Le principali novità della riforma del fallimento
di Sabino Fortunato
Relazione tenuta in Trani il 13 maggio 2006 alla seduta inaugurale
del Corso di Formazione per Curatori ed Operatori della Crisi d’Impresa
)


      1. La “riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali” ipotizzata dalla legge n. 80 del 14 maggio 2005 (art. 1, co. 5 e 6; ma vedi anche art. 2, co. 1, 2 e 2 bis) e dal decreto legislativo di attuazione n. 5 del 9 gennaio 2006 è tutt’altro che “organica”, risultando parziale, in termini sia quantitativi che qualitativi, se pur significativa e di portata profonda, come mai sino ad ora, da oltre sessant’anni a questa parte, era accaduto.
 La riforma tocca fondamentalmente l’istituto del fallimento, abrogando l’amministrazione controllata e rivisitando in modo radicale il concordato preventivo e tutti gli accordi di sistemazione delle crisi intercorrenti fra debitore e creditori.
Non si occupa, se non di riflesso, della liquidazione coatta amministrativa e meno che mai dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Non accoglie il modello tripartito suggerito dalle Commissioni di studio Trevisanato che, sulla scia di modelli stranieri, ipotizzavano una fase di prevenzione e allerta, una fase di composizione concordata della crisi, una fase di liquidazione concorsuale, e che optavano perciò per un modello intermedio fra quello unitario della riforma tedesca e quello fortemente parcellizzato delle procedure anglosassoni e si avvicinavano piuttosto al modello francese.
La parzialità e disorganicità è aggravata dalla tecnica novellistica utilizzata, che, anziché privilegiare una abrogazione totale del vecchio regio decreto del 1942 e una riscrittura integrale della disciplina, ha preferito mantenere il corpo della legge fallimentare e modificarne le disposizioni, versando vino nuovo in otri vecchi, e così rendendo ancor più complesso e problematico il compito dell’interprete come dimostrano i primi interventi giurisprudenziali. Tanto che lo stesso legislatore, per scongiurare interpretazioni fortemente restrittive e legate ad una sorta di resistenza inerziale della giurisprudenza, è dovuto intervenire a pochi mesi dal decreto-legge per chiarire in via autentica che il presupposto oggettivo del concordato preventivo è nozione di genus, in quanto “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza” (d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, art. 36, cd. decreto “milleproroghe” convertito con legge 23 febbraio 2006, n. 51).
La riforma, oltre che parziale, è anche temporalmente scaglionata nella sua entrata in vigore, quasi a significare plasticamente la necessità di un progressivo superamento delle resistenze e delle incertezze in atto.
Entrano subito in vigore, con la tecnica della decretazione d’urgenza del 14 marzo 2005, n. 35, le disposizioni sulla revocatoria fallimentare e sugli accordi giudiziari e stragiudiziari fra imprenditore e creditori; entrano altresì in vigore sin dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (16 gennaio 2006) le norme del decreto legislativo n. 5/2006 relative a taluni effetti personali a carico del debitore fallito (abrogazione del registro dei falliti e della conseguente necessità della riabilitazione dopo la chiusura del fallimento, limiti al diritto di corrispondenza ed al diritto di circolazione, limiti al diritto di voto); la maggior parte della riforma è invece prorogata, nella sua concreta applicazione, a sei mesi dopo la pubblicazione in G. U. del detto decreto legislativo e dunque al 16 luglio 2006.
Va anche sottolineato che in forza della disciplina transitoria (art. 150) continueranno a convivere vecchia normativa e nuova disciplina, posto che ai ricorsi per dichiarazione di fallimento e alle domande di concordato fallimentare depositate prima del 16 luglio 2005 e alle procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla medesima data continuerà ad applicarsi la “legge anteriore”.


      2. Nonostante tutto la riforma del fallimento è portatrice di profonde novità, e innanzitutto nel tono complessivo della disciplina che riflette una mutata concezione dell’insolvenza e dei suoi effetti, soprattutto a carico dell’imprenditore fallito.
Intanto l’insolvenza non è più il solo cardine delle procedure concorsuali, soprattutto non lo è per quel che concerne il concordato preventivo che evoca un più ampio concetto di “crisi”, di disfunzione anche temporanea nel regolare andamento dell’attività di impresa. Su questo profilo, così come su tutte le forme di accordo tese ad affrontare e risolvere la crisi, non è possibile in questa sede soffermarsi in modo adeguato. Ma la riforma del concordato preventivo e l’introduzione di una specifica disciplina degli accordi stragiudiziali fra debitore e creditori è certamente uno dei punti più qualificanti la riforma.
Nel passato recente, la rigidità dei presupposti di accesso (oltre a quelli formali, soprattutto la meritevolezza) e dei contenuti dell’accordo concordatario (100% privilegiati, almeno il 40% chirografari; doppia maggioranza di numero e di quantità per il consenso dei creditori; tre forme tipiche di concordato) rendevano l’istituto pressochè inutilizzabile. E facevano sì che gli accordi stragiudiziali fossero visti con sospetto, possibili tanto di azioni revocatorie quanto di qualificazioni distrattive formalmente rilevanti. La disciplina sposta ora l’accento sulla ricerca costante dell’accordo fra debitore e creditori, sia in sede giudiziale che in sede stragiudiziale, che valga a scongiurare la procedura concorsuale coatta.
Ma mi preme osservare che il tasso di privatizzazione della disciplina della crisi d’impresa è certamente più elevato rispetto al passato. E ciò si insinua anche nella procedura “principe” dell’insolvenza, nello stesso fallimento per il passato caratterizzato da una concezione afflittiva e dirigistica, e che vorrebbe invece nel modello riformato da un canto eliminare ogni aspetto di afflittività per il fallito (salva, ovviamente, la repressione dei comportamenti penalmente rilevanti) e d’altro canto improntare l’amministrazione del patrimonio concorsuale ad una maggiore cooperazione fra i principali nuclei di interesse coinvolti: debitore e creditori.
Il fallimento, indubbiamente, comporta in via normale l’espropriazione del debitore (che di espropriazione collettiva e concorsuale si tratta) e dunque l’effetto di spossessamento e di affidamento ad un soggetto terzo, il curatore, dell’amministrazione e liquidazione del patrimonio. Comporta altresì un più esteso coinvolgimento dei creditori, attraverso il loro comitato, nell’amministrazione medesima quantomeno in termini autorizzatori o di pareri obbligatori e stavolta vincolanti, posto che l’insolvenza determina una situazione in cui la gestione e liquidazione del patrimonio si svolgono soprattutto e prevalentemente nell’interesse dei creditori (pur nella salvaguardia dei legittimi interessi del debitore espropriando).
Ma quella espropriazione è funzionale alla sistemazione oggettiva della crisi, non a decretare la morte civile del debitore. Ogni carattere inutilmente afflittivo del debitore va superato; permangono i limiti e gli obblighi che discendono dalla necessaria cooperazione del fallito alla ricostruzione delle vicende aziendali. Di qui l’abrogazione dell’art. 50 L. Fall. sul pubblico registro dei falliti, degli artt. 142-145 L. Fall. in termini di riabilitazione civile del fallito (ma va l’immutato art. 241 L. Fall., frutto di mancato coordinamento della disciplina); di qui l’introduzione nei novellati artt. 142-144 dell’istituto della “esdebitazione”, per consentire all’imprenditore “meritevole” un fresh-start, un riavvio nonostante il fallimento; di qui la permanenza degli artt. 46 e 47 sui beni non compresi nel fallimento e sugli alimenti e la casa di proprietà per il fallito e la famiglia, nonchè dell’art. 32 – spesso dimenticato – che legittima il curatore a farsi coadiuvare da “persone retribuite, compreso il fallito”.
Il primo risultato della riforma è da cogliere in questa istituzionale riabilitazione del fallito, nella concezione della crisi d’impresa sì come di una patologia microeconomica della singola unità produttiva ma comunque come una fisiologia oggettiva macroeconomica del sistema, di una economia che si è lasciata alle spalle la staticità di un mondo agro-industriale dai confini limitati e dal complessi produttivi materializzati e che è sempre più dominata dalla dinamicità “sconfinata” (o globalizzata) degli eventi e dalla immaterialità dei valori d’impresa.
Quanti e quali ulteriori aggiustamenti alle nostre consolidate strutture mentali un tale epocale mutamento di scenario debba comportare, questa è la sfida cui siamo chiamati a fornire idonea risposta.


      3. La riforma, anche sotto questo aspetto, che pure è tra i più innovativi, rivela la sua parzialità, soprattutto il suo difetto di coraggio. La novità non si svolge sino in fondo; il guado della concezione afflittiva della crisi d’impresa non è attraversato completamente.
Ciò emerge dal mantenimento di presunti privilegi a non fallire, resiste nella stessa denominazione della procedura che i progetti tecnici e anche politici consigliavano di modificare in termini oggettivi con la più asettica espressione di “liquidazione concorsuale” e che invece continua a connotarsi negativamente come “fallimento”.
Nella restrizione dell’area soggettiva delle imprese sottoposte a concordato preventivo e a fallimento non c’è solo il dichiarato intento deflattivo nei confronti di una amministrazione della giustizia, i cui malanni di inefficienza risiedono altrove. Meno fallimenti, meno carichi giudiziali. Giustamente si è osservato che meno fallimenti significa (come in una sorta di legge dei vasi comunicanti o in una sorta di legge di Lavoisier di conservazione della massa, secondo cui nulla si crea e nulla si distrugge) più procedure esecutive individuali: altro che deflazione nei carichi giudiziari complessivamente considerati!
Sul piano soggettivo la riforma mantiene fermo il principio tradizionale all’ordinamento italiano secondo cui il fallimento è procedura concorsuale dei soli imprenditori commerciali privati e non piccoli.
Chiude gli occhi dinnanzi alla rinnovata dilatazione della nozione di imprenditore agricolo che con la riforma del 2001 si è allargata a dismisura invadendo campi che in passato potevano e dovevano sottoporsi alla statuto dell’impresa commerciale.
Chiude gli occhi di fronte ad un panorama comunitario e internazionale che estende le procedure concorsuali non solo ad ogni imprenditore ma finanche all’insolvente civile.
E crea ingiustificate e inaccettabili disparità di trattamento, dal sapore di illegittimità costituzionale, poiché non si accorge che ciò che in passato aveva il senso del privilegio, ora con la nuova disciplina potrebbe avere il senso di una irragionevole penalizzazione.
Se è vero che il fallimento perde il suo carattere afflittivo, non può essere men vero che il rimedio della sistemazione concorsuale della esposizione debitoria non può costituire appannaggio esclusivo di alcune categorie di soggetti ma deve estendersi ad ogni debitore. Soprattutto poi quando si introduce l’istituto della esdebitazione, che consente allora di beneficiare di una definitiva remissione dei debiti a chi è passato per la liquidazione concorsuale e non consente il medesimo beneficio né ai piccoli imprenditori, né agli imprenditori agricoli, né agli insolventi civili. All’orizzonte sembrano delinearsi possibili vizi di legittimità costituzionale della disciplina dei soggetti del fallimento; soprattutto una interpretazione giurisprudenziale che – si spera – si applichi in termini riqualificatori della nozione di imprenditore agricolo, nozione a mio avviso irrilevante a designare uno statuto di non commercialità nell’attuale evoluzione ordinamentale, ma congrua a soli fini agevolativi comunitari.
La restrizione dell’area soggettiva di fallibilità e comunque del mantenimento della procedura passa certamente per varie strade nella riforma:
a) con l’introduzione di una nozione meramente quantitativa del piccolo imprenditore, sottratto alle procedure concorsuali e le cui soglie sono sufficientemente elevate, oltre che di problematica identificazione (investimento di capitale nell’azienda non superiore ad € 300.000,00; ricavi lordi annui non superiori ad € 200.000,00, quale media degli ultimi 3 anni o dall’inizio dell’attività);
b) con l’indagine preliminare, in sede di istruttoria prefallimentare (art. 15) sull’importo complessivo dei debiti scaduti e non pagati, che impediscono la dichiarazione di fallimento (ove inferiori ad € 25.000,00);
c) con la inutilità dell’accertamento del passivo quando risulti in sede di verifica l’insufficienza dell’attivo a soddisfare anche solo un creditore insinuato (salve le spese e le prededuzioni – art. 102);
d) con la disciplina che fissa un margine più sicuro al limite temporale entro cui è possibile la dichiarazione di fallimento in materia di imprenditore cessato o defunto, o anche di estensione del fallimento agli ex soci illimitatamente responsabili.
Ma se queste restrizioni si muovono nella logica – a mio avviso antiquata – del binomio commercialità-concorsualità, ancor più irragionevoli appaiono restrizioni più surrettizie, legate alla amministrativizzazione di talune crisi d’impresa.
Le imprese non sono tutte uguali, non solo per le dimensioni, non solo per l’oggetto dell’attività, ma anche per una sorta di qualità soggettiva dell’imprenditore, ove sia un ente pubblico o, ancora e più modernamente, ove sia da considerare “impresa sociale”.
Il legislatore restringe di fatto l’area dell’ordinaria procedura concorsuale quando estende l’ambito di applicazione dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi o quando estende l’area di applicazione della liquidazione coatta amministrativa. Ed un recente esempio in questa direzione è costituito dal fresco D.Lgs 24 marzo 2006, n. 155, che disciplina l’impresa sociale, identificandola in “tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale” e che hanno determinati requisiti (quali l’operare non esclusivamente nei confronti dei soci, associati o partecipi; e ancora l’operare nei settori dell’assistenza sociale o sanitaria o socio-sanitaria o della educazione, istruzione e formazione o della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema o della valorizzazione del patrimonio culturale o del turismo sociale o della formazione universitaria e post-universitaria o della ricerca ed erogazione di servizi culturali o della formazione extra-scolastica o dei servizi strumentali alle stesse imprese sociali; o anche solo per l’inserimento di lavoratori svantaggiati o disabili; e il non procedere neppure in forma indiretta alla distribuzione di utili; o il rispettare gli obblighi che fanno capo ad uno specifico “gruppo di imprese sociali”).
Tali imprese sociali in caso di insolvenza “sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa” e dunque sottratte tout court al fallimento.
E mentre il legislatore con una mano riformava le procedure concorsuali perseguendo disegni di privatizzazione, ma pur sempre sotto il vigile controllo dell’autorità giudiziaria, con l’altra mano sottraeva materia a quella riforma ampliando l’area di amministrativizzazione delle procedure.


      4. Ma torniamo al fallimento ed alle sue novità.
Nella mutata concezione, più privatizzata, della procedura, si coglie altresì il significato di importanti innovazioni in materia di legittimazione all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento e soprattutto in materia di relazione fra gli organi della procedura.
Sotto il primo profilo viene cancellata la possibilità della dichiarazione d’ufficio del fallimento ed il processo fallimentare diventa un processo di parti, sì con caratteri spesso inquisitori, ma pur sempre un processo di parti. Il ricorso per la dichiarazione di fallimento può provenire dal debitore stesso (e allora diviene importante – mancando il carattere officioso della procedura – verificare se la domanda proviene dal legittimo rappresentante dell’ente, adeguatamente investito del relativo potere), o da un creditore o residualmente dal Pubblico Ministero.
E qui il Pubblico Ministero è destinato a raccogliere il potere-dovere oltre che nelle tradizionali situazioni in cui l’insolvenza risulti nel corso di un procedimento penale, anche nell’ipotesi in cui risulti dalla segnalazione del Giudice che l’abbia rilevato nel corso di un procedimento civile (art. 71 L. Fall.). Si tende così per un verso a realizzare il noto principio del giusto processo, sancito dal brocardo “ne iudex procedat ex officio”, e per altro verso a porre rimedio alle situazioni che possono determinarsi soprattutto in sede di concordato preventivo, quando la procedura si interrompa senza pervenire alla omologazione o quando si giunga all’annullamento o risoluzione del concordato omologato e occorra riproporre l’istruttoria prefallimentare tesa all’accertamento dell’insolvenza in presenza di un presupposto di accesso al concordato che è quello di crisi, non necessariamente coincidente con l’insolvenza.
Ma è soprattutto al secondo profilo che occorre guardare, al mutato equilibrio di poteri fra gli organi della procedura che la riforma disegna e che costituisce possibilmente la scommessa più rilevante di buona o cattiva riuscita della riforma medesima.
Il Tribunale fallimentare conserva il suo ruolo di organo supremo della procedura: è investito dell’intera procedura fallimentare; nomina e revoca gli altri organi (quando non sia prevista una specifica competenza del Giudice Delegato); può sentire sempre in Camera di Consiglio fallito, curatore, comitato dei creditori; decide tutte le controversie che non siano di competenza del G. D. e i reclami avverso i provvedimenti del G. D.; soprattutto conosce di tutte le azioni che derivano dal fallimento, ora anche non solo delle azioni relative ai rapporti di lavoro ma delle azioni reali immobiliari (già prima assegnate alla competenza ordinaria dal vecchio art. 24 L. Fall.).
Ma è nel rapporto curatore-comitato dei creditori-giudice delegato che si coglie la novità più significativa della riforma.
Il G. D. non è più l’organo motore della procedura, le sue funzioni non sono più di direzione e vigilanza, ma di “vigilanza e di controllo della regolarità della procedura” (art. 25).
Acquista maggiore autonomia il curatore, cui spetta non solo l’amministrazione del patrimonio del fallito ma di compiere tutte le operazioni della procedura non più sotto la “direzione” del G. D., bensì sotto la congiunta vigilanza di G. D. e del comitato dei creditori.
E in questa prospettiva è al curatore che compete l’apposizione dei sigilli (art. 84), la redazione dell’inventario (art. 87), la predisposizione del progetto di stato passivo (art. 95), la redazione del programma di liquidazione (art. 104-ter), la gestione delle vendite fallimentari (art. 106). E ferma l’impossibilità di assumere la veste di avvocato nei giudizi che riguardano il fallimento, il curatore potrà ora nominare gli avvocati, anche se la revoca è disposta dal G. D. ed il compenso è liquidato dal medesimo G. D., benché su proposta del curatore; potrà nominare incaricati (coadiutori), benchè revoca e compensi (su proposta del curatore) sono decisi dal G. D. (art. 25, nn. 4 e 6).
Il G. D. mantiene il potere di autorizzare il curatore a citare in giudizio, di nominare arbitri su proposta del curatore, di autorizzarlo a delegare specifiche funzioni, ma perde ogni specifico potere autorizzatorio degli atti di amministrazione del patrimonio fallimentare, benché non sia da trascurare che al Giudice Delegato spetta – pur con il parere favorevole del comitato dei creditori – l’approvazione del programma di liquidazione e dunque una sorta di autorizzazione generale al compimento delle attività del curatore (art. 104-ter).
Molti poteri autorizzatori specifici passano al comitato dei creditori. Gli atti di disposizione del patrimonio, infatti, dalle riduzioni di crediti alle transazioni, dai compromessi alle rinunzie alle liti, dalla ricognizione dei diritti di terzi alla cancellazione di ipoteche e insomma tutti gli atti di cui all’art. 35 L. Fall., devono ora essere autorizzati dal comitato dei creditori, con l’obbligo di informativa preventiva da parte del curatore al G. D. di ogni transazione o di ogni altro atto di valore superiore ad € 50.000,00 (sempre che non siano riconducibili al programma di liquidazione).
Si arricchisce, dunque, l’informativa indirizzata al G. D. in funzione di vigilanza e controllo, talvolta prevedendo termini più realistici come la relazione iniziale o i rapporti semestrali (art. 33) da inviare anche al comitato dei creditori e all’ufficio del registro delle imprese.
E così anche per consentire il reclamo da parte del fallito e di ogni altro interessato al G. D. contro gli atti e le omissioni di curatore e comitato dei creditori (art. 36).
La vigilanza incrociata sul curatore può giungere, su proposta del G. D. o del comitato dei creditori o anche d’ufficio, a provocarne la revoca e a legittimare l’azione di responsabilità, pur sempre previa autorizzazione del G. D. o anche – e questa è l’altra novità – dello stesso comitato dei creditori (art. 38).
Ma in realtà, nel momento in cui il comitato dei creditori è investito di un ruolo più attivo e centrale nella procedura, abbandonando la veste della “bella addormentata” a tutela degli interessi esponenziali dei creditori tutti di cui è resto portatore, è anche onerato di una sua specifica responsabilità con una remunerazione eventuale e forse insufficiente.
Per consentire una maggiore professionalizzazione del comitato dei creditori è consentito che il componente possa delegare in tutto o in parte le proprie funzioni ad un soggetto che avrebbe i requisiti per la nomina a curatore (art. 28); la remunerazione del componente (e del suo delegato) è affidata (a parte il dovuto rimborso delle spese) alla decisione adottata dalla maggioranza dei creditori nella adunanza di verifica (art. 27 bis) e comunque in misura non superiore al 10% del compenso liquidato al curatore.
Sembra quasi si sia voluto fare a gara per depotenziare sul nascere il ruolo del comitato dei creditori, se si aggiunge alla scarna retribuzione la possibilità che i relativi componenti vengano chiamati in responsabilità (secondo i presupposti propri dell’azione di responsabilità contro i sindaci di società ex art. 2407 c.c. e con un rinvio di compatibilità di problematica interpretazione) sia per fatti commissivi che per fatti omissivi. Il difficile o meglio il gravoso compito del comitato dei creditori sembra preludere ad una sua voluta inerzia, sì da rendere attivabile il potere sostitutivo del G. D. E infatti, l’art. 41, co. 4°, L. Fall. dispone che “in caso di inerzia, di impossibilità di funzionamento del comitato o di urgenza, provvede il Giudice Delegato”.
La scommessa, con una siffatta disciplina, sembra già persa in partenza e i compiti autorizzatori destinati a rivivere integralmente nella figura del Giudice Delegato.


      5. La dichiarazione di fallimento apre l’espropriazione collettiva e produce effetti, com’è noto, per il fallito, per i creditori, per i terzi con i quali siano stati compiuti atti dispositivi in pregiudizio della garanzia generica dei creditori, o ancora per i terzi riguardo ai quali siano in corso rapporti giuridici pendenti.
Degli effetti personali e patrimoniali sul fallito si è detto: va aggiunta, come di particolare rilievo, la regola che l’apertura del fallimento produce ormai l’interruzione di diritto dei processi in corso di cui sia parte il fallito.
Quanto agli effetti sui creditori, deve evidenziarsi l’esteso divieto di ogni azioni esecutiva individuale – come nel passato – ma anche cautelare, compreso il sequestro giudiziario oltre che quello conservativo (art. 51). Si apre il concorso dei creditori e nulla sfugge all’accertamento concorsuale, crediti ma anche diritti reali o personali, mobiliari o immobiliari, anche se muniti di prelazione o da soddisfare in prededuzione.
Profonde e decisive le innovazioni – come è ormai noto – in tema di revocatorie fallimentari, immutata per gli atti a titolo gratuito o per i pagamenti anticipati (artt. 64 e 65), ma fortemente depotenziata per gli atti normali con estese eccezioni che sottraggono numerosi atti intervenuti nei sei mesi che precedono la dichiarazione di fallimento alla sanzione di inefficacia, nel tentativo di evitare che la crisi diventi irreversibile proprio per effetto di mancanza di ossigeno, di brutale interruzione dei rapporti che alimentano l’esercizio ordinario dell’attività di impresa.
Quanto, infine, agli effetti sui rapporti pendenti, si è abbandonato il metodo di regolamentazione casistica che ora disponeva la risoluzione di diritto ora la sospensione di taluni rapporti, con gravi inconvenienti per la disciplina di fattispecie negoziali atipiche o non regolate; e si è dettata una regola generale per ogni contratto, disponendo il principio della sospensione e di soggezione della sorte dei rapporti pendenti alla decisione del curatore, il quale, previa autorizzazione del comitato dei creditori, ha facoltà di scelta fra il subingresso con l’assunzione di tutti i relativi obblighi e lo scioglimento. Le eccezioni sono lasciate alla espressa previsione normativa.


      6. Novità rilevanti si segnalano altresì in tema di liquidazione dell’attivo, sorretta dall’esigenza di semplificazione ed efficienza degli atti di realizzo ma anche dall’idea di conservare per quanto possibile i complessi produttivi, anche mediante cessioni in blocco, affitti di azienda, esercizio provvisorio dell’impresa anche limitatamente a specifici rami. L’interesse dei creditori può coincidere con il mantenimento dell’efficienza produttiva di tutta o di parte dell’azienda.
La novità assoluta è rappresentata soprattutto dal “programma di liquidazione” (art. 104-ter), di cui consentitemi di rivendicare la sostanziale paternità in sede di Commissione Trevisanato.
Nel cercare una ragionevole alternativa alla necessità di specifiche autorizzazioni agli atti liquidatori del curatore che deve volta a volta assoggettarsi al provvedimento del G. D. con possibile inefficienza e intempestività del realizzo, mi sembrava di poter suggerire l’idea di una sorta di autorizzazione generalizzata all’attività, delineata sin dall’inizio in un apposito programma redatto dallo stesso curatore.
Si tratta di un vero e proprio business plan, di un programma preventivo che indica modalità e termini del realizzo dell’attivo, già segnalando l’opportunità dell’esercizio provvisorio anche per singoli rami, dell’affitto di azienda o di suoi rami, la sussistenza di proposte di concordato, le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie, la possibilità di cessioni unitarie, le condizioni di vendita dei singoli cespiti.
Un programma su cui interloquisce il comitato dei creditori e che è approvato dal Giudice Delegato, suscettibile di modifiche (o “supplementi” come le chiama la norma) nel rispetto della medesima procedura, e che “tiene luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della presente legge per l’adozione di atti o l’effettuazione di operazioni inclusi nel programma”.
Anche questa è una scommessa della riforma che, si spera, non resti in concreto “lettera morta”.


      7. Novità non mancano neppure in materia di riparto e di chiusura del fallimento, in particolare nella disciplina del concordato fallimentare ora aperto anche alla proposta non più del solo fallito, ma anche dei creditori o di terzi o dello stesso curatore.
Ma consentitemi, in questa purtroppo inevitabilmente veloce galoppata, di soffermarmi su un altro profilo del fallimento, non di carattere sostanziale ma di carattere processuale.
La disciplina processuale, come è ben noto ai pratici, non è meno importante di quella sostanziale e spesso condiziona fortemente la concreta attuazione dei diritti.
Il legislatore ha abbandonato il ricorso in materia fallimentare al giudizio contenzioso ordinario ed ha elevato a principio generale in tale sede il rito sommario camerale.
L’art. 24 sancisce la competenza del Tribunale che ha dichiarato il fallimento a conoscere di tutte le azioni che ne derivano e rinvia agli artt. 732 – 742 c.p.c. per il rito, escludendo l’applicazione del rito ordinario o del rito del lavoro, pur nel caso di connessione e facendo salve le sole ipotesi in cui sia prevista una specifica diversa disciplina.
La neutralità del rito camerale, il cui contenuto è in verità privo di disciplina e in cui il rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova è rimesso alla scelta del Giudice, ha convinto evidentemente il legislatore che tale rito sia più snello e rapido di quello ordinario e si coordini con le esigenze di speditezza della procedura concorsuale.
Senonchè il rito camerale conosce nello stesso fallimento molteplici versioni e interpretazioni che rendono incerto il quadro e irto di pericoli e di possibili errori il cammino. Stando all’art. 24, la regola è che le controversie dovranno introdursi con ricorso, il Tribunale convocherà le parti, potrà assumere informazioni e concluderà con decreto, reclamabile alla Corte di Appello entro 10 giorni dalla notificazione; a seconda che decida su diritti o no, il decreto di appello sarà ricorribile in Cassazione ex art. 111, co. 7°, Cost.
Ma le variazioni possibili sono tante.
La dichiarazione di fallimento segue il rito camerale, che consiste in una articolata disciplina della istruzione prefallimentare, cui si accompagna l’abrogazione della opposizione dinnanzi al medesimo Tribunale, con il ricorso da produrre in appello e quindi in Cassazione.
L’accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali segue ulteriori regole, così come le insinuazioni tardive, con possibili impugnazioni dinnanzi al medesimo Tribunale nella forma dell’opposizione, dell’impugnazione o revocazione dei crediti emessi, tutti con effetti meramente endoprocedimentali, e con decreto a sua volta impugnabile mediante ricorso per Cassazione.
I provvedimenti, ordinatori e decisori, del G. D. e del Tribunale sono reclamabili rispettivamente al Tribunale ed alla Corte di Appello, ai sensi dell’art. 26 L. Fall. con una disciplina dettata in via specifica e ancora una volta potranno i decreti conseguenti impugnarsi per Cassazione ex art. 111, co. 7°, Cost. a seconda della natura decisoria o meramente ordinatoria del provvedimento.
E ancora l’art. 36 detta ulteriore procedura camerale per il reclamo contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori, anche qui con un finale decreto del Tribunale espressamente definito “non soggetto a gravame” ma che difficilmente potrà sfuggire, nel caso di contenuto decisorio, al ricorso per Cassazione sempre ai sensi del noto art. 111, co. 7°, Cost.
E al rito camerale con vari adeguamenti si rinvia per il procedimento di revoca o di sostituzione del curatore o per l’omologazione del concordato fallimentare o per la esdebitazione del fallito.
La “babele procedimentale” investe, dunque, dopo il processo societario ed il processo ordinario, anche i processi fallimentari.
Forse è un po’ troppo e un appello ai processualisti si innalza disperato dalle fila dei pratici, perché pongano fine a questa babele con un ritorno a riti unitari.


      8. Qualche rapida conclusione.
La riforma è scritta. La sua parzialità, la sua disomogeneità impongono un attento sforzo interpretativo, che comunque non si chiuda pregiudizialmente alle novità che pure la riforma tenta di introdurre.
Non bisogna aver paura della sperimentazione.
E probabilmente i caratteri appena indicati, imporranno anche in tempi non eccessivamente lunghi un completamento e un riadeguamento della riforma.


Prof. Avv. Sabino FORTUNATO
Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università di Roma Tre