NOTA A SENTENZA PENALE DEL TRIBUNALE DI TRANI N. 125/2005


Irregolarità e falsità delle valutazioni nelle comunicazioni alla Banca d’Italia (*).


1. Premessa.
Nella ricostruzione proposta dall’interessante e articolata sentenza che si annota il tema delle false valutazioni nelle comunicazioni alle autorità di vigilanza pone due profili, distinti ma complementari:



  • l’uno concernente l’interpretazione della formula «fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni», che figura nel precetto dei novellati artt. 2621, 2622 e 2638 c.c. (con specifico riferimento – s’intende – all’ultima di queste disposizioni)

  • l’altro relativo al significato che assume nell’accertamento della responsabilità penale la molteplicità/variabilità del(la natura del)le regole mediante le quali si formano alcune classi di dati – segnatamente, nel caso in esame, le c.d. sofferenze – oggetto delle comunicazioni alla Banca d’Italia (1).

2. L’interpretazione della formula «fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni».
Sotto il primo aspetto, i punti salienti della discussione concernono la «falsità delle valutazioni» (2) e il significato dell’espressione «fatti materiali»:
Per un verso occorre stabilire se la «falsità delle valutazioni» ha una valenza autonoma, indipendente dalla falsità del fatto al quale si riferiscono le stesse valutazioni (la valutazione falsa rileva anche se il fatto è vero, ovvero, il riferimento alle «valutazioni» degli artt. 2621-2622-2638 c.c. vale soltanto nei confronti delle valutazioni di fatti falsi ?); per l’altro si tratta, invece, di attribuire un significato all’espressione «fatti materiali» e di valutare le inferenze del risultato così ottenuto nella dialettica tra valutazioni di fatti veri-valutazioni di fatti falsi.


L’intermittenza dei dati legislativi e delle motivazioni illustrate nei lavori preparatori rendono ancora più impegnativa una ricerca (3), intrinsecamente complessa; né, certo, aiuta l’obiettiva inconsistenza del dato testuale. L’unico significato «certo», non opinabile, della locuzione «fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni», infatti, è la pertinenza al fatto tipico delle comunicazioni relative a fatti materiali che «non esistono», ancorché espresse nella forma di un valore o di un giudizio. L’appostazione di un immobile inesistente – si è esemplificato – non perde rilievo solo perchè nel bilancio il bene è rappresentato mediante la stima del suo valore. Le valutazioni di fatti falsi, in altri termini, non escludono che la falsità del fatti possa assumere rilevanza penale. E’ di solare evidenza del resto che «per poter effettuare una valutazione … dovrà certamente esistere una realtà (…) da valutare. Diversamente, ove si “valutasse” un qualcosa di inesistente – nel senso di quantificare, attribuire un valore ad una realtà insussistente – si rientrerebbe, tout court, nell’esposizione di fatti non rispondenti al vero» (4). Sarebbe assurdo, peraltro, attribuire alle valutazioni una sorta di efficacia scriminante; ma se – come si è appena dimostrato – l’esposizione di fatti falsi resta conforme al fatto tipico anche quando il fatto inesistente è oggetto di un giudizio, è logico che la soglia di rilevanza delle valutazioni estimative sia riferita alle valutazioni di fatti veri. In tal senso, per un verso, vale osservare che il legislatore, circoscrivendo la rilevanza del falso estimativo, per forza di cose ha fatto rivivere la possibilità di applicare gli artt. 2621-2622 c.c. alla falsità delle valutazioni; per l’altro, che una soluzione differente sarebbe ancora una volta assurda. La previsione di soglie di punibilità del falso valutativo ha senso solo rispetto alla valutazione di fatti veri: la valutazione di un fatto falso è sempre falsa al 100 %.


La specificazione per cui i «fatti» rilevanti sono solo quelli «materiali» arreca un contributo molto modesto, sia perchè l’attributo rinviene da contesti di disciplina eterogenei rispetto a quello degli artt. 2621-2622-2638 c.c., sia perché l’espressione manca di precisione e di valenza selettiva.
Quanto al primo aspetto vale osservare che secondo un’autorevole opinione, l’aggettivo, «erroneamente (ed inutilmente) inserito» nel testo delle disposizioni in esame, è il frutto «di un’affrettata traduzione del termine material, utilizzato nel linguaggio giuridico-contabile statunitense per esprimere un giudizio di rilevanza del fatto, come, ad esempio, nel Securities Act statunitense … dove proprio utilizzando l’espressione material fact viene riassunto il concetto di informazione rilevante che deve essere portata a conoscenza dell’investitore prima che egli proceda all’acquisto» (5). Material, altrimenti, è l’informazione necessaria e sufficiente, idonea a rappresentare la natura, i rischi e le implicazioni di una specifica operazione (così art. 28, comma 2, reg. Consob 11522/1998), ma non esuberante, contenuta, cioè, nei limiti entro i quali il flusso di dati riversato sul consumatore riduce piuttosto che incrementare le asimmetrie informative tra le parti, ostacolando piuttosto che agevolare la maturazione di ponderate scelte di investimento (6). Nell’uno e nell’altro caso, l’attributo material non indica una qualità o un modo d’essere strutturale del fatto oggetto dell’informazione; designa, piuttosto, la funzione che un dato, «materiale» o «immateriale», riveste nello scambio di informazioni tra cliente e intermediario. Nulla a che vedere dunque con l’attribuzione di significato predicata dal legislatore nei lavori preparatori; un’altra «brillante» espressione del latinorum che ha caratterizzato una riforma (7), che anche per queste performances la migliore dottrina ha giudicato persino «faceta» (8).


3. Irregolarità e decettività del falso.
Nel giudizio conclusosi con la sentenza annotata agli imputati era contestato di avere segnalato crediti in sofferenza per lire 73.000.000.000 mentre, con riferimento allo stesso periodo, un successivo accertamento effettuato dagli ispettori della Banca d’Italia aveva evidenziato un importo pari a lire 211.700.000.000. Sennonché – si legge nella decisione del Tribunale di Trani – i Commissari straordinari, poco dopo le conclusioni ispettive, in sede di stesura della prima situazione patrimoniale, «accertavano sofferenze pari a 109.700.000.000 di lire, inferiore, quindi, di ben 102.000.000.000 di lire (ovvero inferiore di oltre il 48 %) rispetto a quello esposto dagli ispettori in sede di relazione di chiusura». Le stesse sofferenze, infine, nella determinazione del prezzo dell’Opa (nei confronti della Banca commissariata) erano quantificate in soli circa 45-50 miliardi (importo persino inferiore rispetto a quello denunciato nelle comunicazioni considerate false). In relazione a questi rilievi il Tribunale svolge un complesso ragionamento che tra l’altro si sofferma sulla natura delle regole che presiedono alla classificazione delle sofferenze e alla prospettiva ex ante o ex post del giudizio relativo alla falsità delle comunicazioni che le banche devono trasmettere alla autorità di vigilanza.
Sotto il primo profilo, nella motivazione si evidenzia che la differenza dei risultati dipende dalla differenza dei criteri ai quali le valutazioni sono parametrate: quelle degli ispettori della Banca d’Italia sono il risultato «acritico» di regole di giudizio che il Tribunale definisce rigide, burocratiche; le valutazioni dei Commissari straordinari invece sarebbero aperte alle «premesse» e alle «evoluzioni di impresa»; i giudizi dei consulenti indicati dalla difesa, infine, sono elaborati con il senno di poi «sicché la valutazione operata ha tenuto conto non soltanto della staticità del confronto tra un dato rigido e un dato risultante dalla contabilità, ma anche dell’evoluzione dei rapporti economici che ha portato al c.d. risultato di impresa ovvero al momento conclusivo dell’esercizio del potere gestionale».
La prospettiva, ex post, tuttavia, non può trovare ingresso perché – si legge ancora nella motivazione – l’esito dell’operazione creditizia non può costituire il discrimen tra il lecito e l’illecito: «l’eventualità di sottoporre la valutazione sull’esistenza di un illecito penale ad un giudizio postumo, effettuato su di un’operazione imprenditoriale, è da respingere. La gestione di un ‘attività di un imprenditore, quale è quella di credito ordinario, comporta, inevitabilmente l’assunzione dei rischi; la responsabilità penale dell’operatore deve prescindere dall’esito delle operazione, cioè dal verificarsi in concreto di tale rischio».


Breve: rilevano solo i giudizi ex ante, purché siano il frutto di regole che permettano una valutazione univoca e non burocratica della realtà.


Per introdurre l’esame critico di quest’ultimo enunciato torna utile, ancora una volta, la distinzione tra «falsità delle valutazioni» e «falsità nelle valutazioni» da un lato, irregolarità e decettività del falso dall’altro (9). Giova chiarire subito, infatti, che la contestazione oggetto del giudizio conclusosi con la sentenza annotata riguarda la prima ipotesi. Agli esponenti della banca non si imputava di avere falsamente omesso di segnalare alcuni crediti. Non erano in discussione quindi «falsità nelle valutazioni», ma «falsità delle valutazioni». Leggendo tra le pieghe della motivazione s’intende poi che nella dialettica tra le parti, l’accusa ha fatto propria la posizione della Banca d’Italia secondo cui i crediti più importanti della banca erano da iscrivere tra le sofferenze perché i debitori erano di fatto insolventi, mentre la difesa ha sostenuto che le opzioni relative alla valutazione/classificazione dei crediti corrispondevano ad una precisa scelta di politica imprenditoriale tesa a garantire la sopravvivenza delle imprese più indebitate al duplice scopo di testarne le chance di ripresa e assicurare in ogni caso il consolidamento delle ipoteche; scelte – a quanto pare – debitamente illustrate nella nota integrativa.


Alla luce di questa indicazione, tutto a voler concedere in ordine alla pretesa «falsità delle valutazioni», se anche la non iscrizione dei crediti tra le sofferenze costituisse una violazione delle istruzioni di vigilanza, per la sussistenza del reato previsto dall’art. 2638, comma 1, c.c. occorreva che l’irregolarità stessa non fosse agevolmente percepibile, che fosse idonea ad ingenerare in capo all’autorità di vigilanza una falsa rappresentazione della realtà e che l’errore potesse deviare l’esercizio delle funzioni ispettive. Solo in presenza di queste requisiti – giova ribadire – è possibile marcare la distinzione tra «illiceità civile ed illiceità penale» (10). Idoneità e rilevanza, pertanto, sono le condizioni che impediscono una «diretta e globale trasposizione sul piano penalistico della disciplina della informazione societaria destinata all’organo di controllo» (11). Una prospettiva esiziale per il diritto penale, se vale l’osservazione che lo scopo di rendere credibile il riferimento all’extrema ratio verrebbe del tutto frustrato ove l’ambito dell’intervento penalistico fosse esteso indiscriminatamente ai sottosistemi di regole extrapenali, surrettiziamente nobilitate al rango di beni giuridici; una prospettiva da respingere senza esitazione, insieme con la giurisprudenza che ha ravvisato gli estremi del delitto di false comunicazioni alle autorità di vigilanza «nel fatto di esponenti bancari i quali, nelle segnalazioni periodiche dovute per legge alla Banca d’Italia e nei bilanci d’esercizio, diano scientemente a talune posizioni creditorie anomale una qualificazione diversa da quella prescritta» (12).


Resta da accertare, anche a prescindere dal caso in esame, se le regole che disciplinano la valutazione dei crediti abbiano le caratteristiche in base alle quali, nell’interpretazione esplicitamente forzata proposta nel paragrafo precedente, una valutazione può assumere rilevanza penale. La risposta è positiva per le determinazioni relative alla qualità/classificazione del credito che si basano su dati/informazioni interni, come ritardi nei pagamenti in conto capitale e interesse, ovvero esterni, come bilanci pubblicati, declassamento del merito di credito da parte di agenzie di rating e perdite di valore delle garanzie reali e personali; è negativa per ciò che concerne le stime del credito effettuate sulla base di elementi prevalentemente prognostici, come le stime dei futuri flussi di cassa; torna ad essere positiva se il riferimento è il valore equo (fair value) delle garanzie reali o il prezzo di mercato osservabile del credito stesso; mentre è negativa per la determinazione di valore della massa dei crediti al consumo. Prima di concludere, è utile precisare, che la valenza della regola violata non deve essere sopravvalutata; o meglio deve essere correttamente correlata ai già precisati requisiti di idoneità e rilevanza del mendacio. Il giudizio di tipicità/falsità di un dato esposto in modo scorretto dipenderà dalla sua incidenza nel contesto della complessivo comunicazione. Massimo rilievo assume in questa prospettiva la nota integrativa. 


Prof. Avv. Giuseppe LOSAPPIO
Professore associato di diritto penale – Università di Bari


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Note.



(*) Il testo che segue è una sintesi di una più estesa e articolata riflessione (Falsità delle valutazioni e tutela penale delle funzioni di vigilanza) in corso di pubblicazione. Sia, altresì, consentito rinviare ai miei precedenti interventi, nei quali ha più ampiamente trattato l’argomento della nota: Irregolarità e frode nel falso in bilancio, in Il Foro di Trani, n. 14/2000, pp. 19-29; Art. 134, in Commentario del Testo unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli, G. Contento, A Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro, Bologna, Zanichelli, 2003, pp. 2272-2310; Papè Satàn, papè Satàn aleppe !» La formula «Fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni» nella riforma dei reati societari, in Cass. pen., 4/2003 pp. 1425-1431; Risparmio, funzioni di vigilanza e diritto penale. Lineamenti di un sottosistema, Bari, Cacucci, 2004, pp. 171-178.  






  1. V. Sul punto, da ultimo, la breve ma efficace ricostruzione di DENORA (Falsità documentali e valutazioni, in Giur. mer., 2005, pp. 1475 e ss.) scandisce l’esame dell’argomento distinguendo falsità delle valutazioni (tesi), falsità nelle valutazioni (antitesi), falsità e valutazioni (sintesi). La locuzione «falsità delle valutazioni» esprime – secondo l’A. – «una relazione tra falsità e valutazioni tale per cui, configurando il costrutto logico-grammaticale una relazione di specificazione, il determinatore (le valutazioni)» si «connota in modo peculiare il determinato (la falsità), individuando un’ipotesi caratteristica di falsità»; la locuzione «falsità nelle valutazioni» allude invece alla circostanza che «le valutazioni possono “ospitare” delle falsità» materiali; la locuzione «falsità e valutazioni» cifra la conclusione, circoscritta al confronto tra gli artt. 476-479 c.p., secondo cui possono assumere rilevanza penale l’esposizione in forma valutativa di fatti falsi ovvero gli enunciati valutativi che integrano gli estremi di una falsità materiale. Esulano dalla previsione dell’art. 479 c.p., invece, le valutazioni false – di cui l’A. sottolinea la struttura nomologica, l’indispensabile riferimento ad un parametro di valutazione – posto che le valutazioni non possono essere oggetto di attestazione.


  2. Negli artt. 2621-2622 c.c., oltre alla locuzione in esame figura, all’ultimo comma, la previsione di una soglia di punibilità della valutazioni estimative. Simile disposizione non compare nell’art. 2638 c.c. dove troviamo soltanto la formula «fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni». Gli artt. 2623-2624 c.c. («Falso in prospetto» e «Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione») parlano soltanto di «false informazioni» idonee ad indurre in errore i relativi destinatari. Nell’art. 2629 c.c. («Formazione fittizia del capitale»), pur mancando riferimenti espliciti all’informazione infedele, la «sopravvalutazione rilevante dei beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società» è, a pieno titolo, ascrivibile al tema in esame. Nemmeno in questa disposizione, come negli artt. 2623-2624 c.c., v’è cenno alla soglia delle valutazioni estimative.
    Non meno di questi dati normativi, le corrispondenti indicazioni contenute nei lavori preparatori sono gravemente contraddittorie. Con specifico riferimento all’art. 2638 c.c., nel parere espresso dalla Commissione giustizia della Camera al Governo sulla bozza del decreto legislativo si legge che l’incidentale «ancorché oggetto di valutazioni» – incidentale assente nel testo dello schema presentato al Parlamento –  viene introdotta nel testo dell’articolo con lo scopo di consentire «la valutazione dei rischi insiti, ad esempio, nell’attività bancaria di intermediazione», valutazione – si precisa – «di fondamentale importanza per la conoscenza della situazione economica e patrimoniale degli intermediari». Un inserimento dell’ultima ora, dunque, motivato in termini pressoché opposti rispetto a quelli illustrati con riferimento all’introduzione della medesima formula nel testo degli artt. 2621-2622 c.c., dove la locuzione «fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni» era stata giustificata con l’esigenza di circoscrivere il fatto tipico alle «valutazioni fraudolente» di un fatto materiale falso.






  3. Nel diritto degli intermediari finanziari questa accezione sembra trovare riscontro nella prescrizione dell’art. 21, comma 1, lett. b) Tumf, dove si legge che i clienti devono essere sempre adeguatamente informati.
    Nell’ambito della dottrina penalistica il tema è stato colto in particolare da ALESSANDRI (Offerta di investimenti finanziari e tutela penale del risparmiatore, in Mercato finanziario e disciplina penale, Atti del Convegno di Courmayeur, 12-15 dicembre 1992, a cura del Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, Milano, 1993, p. 206) il quale ha incisamente denunciato il rischio che «aumentando a dismisura la quantità dell’informazione» possa innescarsi l’«effetto perverso» per cui «da un lato l’eccessiva quantità di informazioni finisce per schermare il messaggio, dall’altro si impedisce che su alcune informazioni essenziali si possano esercitare le capacità valutative del risparmiatore».
    In ogni caso complessa e sfaccettata, la nozione di material fact è – soprattutto nell’esperienza nordamericana – sospesa tra ricostruzioni ex ante (l’informazione con la quale/senza la quale il cliente effettuerebbe/non effettuerebbe l’investimento) ovvero ex post (l’informazione con la quale/senza la quale il cliente avrebbe/non avrebbe concluso l’operazione). Amplius, la brillante indagine di SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari. Disciplina e forme di tutela, Milano, 2004, pp. 197-199.