TRIBUNALE DI TRANI
Sezione Distaccata di Andria
(Provvedimento del Giudice dell’Esecuzione Penale nel proc. n. 31/06 R. Es. P.M.)


Il Giudice dell’esecuzione penale


letto il ricorso proposto nell’interesse di G. D. avverso l’«ordine di esecuzione per la carcerazione» emesso dal P.M. presso questo Tribunale in data 26/1/2006 con riferimento alla sentenza del Giudice dei Tribunale di Trani addetto alla Sezione distaccata di Andria 16/11/2005 n.417 divenuta irrevocabile il 10/1/2006;


rilevato in fatto che:


  con tale sentenza il G. era stato condannato alla pena di un anno e cinque mesi di reclusione, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla contestata recidiva reiterata specifica infraquinquennale, relativamente al delitto di calunnia continuata commesso “in Andria e Trani il 12, 13 e 26 giugno 199 7 “;


  il detto «ordíne di escecuzione» è stato emesso sull’asserito presupposto che «non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione prevista dal comma 5° dell’art. 656 c.pp. poiché il condannato trovasi nelle condizioni previste dal comma 9°, lett. c), del citato articolo (condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 co 4° c.p.) »;


tanto premesso e sciogliendo la riserva formulata all’esito dell’udienza camerale dell’1 marzo 2006, osserva.


Appare indubbia la operatività ratione temporis della disciplina, della L.5/12/2005 n. 251 con riguardo alla specifica questione controversa, atteso che il titolo esecutivo risulta essersi giuridicamente formato in data successiva a quella di entrata in vigore della stessa ed in quanto   comunque   la disposizione innovativa dell’art.9 L. cit. introduce una norma di carattere processuale da applicarsi con immediatezza all’atto processuale di riferimento nella specie rappresentato non già dalla formazione del titolo esecutivo in sé bensì, più propriamente, dalla emissione dell’ordine di esecuzione della pena.


Invero, ad analoga affermazione la Suprema Corte è pervenuta a proposito della omologa problematica indotta dalla pregressa entrata in vigore dell’art.1 L.27/5/1998 n.165 [già sostitutivo dell’art.656 c.p.p.], sancendo che “in virtù del principio tempus regit actum, la normativa dettata dalla legge 27 maggio 1998 n. 165 in tema di sospensione dell’esecuzione della pena ha efficacia operativa immediata e si applica, quindi, anche all’esecuzione di tutti gli ordini di carcerazione, compresi quelli che siano stati formati prima della sua entrata in vigore, ma non abbiano avuto esecuzione durante la vigenza della precedente disciplina dell’art.656 cod. proc. pen.”, ciò in quanto “le norme che regolano l’esecuzione della pena e le misure ad essa alternative non hanno contenuto di diritto penale sostanziale e, come tali, non sono soggette al principio, di rango costituzionale, sancito dall’art.2 cod. pen, che fa divieto alla legge posteriore di operare con efficacia retroattiva” [Cass., sez. I, 11 febbraio 2000, Patì: fattispecie nella quale è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656 cit., come novellato dalla L. n. 165/1998 cit., dedotta per preteso contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione. V., in senso sostanzialmente conforme: Cass., sez. un., 13 luglio 1998, Griffa  Cass., sez. I, 30 novembre 1998, De Fazio; Cass., sez. I, 18 gennaio 1999. Hamrouch; Cass., sez. I, 2 febbraio 1999, Oueslati; Cass., sez. I, 3 febbraio 1999, Sghiri , Cass., sez. I, 18 febbraio 1999, Nuzzo; Cass., sez. I, 12 marzo 1999, Aratori; Cass., sez. II, 19 ottobre 1999, Ravasi].


Più approfondita riflessione impone, la considerazione del presupposto sostanziale dell’«ordine di … carcerazione» in esame rappresentato   ad avviso del P.M. procedente   dalla circostanza che con la sentenza di condanna portata in esecuzione «sia stata applicata» nei riguardi del G. la recidiva prevista dal quarto comma dell’art.99 c.p.


Ebbene, il termine “applicare” equivale lessicalmente a “mettere in atto” o “in pratica” ovvero ad “attuare” ed in siffatta accezione sembra dover essere inteso anche in linea di diritto là dove il legislatore vi abbia già fatto ricorso [è il caso, ad esempio, dell’aggravamento sanzionatorio derivante da ubriachezza abituale   il quale, appunto, “si applica” anche nella ipotesi di cui al terzo comma dell’art.94 c.p.   oppure dell’istituto processuale della “applicazione della pena su richiesta “, opportunamente richiamato dal ricorrente].


Trasposti in ambito giuridico, il verbo “applicare ” e la correlativa forma participiale sembrano sottintendere, dunque, un’attività giudiziale realizzativa di determinati effetti concretamente percettibili, cosicché la recidiva possa considerarsi “applicata ” in sentenza proprio in quanto ivi se ne tragga la conseguenza tipica rappresentata dall’aumento dì pena foss’anche all’esito del c.d. giudizio di comparazione con eventuali circostanze attenuanti.


Ne discende che la “applicazione” della recidiva non va confusa con la relativa “contestazione ” e non può risolversi in essa, costituendo quest’ultima un’iniziativa del P.M. semplicemente funzionale all’attuazione del principio di cui all’art.521 c.p.p. ed operante   più propriamente   quale imprescindibile presupposto logico della “applicazione” stessa [Cass., sez. IV, 2 luglio 2004, Cortese.  Cass., sez. IV, 17 marzo 2004, Peruzy.  Cass., sez. 1, 16 aprile 2002, Triulcio].


Né appare fondatamente sostenibile che la “applicazione” della recidiva si identifichi ovvero si esaurisca con la mera ricognizione dei relativi elementi costitutivi e, dunque, nel. momento stesso nel quale   prescindendo dalla sua concreta incidenza ai fini determinativi della pena   il giudice la ritenga in sentenza formalmente o anche soltanto in modo implicito attraverso l’omessa espunzione della medesima dal contesto dell’imputazione: in tal caso, infatti la recidiva non potrebbe considerarsi “applicata” proprio in ragione dell’argomentazione lessicale appena evidenziata.


Al riguardo, non è privo di significato che la giurisprudenza di legittimità, nel sancire in linea generale che la “dichiarazione giudiziale dello status di recidivo”   e con essa, a fortiori, la semplice ricognizione dei requisiti essenziali della recidiva – “non ha natura costitutiva” [Cass., sez. IV, 16 marzo 2003, Marchetta], abbia affermato   con riferimento alla concedibilità della riabilitazione in favore dei “recidivi nei casi preveduti dai capoversi dell’articolo 99 “, e nel solco interpretativo tracciato da Cass., sez. un., 23 gennaio 1971, Piano   che il termine decennale di cui al secondo comma dell’art.179 c.p. non è operante “se la recidiva non fu dichiarato (e cioè, non solo contestata, ma ritenuta, (con incidenza. quindi sulla misura della pena) nella sentenza di condanna” [Cass., sez. I, 9 novembre 1995, Angeli. V., in senso sostanzialmente conforme, Cass., sez. I, 30 novembre 1973, Spuntarelli, secondo la quale “pur essendo la recidiva una circostanza inerente alla persona del colpevole, della stessa, facoltativa od obbligatoria, in tanto può tenersi conto in quanto risulti contestata e ritenuta nella sentenza di condanna sia ai fini dell’aggravamento della pena, nella fase di cognizione, sia ad ogni altro effetto, nella fase di esecuzione, e, di conseguenza, anche per il decorso del maggior termine per la riabilitazione”]


Dagli enunciati principi traspare la tendenza della Suprema Corte ad attribuire rilevanza al momento della “ritenzione ” giudiziale della recidiva solo in quanto essa spieghi concreta “incidenza…..sulla misura della pena” e si traduca, in definitiva, nella “applicazione ” della recidiva stessa ai fini della determinazione sanzionatoria.


D’altra parte, è ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore, qualora – attraverso la riscrittura del nono comma dell’art.656 c.p.p. in deroga alla generale previsione di cui al precedente comma quinto   avesse inteso attribuire rilevanza alla recidiva del condannato purchè contestata ed indi semplicemente ritenuta o riconosciuta a prescindere dalla sua effettiva, incidenza sul trattamento punitivo nonché pertanto dalla sua “applicazione ” concreta, avrebbe adottato una forma espositiva non dissimile da quella caratterizzante   ad esempio  la disposizione del comma 1 bis dell’art.444 c.p.p. limitativa dell’accesso al c.d. patteggiamento di pena nei riguardi di “coloro che siano stati dichiarati,.. recidivi ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale”.


Né può omettersi dì sottolineare come solo un’interpretazione normativa fondata sulla considerazione del concetto di “applicazione” della recidiva in termini di effettiva incidenza della medesima sul trattamento sanzionatorio concretamente adottato consenta, per un verso, di indirizzare la perentoria previsione derogatoria del nono comma dell’art.656 cit. a soggetti dei quali sia stata apprezzata la reale capacità di ricaduta criminale proprio attraverso l’aggravamento di pena indotto dalla recidiva ex art.99, IV comma, c.p.; per altro verso, di distoglierne la operatività nei riguardi di coloro i quali, rivestendo la contestata nonché ritenuta qualità di recidivi reiterati ex art.99, IV comma, cit, con riferimento a reati commessi in epoca risalente e/o di trascurabile allarme sociale, siano stati nuovamente condannati sulla, base dei previo riconoscimento di circostanze attenuanti [eventualmente traenti titolo dall’art.62 bis c.p] comparate alla recidiva con carattere di equivalenza, se non addirittura di prevalenza, in ragione appunto dello scarso peso concretamente riconosciuto a quest’ultima.


Ebbene, il testo della sentenza di condanna nella specie pronunziata a carico del G. e portata in esecuzione dal P.M. rivela che la contestata “recidiva reiterata specifica infraquinquennale” non aveva spiegato alcun effetto sulla determinazione della irrogata sanzione di un anno e cinque mesi di reclusione, siccome apprezzata con carattere di minusvalenza rispetto alle circostanze attenuanti generiche contestualmente riconosciute.


Ne discende che,, non potendo la detta recidiva considerarsi applicata ai sensi e per gli effetti del nono comma dell’art. 656 cit., il ricorso merita accoglimento, conseguendone la revoca dell’«ordine di … carcerazione» nonché la rimessione in libertà del G.   se non detenuto per altra causa   e la promuovibilità dell’esecuzione nei riguardi del medesimo nelle sole forme ordinarie di cui al quinto comma dell’art. 656 cit.


P. Q. M.


Il Giudice dei Tribunale di Trani addetto alla Sezione distaccata di Andria, con funzioni di Giudice dell’esecuzione penale, accoglie il ricorso proposto nell’interesse di, G. D. e, per l’effetto, revoca l’«ordine di esecuzione per la carcerazione» emesso dal P.M. presso questo Tribunale in data 26/1/2006 con riferimento alla sentenza del Giudice del Tribunale di Trani addetto alla Sezione distaccata di Andria 16/11/2005 n. 417 divenuta irrevocabile il 10/1/2006, ordinando la immediata liberazione dei G. se non detenuto per altra causa.


Manda alla cancelleria per le prescritte,comunicazioni.


Così deciso in Andria, addì 2 marzo. 2006.


Dott. Francesco Rizzi