Le novità nella disciplina della prescrizione
0. L’interpretazione della legge pone scelte di metodo che presentano valenze politico-criminali sensibili all’oggetto dell’attività ermeneutica. Quando una legge, come nel caso della c.d. «ex Cirielli», oltre a soffrire di mende testuali, si presenta nel complesso irragionevole e a tratti francamente incostituzionale, le tonalità politiche delle scelte metodologiche si sganciano, almeno in parte, dalle intenzioni dell’interprete; del giudice, in particolare. La preferenza accordata ai canoni ermeneutici più esplicitamente orientati in chiave politico-criminale – si pensi all’interpretazione teleologica – diventa compatibile con l’impegno ad esercitare nel modo più «neutrale» possibile il potere-dovere di applicare comunque la legge; viceversa, la più rigorosa fedeltà al dato testuale può tradire l’opposta intenzione di – come dire – «mettere alle corde» il prodotto legislativo, per evidenziarne l’irragionevolezza. Resta fermo, in ogni caso, che la valenza politica del metodo deve essere tarata con la misura del non liquet, che non solo condiziona la scelta degli strumenti per «scire leges», ma imprime alle stesse scelte una dimensione del tutto strumentale e contingente. Quando, però – com’è nell’ambito del dibattito «scientifico» – ogni scelta di metodo è consentita, ogni opzione metodologica vale solo per se stessa.
In questo diverso contesto, il rigetto dell’interpretazione correttiva assume il significato dell’indisponibilità nei confronti di qualsiasi maldestra supplenza ad «un disegno antagonista pensato da altri» (Donini); una supplenza che nel caso della «ex Cirielli» risulta ancora meno indicata perchè, come gli antipiretici che riducendo la temperatura possono nascondere la malattia, avrebbe l’effetto di mascherare i troppi vizi di una legge «caratterizzata da aspetti negativi gravissimi», priva di «coerenza» e di «razionalità» (Pulitanò); viceversa, adottando un’interpretazione saldamente ancorata al dato testuale, questi vizi, com’è doveroso che sia, emergeranno con evidenza, anche nella materia cui queste prime riflessioni just in time sono dedicate.
01. Le principali novità della prescrizione introdotte dalla l. 5 dicembre 2005, n. 251 possono essere illustrate distinguendo sette profili di disciplina:
- – termini (art. 157 c.p.) (par. 1.);
- – sospensione (artt. 159 c.p.) (par. 2.);
- – interruzione (art. 160, comma 3) (par. 3.);
- – termini e interruzione (art. 161, comma 2) (par. 4.);
- – decorrenza del termine della prescrizione nel reato continuato (art. 158, comma 1) (par. 5.);
- – sospensione e interruzione della prescrizione nella connessione di reati (ex art. 161, comma 2) (par. 6.);
- – vacatio legis e disciplina transitoria (art. 10 l. 251/2005) (par. 7.).
1. Le novità del riformulato art. 157 c.p. si prestano ad essere esaminate sotto due profili:
- a. le regole che definiscono i termini di prescrizione;
- b. i criteri di calcolo della pena in funzione della individuazione del tempo necessario alla prescrizione del reato.
1. a. Nel novellato art. 157 la disciplina dei termini della prescrizione si articola in sei regole/criteri.
Il primo comma dispone che il tempo della prescrizione nei delitti per i quali è prevista la pena della reclusione superiore a sei anni corrisponde al massimo della pena detentiva (art. 157, comma 1). Breve: tot pena-tot prescrizione (regola generale per i delitti).
Ai delitti per i quali è prevista la pena della multa o della reclusione non superiore nel massimo a sei anni si applica la regola sussidiaria della prescrizione in sei anni (art. 157, comma 2).
Tutte le contravvenzioni per le quali è prevista la pena dell’arresto o dell’ammenda sono soggette alla regola generale della prescrizione quadriennale (art. 157, comma 2) (regola generale delle contravvenzioni).
Il comma 5 detta una regola specifica per i reati puniti con pene «speciali»: per i reati per i quali è prevista una pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria la prescrizione si compie in tre anni (art. 157, comma 5).
Il comma successivo, invece, detta il criterio eccezionale del raddoppio dei termini di prescrizione per i delitti previsti dagli artt. 449 e 589, primo e secondo capoverso del c.p. e dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. (1).
L’ultimo comma stabilisce che la prescrizione non estingue i delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti (regola dei delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo).
Mende testuali a parte, tra quelle appena enunciate, la regola dell’art. 157 più problematica dal punto di vista esegetico è quella dell’art. 157, comma 5 (c.d. regola specifica dei reati puniti con pene «speciali») (1.a.1.), mentre la più irragionevole sembra essere quella dettata dall’art. 157, comma 6 (1.a.2.).
1.a.1. L’art. 157, comma 5, impone all’interprete di stabilire quali sono le fattispecie per le quali la legge prevede pene diverse da quella detentiva e pecuniaria (pene «speciali»).
Nei primi commenti della l. 251/2005 si è fatto riferimento ai reati che l’art. 4 del d.lgs. 274/2000 devolve alla competenza del giudice di pace (Bricchetti, Tedeschi) per cui l’art. 52 dello stesso d.lgs. prevede la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità. Chi ha formulato questa proposta ha, tuttavia, prontamente avvertito che tale disposizione non prescrive solo le sanzioni «speciali», come sembrerebbe richiedere l’art. 157, comma 5. L’art. 52 del d.lgs. 274/2000, infatti, contempla le sanzioni «speciali» come alternativa alla pena pecuniaria. Per superare questa dissonanza si è suggerito di estendere la prescrizione «breve» anche ai reati per i quali le pene «speciali» sono previste insieme con le pene «comuni» (reclusione, multa-arresto, ammenda); una soluzione che non può essere accolta per due motivi:
L’ambito di applicazione dell’art. 157, comma 5, va circoscritto pertanto all’art. 52 comma 3, del l.lgs. 274/2000 che nei casi «recidiva reiterata infraquinquennale» (non rientranti nella previsione del successivo comma 4, per i quali non «sussistano circostanze attenuanti prevalenti o equivalenti») dispone che sia applicabile della solo permanenza domiciliare. Il risultato del combinato disposto così ottenuto, tuttavia, appare gravemente irragionevole per due motivi. Questa soluzione, infatti, per un verso, implica, ancora una volta, una prescrizione più lunga per il caso meno grave e meno lunga per il caso più grave, dall’altro, impone di considerare, solo per questa ipotesi, il bilanciamento delle circostanze (vedi art. 52, comma 4, d.lgs. 274/2000), escluso in tutti gli altri casi dall’art. 157, comma 4.
1.a.2. L’art. 157, comma 6, raddoppiando i termini di prescrizione di alcuni delitti colposi determina sperequazioni a iosa che, almeno in un caso, assumono la consistenza della illegittimità costituzionale.
La limitazione del raddoppio della prescrizione alle ipotesi di omicidio colposo previste dal primo e dal secondo capoverso dell’art. 589 c.p. appare priva di qualsiasi giustificazione da ogni punto di vista: l’accertamento del fatto, la gravità della colpa e del reato, la pericolosità dell’autore, la prospettiva della vittima.
Sotto il primo profilo è sufficiente osservare che i processi per colpa professionale esclusi dal raddoppio sono molto complessi non solo perchè richiedono lunghe e complesse indagini di ordine tecnico, ma anche perché molto spesso l’«accusa» è diretta nei confronti di più imputati, tutti, altrettanto spesso, capaci di mettere in campo risorse difensive non indifferenti. Non per nulla nei processi per colpa professionale l’exitus della prescrizione non è un evento raro, laddove questo risultato non si verifica quasi mai nelle altre species di omicidio colposo.
La natura delle regole violate non predica quasi nulla in ordine alla gravità della colpa. Questa è condizionata da altri fattori, quali, in particolare, la prevedibilità o l’effettiva rappresentazione della situazione finale del reato, l’entità dello scostamento tra il comportamento tenuto dall’autore e quello richiesto dalla diligenza oggettiva. Non è affatto ragionevole, quindi, affermare che la condotta colposa del chirurgo o dell’anestesista è sempre e comunque meno grave della violazione delle regole cautelari della circolazione stradale.
Anche gli elementi sintomatici della pericolosità sono estranei alla natura delle regole violate: rilevano, piuttosto, i parametri che definiscono la gravità della colpa, come ad esempio, l’atteggiamento tenuto post-fatto nei confronti della vittima e gli eventuali precedenti specifici, che, invece, la nuova disciplina non permette di prendere in considerazione. Vale osservare, infatti, che per un verso, l’attenuante del risarcimento del danno, come qualsiasi altra attenuante, non incide affatto sulla durata della prescrizione (art. 157, comma 2) e, per l’altro, che il delitto colposo, fatte salve le eccezioni cui si accennerà in seguito, è stato espunto dalla disciplina della recidiva.
Quanto all’ultima prospettiva segnalata, la irragionevolezza della disposizione in esame emerge vistosamente solo che si chieda – con la migliore dottrina – se «bisogna … credere che la vittima di un guidatore distratto resista all’oblio molto più a lungo di quella di un chirurgo inesperto» (Padovani) e, quindi, siano giustificabili termini di prescrizione diversi.
L’irragionevolezza dell’art. 157, comma 6, assume il tratto della incostituzionalità nel combinato disposto con gli artt. 449, comma 1, 423, 427, comma 2, 433, comma 3; 449, comma 2, 428, 430. Per effetto del raddoppio del termine prescrizionale, infatti:
Se, facendo leva sul prevalente rilievo che nella disciplina della prescrizione deve essere riconosciuto all’evento – l’evento, più dell’azione, racchiude i significati che si imprimono nella memoria collettiva e rispetto ai quali sorgono e si consolidano le istanze di punizione – si può accettare che dolo e colpa siano sottoposti agli stessi termini di prescrizione, in mancanza di qualsiasi altro sostegno argomentativo, la circostanza che l’ipotesi colposa «goda» di una prescrizione più lunga di quella dolosa appare assolutamente irragionevole.
1.b. La nuova disciplina dei criteri di calcolo della pena in funzione della individuazione del tempo necessario alla prescrizione del reato si basa su cinque regole, quattro delle quali del tutto «nuove»:
- – la regola ripresa dalla disciplina precedente è quella secondo cui nel caso di reato per il quale la legge prevede congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria il tempo della prescrizione si determina in base alla pena detentiva;
- – le quattro regole «nuove» riguardano le circostanze.
1.b.1. L’art. 157, comma 3, dispone che il tempo della prescrizione si determina in base alla pena stabilita per il reato consumato o tentato:
- – senza mai tener conto della diminuzione di pena corrispondente alle circostanze attenuanti;
- – senza tener conto delle aggravanti, fatte salve le aggravanti per la quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale;
- – il tempo della prescrizione si determina in base all’aumento massimo di pena dell’aggravante;
- – nella determinazione del tempo della prescrizione non si applica la disciplina del bilanciamento prevista dall’art. 69 c.p..
Nel conflitto tra certezza ed equità, il legislatore non ha operato mediazioni o bilanciamenti, privilegiando le ragioni della prima insieme con quelle della prevenzione generale. Soltanto un’approfondita analisi de(i limiti del) sindacato costituzionale di ragionevolezza – analisi che in questa sede non è possibile nemmeno accennare – permetterebbe di stabilire se una disciplina certamente sbilanciata, qual è senza dubbio quella in esame, sia non solo inopportuna, ma anche incostituzionale; fermo restando, in ogni caso, che appare auspicabile un intervento correttivo in grado di ripristinare un maggiore equilibrio tra le diverse istanze dell’intervento penale in questa materia.
2. Le modifiche della «sospensione» riguardano la disciplina dell’autorizzazione a procedere e soprattutto le regole della «sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti».
Rispetto alla disciplina precedente che non stabiliva quando la prescrizione riprendeva il suo decorso, l’art. 159, comma 2, ha opportunamente precisato che la ripartenza del termine prescrizionale coincide con il giorno in cui la richiesta di autorizzazione è accolta.
Desta perplessità, invece, l’art. 159, comma 1, n. 3 nella parte in cui riferisce l’effetto sospensivo del procedimento o del processo a qualsiasi impedimento delle parti o dei difensori ovvero a qualsiasi richiesta dell’imputato o del suo difensore. Simile previsione contrasta con l’indirizzo legislativo cui risponde l’art. 304 del c.p.p., comma 1, lett. a) c.p.p. nella parte in cui esclude che abbia luogo la sospensione dei termini di custodia cautelare ove la sospensione o il rinvio del dibattimento siano stati disposti per esigenze di acquisizione della prova o a seguito di concessione di termini per la difesa.
3. Le modifiche concernenti la disciplina dell’interruzione sono contenute nell’ultima parte dell’art. 160, comma 3.
Si allude all’inedito rinvio all’art. 161, comma 2, resosi necessario per agganciare la disciplina in esame ai nuovi criteri di calcolo dei termini massimi di prescrizione dettati dallo stesso art. 161, comma 2; un rinvio che non ha portata universale ma opera «fatta eccezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale» (art. 160, comma 3, u.p.). Per effetto di questa disposizione, i reati di cui agli artt. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. vengono sottoposti ad un regime di semi-imprescrittibilità, sospeso tra l’imprescrittibilità assoluta dei delitti soggetti alla pena dell’ergastolo e l’improrogabilità dei termini di prescrizione prevista per tutti gli altri reati.
I reati richiamati dall’art. 160, comma 3, u.p. si prescrivono solo se il tempo necessario all’estinzione del reato decorre integralmente prima o dopo il verificarsi di un fattore interruttivo. Mentre nei delitti «normalmente» prescrittibili l’interruzione opera facendo ripartire il termine della prescrizione e aggiornandone i massimi (art. 161, comma 2), nei reati di cui agli artt. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. l’interruzione realizza solo l’effetto di ripartenza, posto che al verificarsi di ogni fattore interruttivo il tempo prescrizionale riprende il percorso non solo ex novo ma anche usque ad finem, senza alcun limite. L’effetto nella prassi di questa disciplina è l’«imprescrittibilità processuale»: la possibilità della prescrizione è cioè limitata al caso in cui il tempo necessario all’estinzione del reato sia maturato prima di qualsiasi fattore interruttivo; altrimenti, è pressoché impossibile che tra un fattore interruttivo e l’altro possa inframezzarsi il lasso di tempo necessario all’estinzione del reato.
4. Il novellato art. 161, comma 2, innova sensibilmente la disciplina degli effetti dell’interruzione sotto due profili:
- – il criterio generale dell’aumento di un quarto;
- – il criterio speciale dell’aumento della metà per le ipotesi di recidiva dell’art. 99, secondo comma, dell’aumento di due terzi nel caso dell’art. 99 quarto comma, dell’aumento doppio nei casi previsti dagli artt. 102 (abitualità presunta dalle legge), 103 (abitualità ritenuta dal giudice), 105 (professionalità del reato);
- – l’esclusione dall’applicazione di questa disciplina ai reati previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3- quater.
Quest’ultima prescrizione non è affatto chiara: l’incipit dell’art. 161, comma 2 («salvo che si proceda per i reati di cui … ») sembrerebbe riproporre il già illustrato dettato dell’art. 160, comma 3, u.p.; simile interpretazione, tuttavia, nega un significato autonomo alla locuzione in esame e, quindi, non può essere accolta. Si può ipotizzare allora che l’incipit dell’art. 161, comma 2, intenda escludere per i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater gli ulteriori aumenti dei termini prescrizionali previsti dalla restante parte dello stesso comma. In altri termini, se fosse corretta questa interpretazione, l’art. 160, comma 3, u.p. sancirebbe che per i reati de qua la prescrizione decorre ex novo e usque ad finem ove si verifichi un atto interruttivo, mentre l’art. 161, comma 2, prescriverebbe che verificatosi il fatto interruttivo il nuovo termine prescrizionale non subisce gli aumenti indicati nell’ultima parte della stessa disposizione.
Un cenno soltanto, infine, per rilevare due contraddizioni nell’indicazione dei casi in cui il termine prescrizionale può essere raddoppiato .
L’art. 103 descrive una fattispecie che implica una valutazione discrezionale del giudice. Un innesto in controtendenza rispetto alle altre scelte della l. 251/2005 che, come si è già notato, giunge ad escludere il bilanciamento delle circostanze per evitare le incertezze connesse alle valutazioni relative al raffronto tra aggravanti e attenuanti; un «contromano», dunque, che non giova alla razionalità dell’insieme e che appare specialmente commendevole data la circostanza che si inserisce al vertice del castello repressivo della nuova disciplina della prescrizione.
Altrettanto irrazionale appare l’inserimento, nel medesimo ambito disciplinare, dell’art. 105: questa disposizione, che attribuisce rilievo anche alla qualifica di contravventore abituale, è in radicale contrasto con l’indirizzo che emerge dalla l. 251/2005 di negare qualsiasi rilievo alle contravvenzioni e ai delitti colposi.
5. Il novellato art. 158, comma 1, eliminando ogni riferimento alla continuazione, ha escluso la rilevanza del reato continuato nella disciplina della «decorrenza del termine della prescrizione». A questi fini la continuazione perde qualsiasi significato e, quindi, lo start del termine prescrizionale si determinerà utilizzando per ciascun dei reati in continuazione le regole dettate dallo stesso art. 158, comma 1, per il reato consumato, per il tentativo, per il reato permanente e quello abituale.
In conseguenza di questa opinabile riforma, dovrà cambiare, innanzitutto, lo stile di formulazione degli atti di contestazione (es. artt. 417,comma 1, lett. b); 429, comma 1, lett b); 552, comma 1, lett. b) c.p.p.): il p.m. e il giudice non potranno limitarsi ad indicare la data fino alla quale l’autore ha realizzato il disegno criminoso, ma dovranno segnalare per ciascun reato il dies a quo.
Riflettendo su questa circostanza si è osservato che la modifica dell’art. 158, comma 2, annuncia la riscoperta della distinzione tra concorso formale di reati e continuazione, che per effetto delle modeste differenze applicative tra i due istituti era caduta in un cono d’ombra. Lungo il solco tracciato da questa riflessione si può altresì presagire una ripresa della discussione, da tempo sopita, sull’essenza della continuazione, anche se la modifica della disposizione in esame non sembra in grado di falsificare l’«intesa» prevalente in dottrina sull’ambivalenza dell’istituto che avrebbe natura «reale» rispetto alla pena e «fittizia» ad altri effetti (Romano), tra i quali oggi (a differenza di quanto accadeva fino a ieri) va compresa anche la prescrizione.
Ulteriori spunti ricostruttivi sui limiti del medesimo disegno criminoso derivano anche dall’eventualità che nella continuazione tra delitti e contravvenzioni o tra reati colposi e dolosi, a carico di un recidivo, l’aumento del termine della prescrizione ex art. 161, comma 2, non sia uguale per tutti i reati, ma sia quello generale di un quarto per i delitti colposi e le contravvenzioni, che ex art. 99, comma 1, sfuggono alla disciplina della recidiva che, invece, si applica ai delitti colposi, per i quali pertanto potrebbero valere i termini speciali dell’art. 161, comma 2. Questa circostanza, infatti, potrebbe essere utilizzata per avvalorare la posizione contraria alla configurabilità della continuazione tra delitti e contravvenzioni, delitti dolosi e reati colposi.
6. Con la l. 251/2005, per effetto della novella dell’art. 161, comma 2, scompare dalla disciplina degli «effetti della sospensione e della interruzione» il caso in cui «per più reati si procede congiuntamente». Il nuovo art. 161, comma 2, inoltre, non contiene alcun cenno a questa ipotesi. Gli atti interruttivi e le cause di sospensione, pertanto, hanno effetto solo per i reati cui si riferiscono.
Ancora una volta l’interprete è posto al cospetto di una disposizione gravemente e irragionevolmente complicatoria; nulla a che vedere, infatti, con l’esigenza di una bilanciata attuazione della regola aurea che «i modi e i tempi del procedere (la separazione dei processi) debbano essere neutri rispetto alla applicazione degli istituti sostanziali» (Pulitanò).
Secondo la dottrina prevalente, il vecchio art. 161, comma 2 faceva riferimento alla «connessione processuale» e aveva lo scopo di assicurare un calcolo dei fatti interruttivi e di quelli sospensivi uguale per tutti i reati connessi, salvi restando i termini prescrizionali di ciascuna fattispecie. Questa era l’unica variabile, insieme al termine di decorrenza della prescrizione, cui il giudice doveva prestare attenzione.
Con l’eliminazione del riferimento ai «reati connessi» e le altre modifiche introdotte dall’art. 161 il giudice deve tenere sotto controllo ben quattro indici.:
- – il giorno di decorrenza del termine prescrizionale;
- – il tempo di prescrizione;
- – l’aumento del termine di prescrizione in funzione della tipologia di reato (contravvenzione-delitto colposo) e del tipo di recidiva o di qualificazione della pericolosità sociale da applicare all’imputato;
- – gli effetti della sospensione e della interruzione per ciascun reato.
E’ di tutta evidenza che il nuovo art. 161, comma 2, dissolvendo – sotto il delicato profilo della prescrizione – il legame tra diritto e processo penale, segna un (altro) clamoroso arresto rispetto alla «consapevolezza», pressoché corale, che ogni rischio di incomunicabilità tra le «due anime del sistema penale», ogni disattenzione all’esigenza di una «lettura integrata» è artificiosa, controproducente e antistorica (Fiandaca-Di Chiara).
Solo l’esperienza giuridica saprà fornire l’esatta misura delle conseguenze di questa censurabile opzione; ma in the book gli effetti negativi della schizofrenia tra diritto e processo penale già sono evidenti. E’ il confronto tra la disciplina della plurisoggettività (eventuale o necessaria) e quella del reato continuato conferma la critica. Per la prima, infatti, applicando l’art. 161, comma 1, continuerà, come accadeva prima della l. 251/2005, ad operare l’effetto propagativo delle cause di sospensione e dei fatti interruttivi, un effetto che incidendo anche nei confronti dei soggetti non personalmente riguardati dalla causa sospensiva o interruttiva verificatasi si pone – come notato dalla dottrina – su «una linea di evidente sfavore nei loro confronti» (Romano). La propagazione, invece, dopo la modifica dell’art. 158, comma 1, non opererà più nei confronti del reato continuato, a meno che non si intenda ritenere che la disarticolazione dei reati in continuazione riguardi solo l’individuazione del giorno a partire dal quale far decorrere il tempo della prescrizione e non le altre regole del medesimo ambito di materia.
Ancora una volta sono decisive le scelte di metodo. Adottando un’interpretazione conservativo-correttiva si dovrebbe preferire senz’altro questa seconda ipotesi, posto che la prima determina un’irragionevole disparità di trattamento tra plurisoggettività e continuazione. Sostenendo che la regola dell’art. 161, comma 1, si applica al concorso di persone nel reato e non si applica alla continuazione, infatti, la disciplina dei reati commessi dallo stesso autore nell’esecuzione del medesimo disegno criminoso risulterebbe, senza alcuna plausibile giustificazione, più favorevole della disciplina riservata alla connessione soggettiva. Disparità di trattamento tanto più grave se si considera che la connessione soggettiva cui fa riferimento l’art. 161, comma 1, non sempre sottende una connessione teleologica tra coloro che hanno realizzato lo stesso fatto posto che l’art. 161, comma 1, ma, secondo l’opinione prevalente, sussiste anche quando le condotte degli agenti configurano delle semplici concause indipendenti dell’evento.
7. L’art. 10 della l. 251/2005 determina il tempo della vacatio legis e detta la «disciplina transitoria».
L’art. 10, comma 1, ha disposto l’entrata in vigore della legge il giorno successivo alla sua pubblicazione. «Fretta» inutile ed incongrua è stato osservato: una vacatio legis più lunga avrebbe garantito agli operatori giuridici il tempo di maturare con maggiore ponderazione l’interpretazione delle nuove disposizioni, soprattutto di quelle che incidono più gravemente sul trattamento penale (Del Castillo).
La disciplina transitoria in senso stretto è contenuta nel secondo e terzo comma.
L’art. 10, comma 2, sancisce, «ferme restando le disposizioni dell’art. 2 del codice penale quanto alle norme della presente legge» che «le disposizioni dell’art. 6 non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli vigenti».
Mende testuali a parte, il significato di questa disposizione non è comunque adamantino. Le interpretazioni possibili sono due.
Si può ritenere che il legislatore abbia voluto fornire un’interpretazione autentica dell’art. 2 c.p. chiarendo – ove mai ve ne fosse stato bisogno – che la prescrizione è soggetta al regime di tale disposizione del c.p. e, quindi, che le modifiche sfavorevoli-successive soccombono rispetto alle disposizioni precedenti-più favorevoli; ma osta all’accoglimento di questa ipotesi il riferimento al procedimento e al processo che, nel contesto interpretativo appena delineato, risulterebbe privo di significato.
L’alternativa più aderente al dato testuale è all’opposto che la disposizione in esame circoscrive l’ambito di applicazione dell’art. 2, statuendo che l’ultrattività della legge precedente più favorevole opera solo se, all’epoca di entrata in vigore, era già sorto il procedimento penale, mentre, nel caso di fatto commesso prima, per il quale tuttavia il procedimento sia sorto dopo tale scadenza si applicherà la disciplina della prescrizione in vigore all’epoca in cui il procedimento è sorto, e, cioè, quella successiva ancorché sfavorevole.
Ancora una volta, la fedeltà al dato letterale comporta un prezzo elevato in termini di ragionevolezza. Ammesso pure che il criterio della legge più favorevole ex articolo 2, comma 3, c.p. sia pienamente derogabile in sede di disciplina transitoria, un conto – è stato esattamente osservato – è derogarvi per i nuovi e più brevi termini di prescrizione onde evitare rovinosi effetti sui procedimenti in corso, altro «è derogarvi per i nuovi e più lunghi reati, imponendoli come reatroattivi anche nei confronti di reati anteriori all’entrata in vigore della legge, solo perché i relativi procedimenti sono iniziati dopo tale data. … Il limite della manifesta irragionevolezza parrebbe davvero superato» (Ferrua).
Date queste premesse ogni incertezza sulla incostituzionalità della disposizione deve essere superata rispetto agli artt. 157, comma 6, 160, comma 3, u.p.. Si tratta – giova rimarcare – di previsioni che solo per alcuni reati introducono una disciplina della prescrizione eccezionale ed estremamente sfavorevole, senza il supporto di accurate valutazioni comparative, ma, al contrario, sulla base di opzioni selettive poco informate e/o pigre, come testimonia, in particolare, il riferimento ai commi 3-bis, 3-quater dell’art. 51 del c.p.p., per effetto del quale il legislatore ha trascinato nella disciplina della prescrizione scelte operate avendo riguardo a tutt’altre esigenze di natura procedurale.
Il comma 3, stabilisce che i termini di prescrizione più brevi non si applicano «se vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché nei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione».
La disposizione pone problemi squisitamente interpretativi e di costituzionalità.
I problemi interpretativi sono prevalentemente legati al rapporto dell’art. 10, comma 2 con le disposizioni processuali relative ai riti alternativi e soprattutto alle ipotesi di regressione del processo alla fase iniziale.
La prima questione è agevolmente risolvibile nel senso che la disposizione si applicherà dove il rito espressamente preveda la dichiarazione di apertura del dibattimento (giudizio immediato, direttissimo, dibattimento conseguente all’opposizione al decreto penale di condanna), mentre non si applicherà – piaccia o non piaccia – dove tale formalità non è contemplata: «patteggiamento» e, in particolare, «abbreviato», riti, peraltro, che sono concepiti in termini persino antagonistici rispetto al rito ordinario.
Più complessa è, invece, la questione relativa all’ipotesi in cui dopo una prima dichiarazione di apertura del dibattimento si debba procedere nuovamente alla stessa formalità, come nel caso, ad esempio, di variazione del collegio o del giudice. Anche in queste circostanze, il dato che la legge abbia utilizzato il passato prossimo «vi sia stata» per designare il tempo dell’apertura del dibattimento induce a pensare che il termine di cui all’art. 10, comma 3, valga solo per la prima dichiarazione e non per quelle successive, nello stesso grado di giudizio. Se così fosse la disposizione risulterebbe dubbia sotto il profilo costituzionale, posto che la radicale diversità di trattamento riservata a due situazioni (non identiche ma) simili potrebbe essere apprezzata come violazione dell’art. 3 Cost.. Le nuove contestazioni e la modifica dell’imputazione pongono ulteriori problemi di legittimità costituzionale sotto lo stesso profilo del principio-criterio di uguaglianza. In queste ipotesi rivivono alcune delle facoltà che la legge concede all’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, senza tuttavia prevedere espressamente la necessità di rinnovare tale formalità. Giusto interrogarsi, pertanto, se sia compatibile con l’art. 3 Cost. la disparità di trattamento che l’art. 10, comma 3, determina tra questa situazione e la prima dichiarazione di apertura del dibattimento espressamente prevista dalla medesima disposizione.
Lo stesso riferimento all’art. 3 Cost. ricorre nelle eccezioni di incostituzionalità già sollevate dal Tribunale di Paola, Sezione di Scalea, Ordinanza, 12 dicembre 2005; prima di illustrarle per sommi capi è opportuno rilevare che l’art. 10, comma 3, della l. 251/2005 è figlio dell’improvviso cambio di rotta subito dalla c.d. legge «ex-Cirielli» nell’ultimo tratto del suo lungo e faticoso iter parlamentare. Quando ancora non era stato proposto l’emendamento da cui ha tratto origine l’art. 10, la migliore dottrina aveva denunciato sulla scorta di dati del Ministero di Giustizia che la disciplina prefigurata nel testo all’esame del Parlamento, riducendo – com’è effettivamente avvenuto nella disciplina definitivamente approvata – il termine di prescrizione per molti reati di gravità medio alta, avrebbe introdotto «una sorta di amnistia surrettizia irrazionalmente mirata su delitti gravi», determinando, altresì, «una falcidia di processi i cui tempi sarebbero stati coerenti con i vecchi termini di prescrizione, ma non con i nuovi più stretti». Per il legislatore – concludeva lo stesso insigne autore – «è un effetto previsto, e quindi voluto (in senso naturalistico) quanto meno nella forma del dolo diretto», ma restava sul campo l’ipotesi del «dolo intenzionale» riguardo agli effetti della falcidia mirati a risolvere talune specifiche vicende processuali (Dolcini). A pochi mesi delle elezioni politiche, in zona Cesarini è mancato alla maggioranza della XIV legislatura il coraggio di assumersi la responsabilità di questi effetti. Così è stato presentato l’emendamento al quale risale l’articolo in esame. Un rimedio approssimativo per una legge funditus sbagliata. Difficile del resto – com’è stato notato – che «specie sul terreno della prescrizione dei reati, … a scelte legislative irragionevoli possa corrispondere un ragionevole regime transitorio» (Ferrua).
Questo è il contesto in cui si sta sviluppando il dibattito sulla incostituzionalità dell’art. 10, comma 3 della l. 251/2005. Il confronto è incentrato su due argomenti: la copertura costituzionale dell’art. 2, comma 3 c.p. e la violazione del principio di parità di trattamento tra coloro che potranno beneficiare dei nuovi meno lunghi termini di prescrizione e coloro che, invece, dovranno subire i precedenti sfavorevoli termini prescrizionali anche per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge. La questione è stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Sentenza della Corte di Cassazione, VI Sezione Penale, 12 dicembre 2005.
Nei motivi del rigetto la Suprema Corte ha insistito sull’assenza di copertura costituzionale dell’art. 2, comma 3 e sulla sussistenza di ragionevoli motivi a fondamento della disparità di trattamento. Sotto questo secondo profilo «è davvero difficile negare che sussista una simile esigenza; quello in esame parrebbe quasi un caso scolastico di “buone ragioni” per derogare alla retroattività favorevole, a fronte dei disastrosi effetti connessi all’immediata applicazione della nuova legge a tutti i processi in corso» (Ferrua).
Se l’art. 2, comma 3, sia disposizione implicitamente sottoposta alla garanzia di costituzionalità è questione che trascende la materia in esame e sovrasta i compiti di questo intervento.
Prof. Giuseppe LOSAPPIO
Nota