Sul concetto di crisi e sullo stato di insolvenza.
Il nuovo presupposto oggettivo del concordato preventivo
alla luce della riforma del diritto fallimentare.

Emanuella Prascina


Il complicato iter legislativo che ha portato alla riforma del diritto fallimentare ha evidenziato un tratto comune tra i vari progetti proposti, relativo all’esigenza di un intervento anticipato sul dissesto dell’impresa e di un sistema di monitoraggio delle realtà aziendali che consentisse di agire prima che la difficoltà assumesse un carattere definitivo e irrimediabile.
L’obiettivo di prevenzione del dissesto, realizzato con il potenziamento del concordato preventivo e con il ricorso al fallimento solo in situazioni estreme, avrebbe richiesto, però, la predisposizione di “meccanismi di allerta e prevenzione” che monitorassero costantemente l’azienda e il suo andamento e consentissero l’emersione tempestiva delle criticità, in funzione di un intervento immediato e finalizzato al recupero del business. 
Per quanto sia da criticare la mancata introduzione di tali meccanismi, studiati e fortemente sostenuti dalla Commissione Trevisanato, il nuovo regime delle procedure concorsuali si pone comunque in una prospettiva di azione anticipata e tempestiva, consentendo il ricorso al concordato preventivo in situazioni di “crisi” dell’impresa, mentre si mantiene come presupposto oggettivo del fallimento lo stato di insolvenza.
Si tratta, ora, di precisare il significato del termine crisi – soprattutto perché la riforma lascia ancora punti oscuri in proposito – al fine di comprendere il raggio di azione delle due procedure e di verificare l’effettiva anticipazione dell’intervento sull’impresa, che caratterizza il concordato preventivo.  Ciò è ancor più importante ove si consideri che la riforma ha abrogato la procedura di amministrazione controllata, proprio perché obiettivo dichiarato del legislatore era quello di dare questa nuova veste “preventiva” al concordato, cui, peraltro, ha trasferito molte delle funzioni dell’abrogata procedura.
La situazione oggetto di esame è piuttosto singolare dal momento che, prima della riforma, per quanto non vi fosse una definizione che chiarisse la portata del concetto di crisi, le posizioni dottrinali erano piuttosto concordi nel considerare la crisi come una situazione differente dall’insolvenza.  In particolare, con tale concetto si intendeva una situazione relativa ad una difficoltà dell’impresa non ancora caratterizzata da una portata e da una prospettiva di irrecuperabilità tali da configurare l’insolvenza e, quindi, di configurare un presupposto del fallimento.  Secondo la definizione data dalla Commissione Trevisanato, la crisi configurava “una situazione patrimoniale economica e finanziaria in cui si trova l’impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza” (1).
In mancanza dell’interpretazione autentica, dunque, si era ritenuto che il concetto di crisi, introdotto dal legislatore in virtù del “carattere prevalentemente risanatorio” (2) assunto dal nuovo concordato e non definito in sede di miniriforma, si riferisse ad una situazione “anteriore all’insolvenza, in cui l’impresa ha ancora risorse tali da far sperare in un risanamento senza ricorrere a drastici interventi” (3).  
Il quadro si è complicato con la precisazione contenuta nei decreti attuativi del dicembre 2005, i quali hanno chiarito (?) che lo stato di crisi ricomprende anche l’insolvenza.  Precisazione tutt’altro che chiara, visto che rende molto più complicata la definizione dei limiti tra crisi propriamente detta e insolvenza e, di conseguenza, l’applicazione del concordato piuttosto che il fallimento.
Eppure, già prima dei decreti di dicembre, non era mancato in dottrina chi aveva accolto l’idea opposta, ovvero quella che riteneva il concetto di crisi comprensivo dello stato d’insolvenza (4).  Secondo questa teoria, che è probabilmente quella che il legislatore ha disciplinato con i decreti attuativi, il financial distress (crisi finanziaria) che caratterizza lo stato di crisi può essere seguito dall’insolvenza, intesa come la degenerazione del declino aziendale e come stadio finale della crisi stessa.
La teoria, che potrebbe convincere per il fatto che prevede una distinzione tra crisi e insolvenza, per quanto i due presupposti siano considerati manifestazione di un’unica situazione di criticità per l’impresa, pecca per il fatto di escludere altre tipologie di crisi che possono caratterizzare la realtà aziendale.  La “difficoltà-che-non-è-ancora-insolvenza”, infatti, può essere determinata non solo da fattori finanziari (debito-credito), ma anche da problematiche di tipo economico (relative, cioè, alla collocazione dell’impresa sul mercato) o patrimoniali (relative all’equilibrio tra le poste attive e passive del bilancio), sia interne che esterne. 
Sembrerebbe, dunque, che il legislatore abbia voluto creare per il concordato un presupposto versatile e ampio, che sia capace di ricomprendere le situazioni di difficoltà più disparate.  L’insolvenza, al contrario, è una incapacità prettamente finanziaria, perché relativa all’incapacità di far fronte regolarmente ai propri debiti, e, per di più, definitiva e irreversibile (5)
Dunque, per quanto non si possa escludere che la crisi sfoci in un’insolvenza, la diversa collocazione temporale e la differente portata dei due concetti ne giustificano la distinzione.
Se, infatti, elementi caratterizzanti della crisi sono la qualità delle difficoltà e le previsioni di ripresa, è da criticare la scelta del legislatore di ricomprendere in un unico concetto due fenomeni così diversi quanto a gravità e ad effetti sul piano delle procedure.
Ancora, come sostiene autorevole dottrina (6), se tra i due concetti non vi fosse una sostanziale differenza, il legislatore non si sarebbe preoccupato di modificare il presupposto oggettivo del concordato, per quanto poi renda più difficile la soluzione della diatriba con l’interpretazione autentica del dicembre 2005.  Secondo la medesima dottrina, “la crisi è un fatto intrinseco all’impresa che non si manifesta all’esterno finchè non si traduce in inadempimenti e poi in insolvenza e lo stato di insolvenza comprende la crisi mentre non è vero il contrario” (7).
Non si può che concludere nel senso di una diversità ontologica tra i due concetti (8), giustificata da ragioni di opportunità dell’intervento legislativo nonché dalla considerazione relativa all’eliminazione dell’automatismo nella conversione del concordato in fallimento che, prima della riforma, era giustificata proprio dall’identità di presupposto oggettivo tra le due procedure (9).
La modifica del presupposto oggettivo del concordato impedisce, infatti, al giudice di dichiarare il fallimento d’ufficio e gli impone di verificare la situazione di insolvenza in cui eventualmente versi l’impresa, in mancanza della quale non potrà procedere ad una declaratoria di fallimento. 
È necessaria, poi, un’ulteriore precisazione.  Lo stato di crisi dell’art. 160 l. fall. Deve essere tenuto distinto dalla temporanea difficoltà di adempiere, in quanto quest’ultimo si configura come fenomeno meramente finanziario, per quanto temporaneo, mentre la crisi è una situazione sì temporanea, ma determinabile da molteplici fattori.
L’unico appiglio che si può lasciare alla norma interpretatrice è la considerazione che una formulazione della crisi nei termini sopra esposti precluderebbe un approdo concordatario alle imprese che già siano insolventi.  In sostanza, l’infelice formula legislativa potrebbe essere letta nel senso di considerare l’insolvenza come fenomeno solo “parzialmente sovrapponibile” con la crisi (10), che, in presenza di segnali di ripresa, possa consentire una soluzione negoziata della crisi.
Il rilievo merita considerazione, se non altro per l’attenzione che pone alla più ampia applicabilità del concordato.  Ma questo rapporto di genere a specie non convince per la relazione temporale che si deve necessariamente porre tra i due concetti, dove l’insolvenza può essere causata dalla crisi, ma è profondamente diversa da essa.
 Felice è, dunque, la parafrasi della scienza medica fatta dal mio Professore Giuseppe Alessi: “La crisi è una malattia e l’insolvenza è la morte: la malattia non è la morte ma può costituirne una delle cause”.


-Dott.ssa Emanuella Prascina-


Note:



  1. GIANNELLI G., Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa nella riforma delle procedure concorsuali.  Prime riflessioni, in Dir. fall. soc. comm., 2005,VI, 1157.

  2. PANUCCI M., La riforma delle procedure concorsuali.  La nuova disciplina degli accordi stragiudiziali.  Disponibile sul sito internet www.assind.ud.it .

  3. GIULIANO M., Nuovo concordato preventivo: si parte dallo stato di crisi, in Dir. e prat. soc., 2005, 13, 24.

  4. GIULIANO M., DI GRAVIO V., La riforma del diritto concorsuale nel panorama giuridico economico italiano, in Opinioni e Confronti, 2004, 2, 19.

  5. Così ALESSI G., Il nuovo concordato preventivo, in Dir. fall. Soc. comm., 2005, VI, 1133.

  6. BOZZA G., Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in Fall., 2005, 953.

  7. Riporta il pensiero di Bozza, ALESSI G.,  op. cit., 1134-35

  8. ALESSI G., op. cit., 1133.

  9. La considerazione è sempre di ALESSI G.,  op. cit., 1134.

  10. GIANNELLI G., op. cit., 1158.