne sarebbe escluso anche il finanziamento concesso dalla banca ai fini della costituzione del deposito propedeutico all’accesso alla procedura -.   Si ha l’impressione che per “servizi” si debbano intendere solamente le prestazioni professionali – dell’avvocato; del dottore commercialista; eccetera – richieste dall’impresa per la predisposizione della documentazione e della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o di amministrazione controllata (ivi compresa la Relazione del professionista chiamato ad attestare “la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano” posto alla base del nuovo concordato preventivo – art. 161, co.3, l.fall. -).


2. La esenzione da revocatoria degli atti di esecuzione degli “accordi di risanamento” (art. 67, co. 3, lett. d).
Il nuovo art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. afferma che non sono soggetti ad azione revocatoria fallimentare “gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purchè posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad  assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501 – bis , quarto comma, del codice civile”.
La formula utilizzata (“atti, pagamenti e garanzie”) appare sufficientemente generica da consentire di affermare che qualsiasi “operazione” posta in essere dall’imprenditore è suscettibile di sfuggire all’applicazione dell’azione revocatoria, purchè risulti posta in essere “in esecuzione” di un “piano … di risanamento” la cui ragionevolezza sia attestata nei modi voluti dalla norma.
La “formula” è analoga a quella prevista dalla successiva disposizione dell’art. 67, co. 3, lett e) per gli atti di esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e dell’accordo “di ristrutturazione” ex art. 182-bis l.fall.: tuttavia per gli atti di esecuzione del “piano” di risanamento è precisato che il beneficio della esenzione da revocatoria è limitato alle garanzie concesse “su beni del debitore”.
Per le operazioni funzionali a dare esecuzione ad un accordo” giudiziale”, invece (trattisi di accordo derivante dall’ammissione dell’impresa a concordato preventivo o ad amministrazione controllata, o anche derivante dal piano di ristrutturazione omologato dall’autorità giudiziaria di cui all’art. 182-bis l.fall. – come introdotto dal d.-l. n. 35/2005 -), la esenzione abbraccia tutte le “garanzie”: parrebbe, anche quelle concesse da un terzo, o su beni di un terzo, o nell’interesse di un terzo.
Della ricordata limitazione non si comprede, in realtà, la ratio, se non come espressione di un perdurante disfavore riservato agli accordi “stragiudiziali” rispetto agli accordi (totalmente o parzialmente) “giudiziali”.
Ma più che il carattere discutibile di tale logica è da denunciare la evidente incongruenza della norma.
Se si vuole introdurre una distinzione razionale – supponendo che la diversa formulazione rilevata non costituisca semplicemente una banale svista -, la distinzione dovrebbe passare tra l’ipotesi di garanzie costituite per debiti propri (dell’imprenditore che accede ad una delle procedure di composizione negoziale della crisi) – dove la garanzia sarebbe necessariamente costituita (dall’imprenditore interessato) “su beni  del debitore” -; e l’ipotesi di garanzie costituite per debiti altrui – dove la garanzia (del debitore interessato da un procedimento di composizione della crisi d’impresa) potrebbe essere rappresentata tanto dalla costituzione di un pegno o di un’ipoteca “su beni del debitore” (ma per un debito altrui), quanto dalla prestazione da parte sua di una fideiussione nell’interesse di terzi -.   A questa stregua, sarebbe comprensibile – salvo valutare se sarebbe anche condividibile – prevedere che la “esenzione” da revocatoria, in determinate ipotesi – e nel nostro caso ciò riguarderebbe i “piani di risanamento” di cui al nuovo art. 67, co. 3, lett. d), l.fall. -, sia circoscritta alle garanzie costituite per debiti propri, e non comprenda – invece – le garanzie prestate per debiti altrui (ma a questo punto non solo le “garanzie concesse su beni del debitore”, ma anche quelle concesse coinvolgendone la generica responsabilità patrimoniale – come sarebbe per la prestazione di una fideiussione -).
Per converso, la disciplina di maggior favore che si volesse apprestare, sotto il profilo qui considera-to – come le nuove norme sembrerebbero voler prevedere -, per gli accordi di composizione delle crisi di natura giudiziale (o semigiudiziale: art. 182-bis l.fall.), non dovrebbe tanto sottolineare la co-stituibilità di garanzie “concesse su beni non del debitore” – la cui inattaccabilità è ovvia, perché prestata da un soggetto terzo, diverso dall’imprenditore “in crisi” -: quanto, piuttosto, la costituibilità da parte dell’imprenditore interessato di garanzie per debiti altrui – vuoi “su beni del debitore”, vuoi nella forma della prestazione di fideiussione -, quando giudicate utili alla composizione della situa-zione di crisi in atto.
Ciò precisato, va ancora segnalato che solo per ragioni di comodità espositiva gli istituti di cui al nuovo art. 67, co. 3, lett. d) e di cui all’art. 182-bis l.fall. verranno talora denominati “accordi di risanamento e di ristrutturazione”.
In realtà l’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. si riferisce ad un “piano” dell’imprenditore per superare la situazione di crisi, che non deve essere necessariamente costituito da un “accordo”: o comunque, non necessariamente da un accordo con i creditori (pochi o tanti che siano).
Il “piano” potrebbe infatti incentrarsi su una operazione di finanza straordinaria: aumento di capitale riservato ad investitori istituzionali; conferimento di beni, di aziende o di altre attività da parte di altri imprenditori a servizio di un allargamento del capitale sociale; costituzione di patrimoni destinati; vendita di asset non strategici; eccetera.  Il “piano” potrebbe avere ad oggetto anche atti di natura prevalentemente unilaterale.
Il beneficio della “esenzione” da revocatoria, allora, riguarderebbe proprio gli effetti di tale genere di atti.
Per ciò che concerne infine la “attestazione” della “ragionevolezza” del “piano” – e degli obiettivi di “risanamento” e “riequilibrio della situazione finanziaria” – la norma fa riferimento a quanto è previsto dal codice civile in materia di :..(cioè di operazioni cc.dd. di leverage buy out).
In conseguenza del richiamo all’art. 2501-bis, co. 4, c.c., è da ritenere che la “attestazione” dell’esperto debba  avere riguardo alla ragionevolezza delle indicazioni contenute nel “piano” circa i motivi che giustificano l’operazione e l’indicazione della fonte delle risorse finanziarie deputate a sostenere il perseguimento dei suoi obiettivi; e che tale esperto possa essere designato (scegliendolo tra un revisore contabile ed una società di revisione iscritta nel registro dei revisori contabili: art. 2409-bis c.c., richiamato dall’art. 2501-bis) dallo stesso imprenditore, quando si tratti di un imprenditore individuale, di una società di persone o di una società a responsabilità limitata; e debba essere designato – invece – dal Tribunale del luogo in cui ha sede la società, se si tratta di società per azioni o di società in accomandita per azioni (cfr. art. 2501-sexies c.c., sempre richiamato dall’art. 2501-bis), ricorrendo ad una società di revisione allorchè la società faccia ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 2409-bis c.c.), ed in particolare una società di revisione iscritta nell’apposito albo, ove si tratti di società quotata in mercati regolamentati (art. 2501-sexies).


3. Gli atti di “esecuzione” in generale delle procedure concorsuali minori, degli accordi di ristrutturazione e dei “piani” di risanamento.
L’art. 67, co. 3, lett. e) l.fall. dichiara esonerati da revocatoria anche “gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventive (e) dell’amministrazione controllata …” (nonchè dell’accordo “di ristrutturazione” previsto dall’art. 182-bis c.c.).
La portata della norma è abbastanza chiara per ciò che concerne il concordato preventivo e gli accordi di “composizione” della crisi – che prevedono l’assunzione da parte dell’imprenditore di impegni precisati, e per i quali è quindi facilmente applicabile la regola della esenzione di quelle operazioni che rappresentino l’adempimento, diretto od indiretto, degli obblighi assunti dall’imprenditore -.
Meno facile è l’applicazione della norma alla procedura di amministrazione controllata.  In questo caso non si è di fronte alla assunzione di impegni precisati, bensì alla continuazione della gestione ordinaria dell’impresa, semplicemente assoggettata alla sorveglianza degli organi della procedura – e interessata dalla “cristallizzazione” delle passività pregresse -.
La norma sembrerebbe dunque affermare il principio della sottrazione a revocatoria di tutti gli atti compiuti per l’esercizio dell’impresa in amministrazione controllata.
L’estensione del delineato regime di “esenzione” – limitatamente agli atti “di esecuzione” della procedura – anche alle operazioni poste in essere nel corso del concordato preventivo e dell’amministrazione controllata, peraltro, ingenera taluni dubbi di fondo, di carattere sistematico.
Secondo una opinione molto diffusa – particolarmente, ma non unicamente, tra i pratici – gli atti posti in essere nel corso del concordato preventivo e dell’amministrazione controllata non sarebbero stati soggetti mai alla azione revocatoria nell’eventuale fallimento consecutivo, sotto il vigore della legge fallimentare oggi riformata dal d.-l. n. 35/2005. Tali atti avrebbero potuto essere privi di effetti, se posti in essere – poniamo – in violazione della regola (ricavabile per opinione unanime dai principi) impeditiva del pagamento di debiti pregressi o della costituzione di garanzie per debiti pregressi. Tali atti avrebbero altresì potuto essere dichiarati inopponibili ai creditori, nel fallimento consecutivo, ove posti in essere in violazione del regime autorizzatorio imposto all’imprenditore ammesso al concordato preventivo o all’amministrazione controllata.  L’azione revocatoria (fallimentare), invece, sarebbe risultata preclusa per definizione, nei confronti degli atti esenti dai “vizi” segnalati, per l’impossibilità di individuare nei loro confronti i profili del pregiudizio al patrimonio del debitore; e/o i profili del pregiudizio alla par condicio creditorum; e/o i profili della esigenza redistributiva delle conseguenze dell’insolvenza del debitore su una più larga schiera di creditori.
Secondo il nuovo art. 67, co. 3, lett. e) l.fall., invece, gli atti compiuti in essere nel corso del concordato preventivo e dell’amministrazione controllata sono esentati da revocatoria soltanto se qualificabili come posti in essere “in esecuzione” della procedura: e qualsiasi cosa voglia dire questa espressione, la previsione in esame postula che vi siano atti compiuti nel corso del concordato preventivo o dell’amministrazione controllata (e per di più efficaci ed opponibili ai creditori) suscettibili di essere assoggettati a revocatoria (per lo meno) nel fallimento consecutivo, per non essere stati giudicati – quale che ne sia la ragione – “funzionali” all’esecuzione della procedura concorsuale minore.
E’ possibile che la previsione di una “esenzione” esplicita da revocatoria per gli atti posti in essere “in esecuzione” del concordato preventivo o dell’amministrazione controllata trovi spiegazione con la considerazione di quell’orientamento giurisprudenziale che escluderebbe la vincolatività dei prov-vedimenti (per es. autorizzatori) resi dal Giudice Delegato (o dal tribunale) della procedura concor-suale minore nei confronti degli organi giudiziali del fallimento consecutivo: e ciò tanto al fine di escludere la prededucibilità delle obbligazioni assunte nel corso del concordato preventivo (o dell’amministrazione controllata), sia pure con le debite autorizzazioni, nel fallimento consecutivo; quanto al fine di sottrarre gli atti posti in essere nella procedura concorsuale minore alle azioni revocatorie promuovibili – ricorrendone gli estremi delineati dagli art. 64 ss l.fall. – dal fallimento consecutivo.
Sia come sia, la nuova disciplina dell’azione revocatoria (fallimentare) considera astrattamente revocabili, nel fallimento consecutivo, anche gli atti posti in essere nel corso delle precedenti procedure di concordato preventivo e/o di amministrazione controllata – tutte le volte che tali atti non possano dirsi compiuti “in esecuzione” della procedura, e tuttavia non siano impugnabili né sotto il profilo dell’efficacia, né sotto il profilo dell’opponibilità ai creditori -: ciò che dovrebbe inibire per definizione la prospettabilità della retrodatazione della decorrenza a ritroso del “periodo sospetto” dalla data di apertura della prima procedura concorsuale consecutiva (non potendosi concepire la revocabilità tanto degli atti compiuti, poniamo, nei sei mesi – o nei dodici mesi – anteriori al concordato preventivo seguito – anni dopo – dal fallimento; quanto la revocabilità degli atti compiuti nei sei mesi – o nei dodici mesi – anteriori alla data della sentenza dichiarativa di fallimento).
Con ciò viene necessariamente messo in dubbio, come ognuno vede, un caposaldo della teoria della c.d. “consecuzione di procedure concorsuali”: che le nuove disposizioni della legge fallimentare sulle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa impongono inevitabilmente di sottoporre a nuova considerazione.


4. Segue. La “consecuzione” di procedure concorsuali nella nuova legge fallimentare. Il problema della retrodatazione della decorrenza a ritroso del termine del “periodo sospetto”.
La nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare e le nuove disposizioni dettate in materia di “procedure concorsuali minori” – tradizionali o innovative – ripropongono dunque il tema della “consecuzione “di procedure concorsuali, che il d.-l. n. 35/2005 non sembra affrontare (ed in questa sede non merita prendere in esame la legge-delega che lo accompagna per la riforma di altre parti della legge fallimentare, vista la sperimentata “volubilità” del legislatore; e considerata la circostanza che, per un certo periodo, il d.-l. n. 35/2005 deve essere applicato così come è, mentre i decreti legislativi di “completamento” della riforma della legge fallimentare sono comunque destinati ad entrare in vigore alquanto più tardi.
Per ciò che concerne la “consecuzione” di procedure al fine di retrodatare la decorrenza a ritroso del “perio-do sospetto” (con la conseguente assoggettabilità a revocatoria degli atti posti in essere nel “periodo sospetto” che ha preceduto la prima delle procedure concorsuali consecutive), occorre osservare che un ostacolo aggiuntivo a concepire la “saldatura” tra le diverse procedure è rappresentato dalla etero-geneità dei presupposti oggettivi.  Fermo restando che il presupposto oggettivo del fallimento rimane lo “stato di insolvenza”; e che il presupposto oggettivo dell’amministrazione controllata rimane la condizione di “temporanea difficoltà di adempiere” – con le discussioni da sempre originate sul signifi-cato da attribuire a tale nozione -; per il concordato preventivo si introduce un presupposto oggetti-vo costituito da un non meglio precisato “stato di crisi” (art. 160, co. 1, l.fall. novellato); mentre per gli accordi di “risanamento” sembrerebbe bastare la ricorrenza di uno squilibrio finanziario (art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. novellato); e per gli accordi di “ristrutturazione” regna sovrana l’incertezza (l’art. 182-bis l.fall. introdotto dal d.-l. n. 35/2005 allude al deposito della “dichiarazione” di cui all’art. 161 l.fall. – novellato -, il quale peraltro non contempla alcuna “dichiarazione” – tanto meno una “dichiarazione di stato di crisi”, come pure si sarebbe portati a congetturare -).
Si deve allora ritenere, che mentre a proposito della sequenza “amministrazione controllata – fallimento” si potrà continuare a discutere se la natura della “temporanea difficoltà di adempiere” sia sufficientemente simile a quella della “insolvenza” da consentire di giudicare le due procedure succedutesi senza (sostanziale) soluzione di continuità come due fasi di un’unica procedura di insolvenza (con conseguente giustificazione della retrodatazione della decorrenza a ritroso del periodo sospetto a far tempo dal provvedimento di ammissione all’amministrazione controllata); per le sequenze “concordato preventivo-fallimento”; oppure “accordo di ristrutturazione-fallimento”; o ancora “accordo di risanamento-fallimento”, invece, ciò non potrà più essere affermato, mancando qualsiasi elemento che “garantisca” la omogeneità della situazione di difficoltà dell’impresa presente alla data dell’accesso al concordato, o agli “accordi” precisati, rispetto allo stato di “insolvenza” costituente il presupposto oggettivo del fallimento consecutivo. Né la legge prevede che una valutazione di tale profilo – quale sia la natura della “crisi” denunciata per la domanda di ammissione al concordato preventivo, o per la proposta ai creditori di un accordo di “risanamento” o di “ristrutturazione” – sia effettuata al momento dell’apertura della singola procedura di composizione negoziale della crisi.


5. L’agevolazione degli accordi di composizione negoziale delle crisi d’impresa attraverso la tutela della “nuova finanza”.
L’esecuzione di accordi rivolti al superamento ad alla prevenzione di una crisi d’impresa comporta di norma la necessità di continuare a sostenere la gestione della stessa con la consueta assistenza finanziaria – se non addirittura con interventi straordinari, eventualmente in via provvisoria -. E’ intuibile peraltro la riottosità dei possibili creditori – dai fornitori alle banche – a concedere ulteriore credito all’impresa in crisi: anche una volta che sia stata assicurata la esenzione da revocatoria dei rimborsi conseguiti in esenzione del tentativo di salvataggio – come oggi le disposizioni di cui all’art. 67, co. 3, l.fall. riformato prevedono – non è certo che tutti i nuovi finanziamenti vengano effettivamente rimborsati, con conseguente esposizione dei fornitori e delle banche al rischio di  un incremento delle loro ragioni di credito nei confronti dell’impresa in crisi.
Nel passato la giurisprudenza ha ritenuto di dovere talora riconoscere a tali creditori un trattamento “di favore”, equiparandone le pretese a quelle collocabili in prededuzione, ai sensi dell’art. 111, n. 1, l.fall.: ciò per lo meno quando le obbligazioni in questione fossero state assunte nel corso delle procedure di amministrazione controllata (poi sfociata in fallimento) – mentre era discusso che un analogo effetto si producesse per le obbligazioni sorte nel concordato preventivo poi convertito in fallimento.   Ciò rappresentava una  delle applicazioni del più generale fenomeno c.d. di “consecuzione di procedure concorsuali”: i risultati interpretativi dell’affermazione del quale devono oggi essere soggetti ad una rinnovata verifica.


6. Segue. Consecuzione di procedure concorsuali e “prededuzione” nella nuova legge fallimentare.
Per ciò che concerne la “consecuzione” di procedure concorsuali al fine di riconoscere un collocamento “in prededuzione”, nel fallimento consecutivo finale, alle obbligazioni assunte nel corso della procedura (o delle procedure!) che hanno preceduto la sentenza dichiarativa, il problema appare oggi di non agevole soluzione: e ciò rappresenta un grave inconveniente, perché il problema della “prededuzione” è il problema della c.d. “nuova finanza”, senza la quale nessun accordo di composizione delle situazioni di “crisi” – che non sia un accordo puramente liquidativo – è concretamente immaginabile.
Innanzitutto si può notare che la salvezza da revocatoria (anche) delle “garanzie” (se costituite in esecuzione della procedura o dell’accordo di volta in volta interessati) ne favorirà la richiesta da parte dei creditori (specie le banche), e costituirà il presupposto per una graduazione tra crediti (in ipotesi) prededucibili – con conseguente evidenziazione del pericolo che, in caso di dissesto, neppure la collocazione, in ipotesi, “in prededuzione” garantisca l’integrale soddisfacimento della “nuova finanza” (che non sia assistita da garanzie specifiche o da privilegi) -.
Ciò premesso, pare di potere affermare che:
a) in materia di consecuzione del fallimento all’amministrazione controllata, prevedibilmente rimarrà fermo l’orientamento giurisprudenziale favorevole ad ammettere la “prededuzione” delle obbligazioni sorte nel corso della procedura concorsuale minore – salvo intenderne esattamente la portata, con particolare riguardo al concorso con i crediti pregressi assistiti da garanzia reale -;
b) in materia di consecuzione del fallimento al concordato preventivo, dovrebbe ritenersi presumibile la conferma dell’orientamento sfavorevole a riconoscere la “prededuzione” delle obbligazioni sorte nel corso della procedura – salvo valorizzare le indicazioni provenienti da quelle decisioni che propendono per riconoscere carattere prededucibile alle obbligazioni assunte nel corso di un concordato preventivo, fra i cui presupposti fosse stata prevista l’assunzione di determinate obbligazioni, o più in generale la continuazione dell’esercizio dell’impresa -;
c)in materia di consecuzione del fallimento agli accordi di “ristrutturazione” o di “risanamento”, non pare che possano esservi i presupposti dell’attribuzione di un carattere prededucibile alle obbligazioni assunte nel corso del tentativo di superamento della crisi. Tali “procedure”, infatti, si propongono di “legalizzare” determinati accordi di composizione delle situazioni di “crisi” con i creditori, in funzione – di norma – della prosecuzione dell’attività di impresa: e nessuna sorveglianza sulla gestione dell’impresa successivamente alla omologazione (o alla “validazione”) dell’accordo è attribuita a chicchessia.
Per tale ragione, non pare che siano individuabili i presupposti di una possibile prospettazione del carattere prededucibile della “nuova finanza”, ed in generale delle obbligazioni assunte nel corso del tentativo di “ristrutturazione” o di “risanamento”.


7. Gli “effetti protettivi” delle procedure di composizione delle situazioni di “crisi” a favore del debitore.
Tra i profili di particolare interesse (particolarmente – ma non solo – per l’imprenditore) ad una disciplina delle procedure di composizione delle situazioni di “crisi”, si colloca la possibilità di conseguire “effetti protettivi” nei confronti di iniziative pregiudizievoli immeditate di singoli creditori, nell’intervallo di tempo che va dall’inizio della predisposizione del “piano” (di ristrutturazione, di risanamento, finanche di liquidazione) fino alla sua sottoposizione al ceto creditorio (ed all’autorità giudiziaria).
Per le procedure concorsuali minori del concordato preventivo e dell’amministrazione controllata gli “effetti protettivi” (per il debitore) sono assicurati dai (perduranti) artt. 168 e 188 l.fall.
Per ciò che concerne “l’accordo (di ristrutturazione) omologato” introdotto con il nuovo art. 182-bis l.fall., l’ultimo comma di tale disposizione afferma che “l’accordo acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione nel Registro delle Imprese”: ma cosa ciò voglia intendere, non è di immediata comprensione.  Che l’accordo in quanto tale sia efficace, discende dalla circostanza che esso vincola le parti (il debitore ed i creditori – “rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti” – con i quali è intervenuto): e forse la norma intende affermare che gli impegni assunti con la sua conclusione sono subordinati alla condizione sospensiva del deposito dell’accordo stesso. Con il chè, se degli “effetti protettivi” sono stati previsti nel contesto dell’accordo di “ristrutturazione”, questi si produrranno a far tempo dal detto deposito. Si produrranno, peraltro, solo se previsti dall’accordo, e nei limiti in cui siano stati precisati; e solo con riguardo ai creditori con i quali l’accordo sia intervenuto. Nei confronti degli altri creditori – mi pare – nessun “effetto protettivo” è destinato a prodursi, né con il deposito dello “accordo”, nè mai (con ciò che ne consegue).
Per ciò che concerne il “piano … di risanamento” di cui all’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. (novellato), la norma non precisa neppure da quando gli effetti dell’accordo sono destinati a prodursi – né prevede, mi pare, alcuna forma obbligatoria di “pubblicità”, quale il deposito del “piano” presso il Registro delle Imprese -: ma non mi pare dubitabile che gli effetti del “piano” si producano comunque nei soli confronti dei creditori che vi abbiano espressamente aderito (o che vi aderiscano successivamente), liberi tutti gli altri – direi – di non tenere in alcun conto né il “piano”, né la attestazione di “ragionevolezza” degli esperti designati “ai sensi dell’articolo 2501-bis, quarto comma, del codice civile”, e di assumere ogni iniziativa individuale ritenuta più opportuna, al di fuori di qualsiasi “effetto protettivo” riconducibile alla predisposizione e/o alla attestazione e/o alla pubblicazione del “piano”.


8. Composizione negoziale della crisi d’impresa e disciplina della responsabilità da attività di direzione e coordinamento di società.
Le ricerche effettuate in campo economico per valutare i modelli organizzativi affermatisi nell’era moderna come i più efficaci per la gestione delle attività imprenditoriali hanno dimostrata la progressiva affermazione, anche nel nostro Paese, del fenomeno dei Gruppi societari.   Così come tale modello acquista rilievo nella fase fisiologica dell’attività d’impresa, ugualmente merita di vedere approfondite le particolarità che presenta, nel momento in cui si tratta di affrontare la patologia delle situazioni di “crisi”.
Benché una “gestione integrata” delle società del “gruppo” possa essere perseguita anche al di fuori delle situazioni di “crisi”, al fine di ottimizzare la redditività delle imprese facenti capo alle società del “Gruppo”, è nelle situazioni di difficoltà che l’esigenza di considerare il fenomeno imprenditoriale in termini unitari e complessivi si fa più urgente: è in tali occasioni, infatti, che la situazione di difficoltà nella quale versano una singola società, o talune società, del “gruppo”, può essere superata facendo ricorso alle risorse economiche, finanziarie e patrimoniali espresse dalle altre società, e consentire di salvare delle realtà imprenditoriali che, se non fossero inserite in una realtà di “gruppo”, sarebbero destinate al fallimento, per insufficienza delle loro forze individuali a cavarle dalle situazioni di “crisi”.
Il ricorso alle risorse delle società del “gruppo” non investite dalla “crisi” può avvenire, e di fatto avviene nella realtà dei programmi di ristrutturazione industriale, nelle più varie forme: ricorso a finanziamenti infragruppo – in situazioni nelle quali l’accesso al credito all’esterno del gruppo è divenuto impossibile per le società che versano in maggiori difficoltà -; prestazione di garanzie da parte delle società maggiormente patrimonializzate nell’interesse di quelle più deboli – per consentire loro l’accesso a quel credito esterno al “gruppo”, specie di carattere bancario, altrimenti non conseguibile proprio per la condizione di difficoltà dell’impresa interessata e per la conseguente maggiore rischiosità della sorte del finanziamento -; messa a disposizione delle società più deboli, da parte di quelle maggiormente in salute, di mezzi – strutture organizzative, impianti industriali, scorte di materie prime – a prezzi “di favore”; eccetera.
La riforma del diritto societario ha dettato, come si è visto, una speciale disciplina (per i prestiti-soci nonché) per i finanziamenti infragruppo, e le attività poste in essere per l’esecuzione di piani di composizione della crisi d’impresa- come pure abbiamo avuto modo di considerare – devono fare i conti anche con queste disposizioni.
Non diversamente, la riforma del diritto societario ha dettato anche una peculiare disciplina delle responsabilità per attività compiute nella direzione e coordinamento di società (del “gruppo” latamente inteso), con le quali pure devono fare i conti le misure e le soluzioni astrattamente adottabili per il superamento delle  situazioni di “crisi” che investano talune delle società del “gruppo”.
Poiché ricorrere alle risorse esprimibili da talune società per salvarne altre, può essere una condotta valutabile diversamente dall’utilizzo strumentale di talune società per aumentare la redditività complessiva di un “gruppo” nel quale non sono comunque messi in pericolo l’integrità dei complessi produttivi, la conservazione dei livelli occupazionali, gli interessi dei creditori: ci si può domandare se una disciplina delle situazioni delle crisi d’impresa possa e debba “tarare” diversamente anche la responsabilità per attività di direzione e coordinamento di società, quando si tratti di salvaguardare quei “valori” (tutela dei creditori; conservazione dei livelli occupazionali; integrità degli organismi produttivi; eccetera) che hanno rilievo generale, e che sarebbero messi in pericolo da dissesti individuali che potrebbero essere (talora) evitati facendo ricorso alle risorse esprimibili dal “gruppo”.
Il tema merita, a mio avviso, di essere preso in considerazione, perché la disciplina delle responsabilità per attività di direzione e coordinamento di società, come introdotta dalla riforma del diritto societario, presa in sé e per sé può costituire un grave deterrente alla assunzione di iniziative tese a fronteggiare situazioni di crisi presentate da realtà imprenditoriali organizzate in forma di “gruppo”: e l’esperienza pratica dimostra che non si tratta di una preoccupazione soltanto teorica.
Secondo l’art. 2497 cod.civ., sono “direttamente responsabili” dei danni provocati ai creditori sociali (per la lesione dell’integrità del patrimonio della società); ai soci (per la lesione della redditività e del valore della partecipazione sociale); e – aggiungerei – alla società o alle società  dirette o coordinate, “le società o gli enti” che abbiano esercitato attività di direzione e coordinamento in modo “scorret-to” (alias  “in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale”).
Sempre secondo la disposizione richiamata, “risponde in solido (con chi abbia esercitato scorrettamente le attività di direzione o coordinamento) chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo”; ed ancora, risponde in solido con i predetti soggetti, “nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio”.
La disposizione richiamata è destinata a trovare larga applicazione, a mio avviso, in tutte le ipotesi dei cc.dd. “salvataggi bancari”; nonché, più in generale, in tutte le ipotesi di ristrutturazione di imprese che coinvolgano (e come potrebbe essere diversamente?) relazione di credito con aziende bancarie.
In tali situazioni, possono emergere ipotesi di responsabilità civile della banca (verso le società finanziate; verso i relativi creditori; verso i loro soci), che possono presentare profili parzialmente inediti, e comunque sempre preoccupanti.
Non escludo che la banca, in quanto tale, possa assumere, in determinate ipotesi, il ruolo di “banca coordinatrice”, e le conseguenti responsabilità, per il caso che non impronti la direzione ed il coordinamento delle società interessate ai non ancora ben definiti principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale.
Il pensiero non corre ai soli casi che danno vita a quel fenomeno, che in altre occasioni ho denominato “Amministrazione bancaria” (incentrato sulla disciplina delle disposizioni della Banca d’Italia sulle imprese bancarie che consentono e favoriscono i “salvataggi” di imprese in crisi mediante il conferimento dei crediti bancari in capitale di rischio: come fu per l’ipotesi conosciuta come “Caso Ferruzzi”): casi nei quali la banca (o le banche in coordinamento tra di loro) assumerebbero la direzione del “gruppo” in conseguenza delle partecipazioni azionarie acquisite nel capitale di rischio delle società interessate, e dunque per effetto del disposto dell’art. 2497 sexies  cod.civ.   Penso anche agli altri casi nei quali, pur non essendovi ingresso delle banche nel capitale di rischio delle società sovvenute, le aziende di credito si riservino poteri di controllo e di presidio mediante la stipulazione di appositi “patti parasociali” (quali il diritto di designare membri dell’Organo di Gestione o dell’Organo di Controllo), o mediante apposite clausole statutarie (come l’attribuzione di poteri interdittivi, in sede di deliberazione di operazioni straordinarie, ai membri dell’Organo di gestione di designazione bancaria): come fu per l’ipotesi conosciuta come “caso Italgrani”.  Casi, questi ultimi, nei quali il coordinamento delle società interessate potrebbe derivare dall’applicazione del nuovo art. 2497 septies cod.civ.
Ma non basta: perché le responsabilità che possono essere imputate alle attività delle banche che potremmo definire “banche coordinatrici” non sono le sole che possono emergere nelle situazioni qui esaminate.
Il novellato art. 2397 cod.civ. prospetta infatti una equivalente responsabilità, per i danni provocati da altri coordinatori ai creditori sociali ed ai soci (ed alla stessa società), attribuibile a chi “abbia comunque preso parte al fatto lesivo”: ed anche tale situazione può prospettare, a mio avviso, una responsabilità risarcitoria individuabile in capo ad una impresa bancaria.
Se si formula l’ipotesi che la direzione od il coordinamento delle imprese del “gruppo” non abbiano rispettato i principi di “corretta gestione societaria ed imprenditoriale” delle stesse, la responsabilità della banca (in generale) verso le società interessate, i loro soci ed i loro creditori, può configurarsi ogniqualvolta la banca “abbia comunque preso parte al fatto lesivo”,  sostenendo finanziariamente le operazioni poste in essere dal coordinatore o dai coordinatori scorretti.
La stessa ipotesi può prospettarsi quando il coordinamento delle società in “crisi” sia stato assunto da talune banche (di norma, espressione di grandi gruppi bancari), riunite in una sorta di “comitato di controllo”, mentre altre abbiano più semplicemente acceduto alla richiesta di sostegno finanziario del Piano di risanamento (come è avvenuto nel ricordato “Caso Italgrani”): caso nel quale verrebbe a configurarsi quella che potremmo chiamare “responsabilità delle banche fiancheggiatrici”.
L’ art. 2947 cod.civ. prospetta, infine, una terza ipotesi di responsabilità per i danni provocati da altri coordinatori ai creditori sociali ed ai soci (nonché alla stessa società), attribuibile, nei limiti del vantaggio conseguito, a “chi (ne) abbia consapevolmente tratto beneficio” dal fatto lesivo costituito da un esercizio scorretto della direzione e del coordinamento delle società interessate. 
Se si formula di nuovo l’ipotesi che talune società siano organizzate secondo il modello del “gruppo” (come delineato dagli artt. 2497-sexies e 2497-septies cod.civ.), e che risultino soggette alla direzione ed al coordinamento di terzi (anche quel coordinamento derivante dall’ingresso delle maggiori banche creditrici nel capitale di rischio, per l’attuazione di quell’esempio di ristrutturazione e risanamento che ho denominato “Amministrazione Bancaria”); la responsabilità  della banca (sia pure nei limiti del beneficio conseguito) può essere configurata anche in capo all’azienda di credito che non abbia svolto né il ruolo di “banca coordinatrice”, né il ruolo di “banca fiancheggiatrice”: ma che, più semplicemente, abbia tratto profitto dall’allontanamento della emersione dell’insolvenza, conseguendo – per esempio – il “consolidamento” di pagamenti e/o garanzie precedentemente acquisiti.
Ricorrerebbe, né più né meno, una fattispecie corrispondente a quella già verificatasi nel ricordato “Caso Italgrani”, nel quale, pur in assenza di una norma equivalente al nuovo art. 2497 cod.civ., allora non ancora neppure concepito e certamente non applicabile ai risalenti fatti censurati, sono state prospettate giudizialmente responsabilità risarcitorie in capo alle banche creditrici, tanto nei confronti di quelle (tre banche di rilievo nazionale che concessero i “finanziamenti-ponte”, grazie ai quali fu superata la prima manifestazione della crisi del “Gruppo Italgrani”), che poi diedero vita ad una attività di coordinamento (“banche coordinatrici”); tanto nei confronti delle altre (la maggioranza delle banche “ordinarie”), che agevolarono il tentativo di risanamento attraverso la sola concessione di “nuova finanza”, ma senza sostanziale voce in capitolo sulla conduzione del Piano di ristrutturazione (“banche fiancheggiatrici”); quanto, infine, nei confronti delle rimanenti aziende di credito, che nulla avevano fatto (né attività di coordinamento; né concessione di “nuova finanza”), se non … “stare alla finestra” (ma in tal modo omettendo comunque di attivare l’assoggettamento delle società del “Gruppo Italgrani” a procedure concorsuali), così conseguendo il “consolidamento” di pagamenti e/o garanzie precedentemente acquisiti – tanto da potere meritare l’epitteto di “banche parassita” -.
Di fronte alla problematica suscitata dalla recente disciplina delle responsabilità per attività di direzione e coordinamento di società – di cui si sia stati protagonisti; o “complici”; o spettatori “interessati” -, nessun correttivo specifico appare introdotto per l’ipotesi che le operazioni astrattamente censurabili siano state poste in essere in funzione dell’impostazione, oppure in funzione della esecuzione, di un piano di composizione di una situazione di “crisi”.
Come più volte sottolineato, le agevolazioni introdotte dal d.-l. n. 35/2005 sono circoscritte alla pre-visione di ipotesi di “esenzione” dall’azione revocatoria: fuori di questo campo, la eventuale situazione di “crisi” nella quale versi l’impresa interessata non ha – di per sé – alcun rilievo “positivo”.
Ciò non toglie che (anche) di fronte alle possibili responsabilità per direzione e coordinamento di società, non tutte le soluzioni astrattamente praticabili per il superamento della “crisi” espongano ad uguali pericoli.
Se ipotizziamo che l’impresa (o le imprese) del “gruppo” versanti in situazioni di difficoltà accedano al concordato preventivo od alla amministrazione controllata, pare improbabile che le attività poste in essere per la “sistemazione” della “crisi” – quali che ne siano i contenuti – possano essere giudicate, in un secondo momento, contrarie ai “principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale” tutelati dall’art. 2497 cod.civ.   La prevedibile soggezione di tali operazioni al regime delle autorizzazioni degli Organi della procedura, e più in generale la perdurante soggezione della gestione dell’impresa alla sorveglianza del commissario giudiziale, paiono costituire garanzie sufficienti sulla regolarità e correttezza dell’operato dell’imprenditore (e di chi per lui) in procedura, anche alla luce di una valutazione ex post.
Identica conclusione non può peraltro essere affermata, con ogni probabilità, per quel che riguarda gli atti di esecuzione degli accordi di “ristrutturazione”, di cui al nuovo art. 182-bis l.fall.
Benché sia previsto – ma ad esclusivi fini di “esenzione” dalla revocatoria fallimentare – che gli accordi di tale genere siano soggetti ad omologazione dell’Autorità giudiziaria, è discutibile che il relativo giudizio legittimi il tribunale a sindacare (non solo il merito dell’accordo, ma anche) l’eventuale carattere pregiudizievole del “piano” nei confronti dei soci di minoranza delle società del “gruppo” coinvolte e dei relativi creditori – legittimati se mai direttamente a proporre opposizione, eventualmente proprio lamentando tali profili pregiudizievoli, all’omologazione dell’accordo -.   Né pare di potere affermare che la mancata opposizione dei soci di minoranza e dei creditori delle società coinvolte dal “piano” di ristrutturazione impedisca a costoro di fare valere le conseguenze risarcitorie degli atti di “abuso” della direzione e del coordinamento “di gruppo”, per quanto previsti nell’accordo con i (diversi) creditori sottoposto al giudizio omologatorio del tribunale – oltretutto, l’incidenza sulla “redditività ed il valore della partecipazione” delle società coinvolte, e tanto più sulla “integrità del patrimonio” delle stesse, è destinata a manifestarsi solo in tempi successivi -.
E’ certo, comunque, che nessuna preclusione a fare valere l’asserita contrarietà ai “principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale” potrà essere reclamata per gli atti posti in essere in esecuzione di piani di composizione delle situazioni di “crisi” di carattere marcatamente stragiudiziale, quali gli accordi di “risanamento” presi in considerazione dal nuovo art. 67, co. 2, lett. d), l.fall.   Secondo il legislatore-riformatore, infatti tali “piani” hanno rilievo sotto l’esclusivo profilo della esenzione da revocatoria dei relativi atti di esecuzione; non postulano alcun giudizio di “correttezza gestionale” – attendendo la valutazione di “ragionevolezza” del piano di cui al richiamato art. 2501-bis, co. 4, cod.civ., a profili (economici e finanziari) tutt’affatto diversi -: così che i relativi comportamenti rimangono soggetti alla libera valutazione dell’autorità giudiziaria (civile e penale) per ciò che concerne l’ottemperanza di qualsiasi altra disposizione normativa, diversa da quelle rilevanti ai fini dell’applicazione della revocatoria fallimentare.


9. Composizione negoziale delle crisi d’impresa e responsabilità per “concessione abusiva di credito”.
Il tema della responsabilità anche delle banche per le operazioni poste in essere nell’ambito dei tentativi di composizione delle situazioni di “crisi” d’impresa, richiama l’attenzione su quelle ulteriori fattispecie problematiche nelle quali l’operato delle banche è messo in discussione sotto il profilo dell’asserito carattere “abusivo” dell’attività di concessione del credito.
La prospettabilità di una responsabilità della banca, nei confronti dei terzi creditori di una impresa (e forse nei confronti dell’impresa medesima) per “concessione abusiva di credito” in suo (apparente!) favore, è da tempo affermata in via teorica, ed ha trovato qualche applicazione nella prassi giudiziale (dove recentemente ha assunto le forme della responsabilità – miliardaria! – per la mancata esercitabilità delle azioni revocatorie fallimentari rese improponibili dalla procrastinazione della dichiarazione di fallimento dell’impresa tenuta in vita artificiosamente grazie ai finanziamenti bancari “abusivi”).
In estrema sintesi, si richiama la circostanza che la correttezza dell’operato della banca nella concessione e nella gestione del credito deve essere valutata alla luce del principio generale di “sana e prudente gestione” dell’impresa bancaria, alla quale il banchiere deve attenersi in quanto originaria condizione della autorizzazione amministrativa all’esercizio dell’attività creditizia; si invita a considerare come le vicende attinenti alla concessione, al mantenimento od alla “revoca” della concessione del credito bancario producano un effetto diretto anche sulla valutazione degli altri operatori economici che intrattengono rapporti commerciali con l’impresa affidata; si ricava da ciò la considerazione che la valutazione di detti operatori economici circa l’instaurabilità, od il mantenimento, di rapporti commerciali con l’imprenditore è condizionata dalla “reputazione economica” desumibile dall’andamento delle relazioni creditizie di questi con la banca (o con le banche), attesi i vincoli, di natura anche pubblicistica (i rapporti con le esigenze di tutela del risparmio), posti all’attività delle imprese bancarie in funzione di un corretto esercizio dell’attività creditizia; e si individua una responsabilità risarcitoria del banchiere che non si sia attenuto, nella concessione e nella gestione del credito, ai criteri di prudenza che la legge, le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, o anche le regole tecniche di esperienza proprie del diligente banchiere, gli imporrebbero di seguire, nei confronti di chi sia risultato danneggiato per avere concesso credito ad un imprenditore al quale, altrimenti, non l’avrebbe concesso; o per non avere adottato misure di protezione alle quali, invece, avrebbe fatto ricorso.
Legittimati all’esercizio dell’azione risarcitoria per “abusiva concessione di credito” sono pertanto, anzitutto, i singoli creditori (pretesi) danneggiati: e presupposto della affermabilità della responsabilità della banca “allegra” è la individuazione (e la prova) del nesso di causalità tra la concessione ingiustificata del credito all’imprenditore (asseritamene) immeritevole ed il pregiudizio economico lamentato dal singolo creditore di questi, la cui pretesa non risultasse integralmente soddisfatta.
Ma il danno prodotto dalla “concessione abusiva di credito” si ripercuoterebbe – si afferma -, almeno in caso di fallimento, anche direttamente sull’integrità del patrimonio dell’impresa fallita, e conse-guentemente sulle ragioni della generalità dei creditori: donde la legittimazione processuale del curatore falli-mentare ad esercitare l’azione risarcitoria per “concessione abusiva di credito” – nel fallimento, per l’appunto -, come azione “di massa”, tesa a conseguire il risarcimento del danno provocato dall’incremento dello stato passivo fallimentare di quei crediti sorti successivamente al momento in cui, se il credito “abusi-vamente” concesso fosse stato, invece, interrotto, i rapporti giuridici da cui sono stati originati non sarebbero stati posti in essere dagli operatori economici resi consapevoli della difficoltà finanziaria dell’imprenditore.
Anche per tale forma di responsabilità vi è da domandarsi se le attività poste in essere nell’ambito di “piani” di composiizione delle situazioni di “crisi” debbano meritare una valutazione particolare.
Per ciò che concerne la riforma della legge fallimentare prefigurata dal d.-l. n. 35/2005, pare di potere rilevare quel che segue.
Quanto all’assistenza finanziaria alle imprese ammesse alle procedure di amministrazione controllata e di concordato preventivo, vale quanto già osservato in materia di responsabilità per attività di direzione e coordinamento di società: il regime autorizzatorio previsto per le operazioni di carattere straordinario e la perdurante sorveglianza degli organi della Procedura sulla gestione imprenditoriale inducono a ritenere improbabile la emersione, a posteriori, del carattere “abusivo” delle attività di sostegno finanziario delle imprese in Procedura.
Per ciò che concerne i finanziamenti concessi alla impresa che avesse concluso un “accordo di ristrutturazione” omologato ai sensi e per gli effetti del nuovo art. 182-bis l.fall.; od a quella che avesse concluso un accordo di “risanamento” di quelli presi in considerazione dal nuovo art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. – invece -, la conclusione non è altrettanto certa.
Le due fattispecie devono probabilmente essere valutate in un unico contesto, perché il fattore che le distingue – l’omologazione giudiziale dell’accordo, che è previsto solo per la prima – non pare avere rilievo. Non pare infatti che l’autorità giudiziaria investita dell’omologa sia legittimata a sindacare il merito del piano di “ristrutturazione”, sotto qualsiasi profilo – fosse pur esso costituito dal dubbio della sua effettiva realizzabilità -, quando constasse il giudizio di “attuabilità” dell’esperto chiamato a redigere una apposita Relazione.
Il fattore che accomuna le due tipologie di “accordo” è piuttosto rappresentato dalla circostanza che in entrambi i casi la “genuinità” del sostegno finanziario concesso all’impresa – quanto meno sotto il profilo dell’attitudine a “assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei” all’accordo di ristrutturazione, oppure ad assicurare “il riequilibrio della (..) situazione finanziaria” dell’impresa – sono garantite dalla Relazione di un esperto (indipendente).
Ciò, tuttavia – ad avviso di chi scrive -, non ha alcun rilievo.
La prassi giudiziaria insegna che anche nelle fattispecie portate sino ad ora all’attenzione dei giudici, i piani di ristrutturazione nell’ambito dei quali era assicurata “nuova finanza” dalle banche erano stati giudicati idonei al risanamento da esperti indipendenti (gli advisor): tuttavia nessun serio ostacolo alla configurabilità di una possibile responsabilità per “concessione abusiva di credito” è stato individuato in tale circostanza.
Nulla di nuovo accade con la prospettata riforma della legge fallimentare – per come è delineata dal d.-l. n. 35/2005 -.  Gli accordi di “ristrutturazione” e di “risanamento” ricevono “protezione” esclusivamente sotto il profilo della esenzione da revocatoria degli atti posti in essere per la loro esecuzione: per il resto, tutto è come prima, e le responsabilità prospettabili nel passato – a vario titolo -, per le operazioni poste in essere nell’ambito dei tentativi di composizione (stragiudiziale) delle situazioni di crisi, rimangono impregiudicate anche per il futuro.


10. Conclusioni. L’idoneità della disciplina agevolativa delle composizioni negoziali delle crisi d’impresa a favorire la conclusione e l’esecuzione di accordi stragiudiziali.
Alla luce della valutazione dei fattori che parrebbero costituire i “presupposti di successo” di una disciplina normativa delle composizioni negoziali delle crisi d’impresa; ed alla luce delle disposizioni “di favore” previste per gli accordi tesi a conseguire tale obiettivo nel decreto-legge di riforma della legge fallimentare; un primo giudizio può essere espresso per ciò che concerne il grado di soddisfacimento ricavabile dalla considerazione della disciplina degli accordi stragiudiziali: ed è un giudizio prevalentemente negativo.
Intendendo in questa sede per “accordi stragiudiziali” sia quelli che non presentano effettivamente alcun profilo giudiziale (come gli accordi “di risanamento” ai quali fa riferimento il nuovo art. 67, co. 3, lett. d), l.fall.); sia quelli che prevedono bensì una omologazione giudiziale, ma si formano prima e fuori del procedimento giudiziario (come gli accordi “di ristrutturazione” ai quali fa riferimento il nuovo art. 182-bis l.fall.); si può sinteticamente osservare che:
a)gli accordi stragiudiziali vincolano esclusivamente coloro che li hanno sottoscritti, in virtù della loro ovvia forza contrattuale; nessun effetto vincolante nè altra conseguenza (diretta) è prevista per coloro che non li abbiano espressamente sottoscritti;
b)conseguentemente, nessun “effetto protettivo” si produce in favore del debitore. Il debitore rimane soggetto alle azioni esecutive e cautelari dei singoli creditori “ostili”, finanche dopo l’omologazione giudiziale dell’accordo “di ristrutturazione” di cui al nuovo art. 182-bis l.fall.;
c)gli “effetti protettivi” in favore dei creditori (e dei terzi in genere) sono circoscritti alla esenzione da revocatoria degli atti posti in essere in esecuzione del “piano” (con il limite, per le garanzie, di quelle costituite “su beni del debitore”, per ciò che concerne i piani di “risanamento”).
Rimangono pertanto impregiudicati i profili:
• della disciplina deteriore dei pagamenti e dei crediti connessi alla concessione di prestiti-soci e di finanziamenti infragruppo;
• di possibile responsabilità risarcitoria per attività di direzione e coordinamento di società (di cui si sia stati artefici; o solo “complici”; o finanche solo “spettatori” interessati);
• di possibile responsabilità risarcitoria per “concessione abusiva di credito”;
• di possibile responsabilità penale (per concorso in bancarotta preferenziale; o per concorso in bancarotta da aggravamento del dissesto conseguente a ritardata richiesta del fallimento – art. 217 l.fall. -);
d) nelle procedure di composizione delle crisi giudiziali o semigiudiziali anche l’effetto protettivo nei confronti degli atti posti in essere in esecuzione del “piano” predisposto dall’imprenditore è subordinato al verificarsi della condizione dell’approvazione dell’accordo da parte dei creditori (ove prevista) nonchè all’esito positivo del giudizio omologatorio (ove previsto);
e) la “nuova finanza” non è assistita da “prededuzione” nell’eventuale fallimento consecutivo (né da altro trattamento di favore rispetto ai creditori pregressi).
E’ certo che ogni riforma dovrebbe essere valutata più con lo spirito costruttivo che deriva dalla constatazione che “qualcosa” è stato fatto, che con lo spirito critico derivante dalla valutazione che si potesse far di meglio.   E’ altrettanto certo, peraltro, che maggiore è l’attesa sottesa ad una deter-minata prospettiva di riforma, più cocente può essere la delusione per la inadeguatezza dei suoi esiti.E le attese riposte nelle riforma della legge fallimentare non erano di piccola portata.


Prof. Avv. Sido Bonfatti
 Professore Ordinario di Diritto Bancario nell’Università di Modena e Reggio Emilia)