SEMINARIO SULLA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
INTRODOTTA CON LEGGE 14 MAGGIO 2005, N. 80
TRANI, 8 LUGLIO 2005


LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA CIVILE:
I PROCEDIMENTI DI ISTRUZIONE PREVENTIVA
ED IL PROCEDIMENTO POSSESSORIO.

(Legge 14 maggio 2005, n. 80).
NICOLA VENTURA



SOMMARIO



  1. Il quadro normativo delle modifiche al codice di rito approvate e in corso di approvazione.

  2. Le modifiche ai procedimenti di istruzione preventiva.


    1. Segue: L’accertamento e l’ispezione sulla persona.

    2. Segue: L’estensione dell’accertamento tecnico preventivo anche alla valutazione

  3. Le modifiche al procedimento possessorio.


    1. Segue: Il procedimento possessorio dall’Unità d’Italia ad oggi.

    2. Segue: La soluzione introdotta dal legislatore del 2005

  4. Le discipline transitorie.


1. – Il quadro normativo delle modifiche al codice di rito. 
 Come noto il legislatore, con la l. 14 maggio 2005, n. 80, che ha convertito il d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (c.d. decreto competitività), ha introdotto una serie di importanti modifiche al codice di procedura civile. Si tratta di una riforma importante e imponente che arriva a dieci anni dall’entrata in vigore della precedente novella del processo civile realizzata dalla l. n. 353 del 1990 e dai successivi decreti legge del ’95. Si tratta di una riforma poderosa perché ritocca capillarmente l’intero tessuto normativo del codice di rito.
La l. n. 80 del 2005 contiene, infatti, delle disposizioni entrate immediatamente in vigore, a norma dell’art. 16 della stessa legge, e che sono quelle che modificano gli artt. 133 (prevedendo che il biglietto di cancelleria che da avviso alle parti del deposito della sentenza e che contiene il dispositivo, possa essere comunicato dal cancelliere anche a mezzo telefax o a mezzo posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi; a tal fine i difensori sono quindi invitati a indicare nel primo scritto difensivo il numero di fax o l’indirizzo di posta elettronica presso cui dichiarano di voler ricevere l’avviso), 134 e 176 (di analogo contenuto in relazione alle comunicazioni delle ordinanze e, in generale, dei provvedimenti pronunciati fuori udienza), e l’art. 250 (prevedendo che l’intimazione al testimone ammesso su richiesta delle parti private a comparire in udienza possa essere effettuata dal difensore attraverso l’invio di copia dell’atto mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo di telefax o posta elettronica nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi; in tal caso il difensore che ha spedito l’atto da notificare con lettera raccomandata, deve depositare nella cancelleria del giudice copia dell’atto inviato, attestandone la conformità all’originale, e l’avviso di ricevimento).
La l. n. 80 del 2005 contiene poi altre disposizioni che modificano il codice di procedura civile e che, a norma dell’art. 2, comma 3-quater, della stessa legge, dovrebbero entrare in vigore centoventi giorni dopo la data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, e dunque il 12 settembre 2005. Il condizionale in questo caso è però d’obbligo poiché con due successivi interventi normativi stanno per essere approvate  due, differenti, discipline transitorie; sul punto ci soffermeremo in seguito (v. infra § 4). Queste modifiche al codice di rito riguardano: a) la disciplina delle comunicazioni e delle notificazioni; b) la fase introduttiva e di trattazione del processo ordinario di cognizione; c) il processo esecutivo [ed in particolare, il titolo esecutivo, la conversione del pignoramento, l’intervento dei creditori, la vendita mobiliare, la vendita immobiliare, la delega ai notai (estesa anche agli avvocati ai dottori commercialisti ed agli esperti contabili), l’esecuzione per rilascio, l’opposizione all’esecuzione, la sospensione dell’esecuzione]; d) il procedimento cautelare uniforme; e) l’istruzione preventiva; f) il procedimento possessorio; g) il procedimento di separazione personale dei coniugi. Sono dunque assai poche le parti del codice di rito che non vengono toccate dalla riforma.
Infine, la l. n. 80 del 2005 delega il Governo ad adottare, entro sei mesi, un decreto legislativo volto a modificare il codice di procedura civile con l’obiettivo di disciplinare il processo di cassazione in funzione nomofilattica e di razionalizzare la disciplina dell’arbitrato.
In ordine al metodo seguito dal legislatore per introdurre tale riforma sono state mosse da più parti accese critiche. In particolare si è aspramente criticata la scelta di introdurre tali modifiche in sede di conversione di un decreto legge (quello sulla competitività appunto) attraverso un maxi-emendamento che ha stravolto l’oggetto del decreto stesso. Inoltre la scelta del Governo di porre la fiducia sull’approvazione della conversione ha reso il testo della legge di conversione blindato, comprimendo il dibattito parlamentare, e di fatto escludendo anche ogni confronto con le associazioni degli operatori della giustizia. In questo modo è stato inoltre impedito al CSM di esprimere, attraverso il proprio parere, la dovuta valutazione sui riflessi organizzativi delle nuove norme
(1). In merito al singolare modo di procedere del legislatore si è parlato di vandalismo istituzionale (2). Intendiamoci, è facile comprendere [anche senza condividerlo] l’atteggiamento che ha spinto il legislatore, il quale trovandosi quasi al termine della XIV legislatura, durante la quale i tempi dell’attività della Commissione Giustizia sono stati scanditi soprattutto dalle iniziative del Governo in tema di giustizia penale (iniziative peraltro spesso coincidenti con le disavventure giudiziarie di esponenti del Governo e della Maggioranza), ha, con uno scatto di orgoglio, “approfittato” dell’occasione rappresentata dalla conversione del decreto competitività, per tirare fuori dai cassetti quelle riforme della giustizia civile che, provenendo in alcuni casi addirittura da precedenti legislature, erano poi confluite in un testo unificato approvato dalla Camera e affossato al Senato (3).
Tuttavia, al di là del giudizio sul metodo seguito dal legislatore, il giudizio sul merito dell’intervento legislativo non può che essere, nel suo complesso, positivo. Infatti, la riforma – che non è esente da qualche refuso, da qualche imprecisione linguistica e da qualche sfasatura tecnica su cui si potrà sempre intervenire in seguito –  codifica alcune prassi virtuose giovandosi delle esperienze maturate nei diversi uffici giudiziari (soprattutto con riferimento al processo di esecuzione), introduce delle soluzioni che sono state prospettate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in questi anni di applicazione della novella del ‘90-’95, o ancora introduce degli istituti nuovi  sicuramente idonei ad incidere sulla celerità e sulla efficienza del sistema giustizia (si pensi ad es. alla consulenza tecnica preventiva, valutativa e conciliativa).  
Il legislatore, però, intimorito dalle tante (forse troppe) critiche ricevute, sembra essersi pentito subito del suo scatto di orgoglio, e ha pensato di approvare altrettanto “frettolosamente” le “modifiche alle modifiche” del codice di procedura civile. Infatti il 29 giugno scorso, la Commissione Giustizia del Senato, in sede deliberante, ha approvato all’unanimità di disegno di legge di correzione della l. n. 80 del 2005. Si tratta del d.d.l. n. 3439-S che dopo l’approvazione del Senato deve essere approvato dalla Camera: tuttavia, è ragionevole ritenere che tale approvazione sarà altrettanto celere posto che le norme sono state votate all’unanimità e che la Commissione Giustizia della Camera non ha fatto pervenire osservazioni a quella del Senato.
Gli interventi correttivi approvati la scorsa settimana riguardano principalmente il processo esecutivo e tengono conto delle critiche e delle osservazioni che sono piovute da più parti subito dopo l’approvazione della l. n. 80 del 2005 (4). Ma le “modifiche delle modifiche” non tralasciano neppure il processo di cognizione, la materia delle notificazioni e comunicazioni, le ordinanze anticipatorie di condanna (5).


2. – Le modifiche ai procedimenti di istruzione preventiva.
Venendo all’oggetto della presente relazione, la l. n. 80 del 2005 ha modificato la disciplina dei procedimenti di istruzione preventiva: a) codificando la possibilità di esperire accertamenti e ispezioni sulla persona, b) estendendo l’oggetto dell’accertamento tecnico preventivo anche alle valutazioni in ordine alle cause ed ai danni, c) ed introducendo il nuovo istituto della consulenza tecnica preventiva in funzione conciliativa.

2.1. – L’accertamento e l’ispezione sulla persona.
Il legislatore ha integrato il primo comma dell’art. 696 c.p.c. introducendo un secondo periodo a norma del quale « l’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale, se ne ricorre l’urgenza, possono essere disposti anche sulla persona dell’istante e, se questa vi consente, sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta ».
L’estensione dell’applicabilità dell’accertamento tecnico preventivo alla persona umana è stato oggetto di discussione in dottrina e in giurisprudenza, soprattutto costituzionale.
In particolare, in un primo momento, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 18 del 1986
(6), escluse la questione di legittimità costituzionale dell’art. 696, 1° comma, c. p. c. – in riferimento agli art. 3 e 24, 1° e 2° comma, cost. – nella parte in cui, limitando l’ammissibilità dell’accertamento tecnico preventivo alla verifica dello stato dei luoghi e della qualità o condizione di cose, escludeva l’ammissibilità dello stesso mezzo istruttorio per la verifica dello stato o della condizione o della qualità della persona umana. La Corte, in linea con la giurisprudenza di legittimità all’epoca dominante, muoveva dall’assunto che la persona umana non potesse formare oggetto di procedimenti cautelari.
Tale orientamento è stato successivamente abbandonato. Infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 471 del 1990 (7), ha  dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 696, 1° comma, c. p. c., nella parte in cui non consente di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell’istante. La Consulta ritenne che il persistere di una simile limitazione avrebbe comportato una illegittima compressione del diritto di difesa e che, al contrario, l’estensione alla persona dell’istante non poteva rappresentare una lesione all’inviolabilità della libertà personale, posto che presupponeva comunque che l’accertamento fosse stato richiesto volontariamente da chi vi doveva sottoporsi. Successivamente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 257 del 1996 (8), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con l’art. 24 cost. – della stessa norma nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale anche sulla persona nei cui confronti l’istanza è  proposta, dopo però averne acquisito il consenso. Iin questo caso la Corte affermò che oltre ad essere necessaria la libera manifestazione di volontà della parte che consente di sottoporre il proprio corpo ad accertamento od ispezione è, altresì, necessario che il contenuto dell’attività posta in essere sia oggettivamente rispettoso della dignità e dell’inviolabilità della persona umana.
Il legislatore si è dunque inserito nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale, codificando appunto l’interpretazione già affermata come costituzionalmente legittima, la quale prevede che l’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale posano essere disposti sulla persona dell’istante, nonché sul contro-interessato, a patto però che quest’ultimo vi consenta. Ciò significa che depositato il ricorso volto ad ottenere l’accertamento o l’ispezione sulla persona di un contro-interessato, il giudice deve necessariamente convocare tale contro-interessato per acquisirne il consenso. Dunque, non potrebbe mai disporre l’accertamento con decreto reso inaudita altera parte.
La soluzione codificata dal legislatore del 2005 ci porte a rinnovare quelle accuse di eccessiva timidezza che una parte della dottrina rivolse alla sentenza costituzionale n. 257 del 1996. Rilevò, infatti LUISO, che la precisazione contenuta nella pronuncia per la quale dall’eventuale rifiuto all’a.t.p. manifestato dalla controparte sulla propria persona non può essere tratto alcun elemento di valutazione probatoria, data la fase cautelare anticipata in cui avviene, rende privo di rilevanza pratica lo stesso principio enunciato dalla Corte. Infatti, chi è cosciente della circostanza che dall’eventuale accertamento possa subire un pregiudizio si rifiuterà sempre di prestare il proprio consenso, senza che il proprio comportamento possa essere valutato ai sensi dell’art. 118 c.p.c. (vale a dire, come argomento di prova a norma dell’art. 116, 2° comma, c.p.c.).
Si introduce, così, uno squilibrio tra i poteri delle parti, in quanto si finisce per privilegiare in ogni caso l’esaminando, il quale valuterà secondo la propria convenienza, volta a volta, se chiedere l’accertamento sulla propria persona, ovvero se prestare il proprio consenso all’accertamento richiesto dalla controparte.
Tale inconveniente pratico si fonderebbe peraltro su un equivoco di carattere teorico, in quanto la Corte costituzionale di allora, come il legislatore di oggi, sembrano confondere il pericolo di coattività dell’a.t.p. con l’obbligatorietà della relativa prestazione; infatti, mentre non può essere consentito costringere materialmente la parte a sottoporsi ad una determinata prestazione, nulla vieta di prevedere come obbligatorio un certo comportamento e di collegare determinate conseguenze al rifiuto di prestarlo.
Bene avrebbe dunque fatto il legislatore a prevedere, più coraggiosamente, l’obbligo per la controparte di sottoporsi all’accertamento od all’ispezione (ovviamente sempre garantendo la dignità e l’inviolabilità della persona umana), facendo derivare quale conseguenza dell’eventuale rifiuto la possibilità di desumerne argomenti di prova al pari di quanto è già stabilito dall’art. 118, 2° comma, c.p.c. per l’ordine del giudice di ispezione sulla persona, disposto in corso di causa.

2.2. – L’estensione dell’accertamento tecnico preventivo anche alle valutazioni.
La l. n. 80 del 2005 ha inoltre introdotto un secondo comma all’art. 696 c.p.c. a norma del quale « l’accertamento tecnico di cui al primo comma può comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all’oggetto della verifica ».
Il legislatore ha quindi introdotto un nuovo istituto, l’accertamento tecnico preventivo valutativo, questa volta coraggiosamente discostandosi dall’orientamento prevalso invece nella giurisprudenza costituzionale.
La Corte costituzionale, infatti, con le sentenze n. 46 del 1997
(9) e n. 388 del 1999 (10), aveva respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 696, 1° comma, c.p.c. – proposta sotto il profilo della violazione dell’art. 24 cost. e del principio della ragionevole durata del processo – nella parte in cui escludeva la possibilità di accertare la causa e l’entità dei danni, in vista di un giudizio di risarcimento. La Corte restava giustamente ancorata alla funzione tradizionale dell’istruzione preventiva che era appunto quella di raccogliere tutti gli elementi necessari  per garantire il futuro esercizio del diritto alla prova, che sarebbe stato altrimenti definitivamente compromesso.
La giurisprudenza di legittimità aveva, tuttavia, ritenuto che, in tema di risarcimento danni da fatto illecito, fosse consentito al giudice di merito di attingere elementi probatori da un accertamento tecnico preventivo anche per la identificazione delle cause e dell’entità dei danni, previa una rituale acquisizione, agli atti del processo, della consulenza preventiva (11).
L’intervento del legislatore del 2005 è andato ben oltre ed è destinato, a mio avviso, a ridisegnare la funzione stessa dell’istruzione preventiva. Come noto, i procedimenti di istruzione preventiva, pur essendo tradizionalmente collocati nell’ambito della categoria dei procedimenti cautelari, da questi si distinguono per non essere diretti a tutelare un diritto di natura sostanziale, bensì un diritto di natura processuale, quale è il diritto alla prova. L’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale preventiva hanno, fino ad oggi, avuto lo scopo di impedire, nel necessario contraddittorio con il contro-interessato, il venir meno dell’oggetto della prova rilevante nel futuro giudizio di merito. La ratio è evidente se si pensa a situazioni di per sé mutabili e dinamiche, tali da non poter essere più accertate dopo che sia trascorso un periodo più o meno lungo di tempo, quale è quello connesso alla fase istruttoria del processo ordinario di cognizione.
Con le modifiche introdotte dal legislatore del 2005, invece, l’accertamento tecnico preventivo, può avere anche lo scopo di anticipare quelle valutazioni che oggi possono essere acquisite solo all’esito dell’istruzione nel giudizio di merito, rendendo quest’ultimo perfino inutile, o superfluo. In molte controversie, infatti, la possibilità di poter esperire un accertamento tecnico preventivo valutativo – ossia diretto, non più solo a fotografare e descrivere lo stato di luoghi o la qualità o la condizione di cose, ma anche a valutare le cause e i danni relativi all’oggetto della verifica – può essere risolutiva. Si pensi ad una controversia in tema di risarcimento danni, in cui il presunto danneggiante contesti la propria responsabilità e l’entità del risarcimento: una volta che sia stato disposto un accertamento tecnico preventivo che abbia accertato la sua responsabilità e l’entità del risarcimento dovuto, sarebbe per lui temerario e inutilmente oneroso (posto che andrebbe incontro ad una pressoché sicura condanna alle spese) decidere di resistere nel successivo giudizio di merito, invece di ricercare una composizione stragiudiziale. In ogni caso, anche qualora per la irriducibilità della parte risultata “soccombente” nell’accertamento tecnico valutativo, dovesse rendersi necessaria l’instaurazione del successivo giudizio di merito, questo sarà comunque caratterizzato da una fase istruttoria assi più snella e consentirà di pervenire più celermente alla sentenza di merito.
Un ulteriore effetto deflativo del contenzioso civile lo si sarebbe ottenuto qualora il legislatore avesse inserito anche una disciplina delle spese dell’accertamento. Si pensi infatti all’ipotesi in cui l’accertamento tecnico preventivo valutativo venga richiesto dall’istante per ottenere un accertamento negativo della propria responsabilità e, dunque, al fine di prevenire un’azione civile di risarcimento danni nei propri confronti. Anche qualora ottenga tale accertamento negativo della propria responsabilità, l’istante si troverà comunque costretto a proporre il giudizio di merito onde ottenere la condanna della controparte alle spese provvisoriamente sostenute per l’esperimento del mezzo di istruzione preventiva.

2.3. – La consulenza tecnica preventiva in funzione conciliativa.
La l. n. 80 del 2005 attraverso l’inserimento dell’art. 696 bis c.p.c. ha introdotto anche il nuovo istituto della consulenza tecnica preventiva in funzione conciliativa.
A norma del primo comma del nuovo art. 696 bis c.p.c. « l’espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 696, ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito ». Dunque, in questo caso, il mezzo di istruzione preventiva può essere richiesto anche qualora non ricorra il presupposto del periculum in mora. E’ evidente che la finalità perseguita dal legislatore non è più quella cautelare della salvaguardia del futuro esercizio del diritto alla prova; la finalità dichiaratamente perseguita è invece quella di favorire la conciliazione della lite.
Infatti, si legge al successivo periodo della norma che « il giudice procede a norma del terzo comma del medesimo articolo 696 » [peccato che l’art. 696 c.p.c. anche dopo le modifiche introdotte dalla l. n. 80 del 2005 non contempli affatto un terzo comma: si tratta di un evidente refuso] e che « il consulente prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti ».
Un disposizione analoga era prevista solo nell’ipotesi di esame contabile disposto in corso di causa: infatti, a norma dell’art. 198 c.p.c., il giudice può affidare al consulente il compito di tentare la conciliazione delle parti. 
A norma del secondo comma dell’art. 696 bis c.p.c., « se le parti si sono conciliate si forma processo verbale ». Tale processo verbale, a norma del terzo comma, con decreto del giudice può acquistare « efficacia di titolo esecutivo […] ai fini dell’espropriazione e dell’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale ». Il legislatore, favorisce la conciliazione tra le parti prevedendo anche, al quarto comma, che « il processo verbale è esente dall’imposta di registro ».
Se invece, la conciliazione non riesce, a norma del quinto comma, « ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito ».
La norma si chiude prevedendo che alla consulenza tecnica preventiva « si applicano gli articoli da 191 a 197, in quanto compatibili »; si rinvia dunque alla disciplina della consulenza tecnica in corso di causa.
Nel complesso sono da accogliere con estremo favore queste disposizioni in quanto, essendo dirette a favorire la conciliazione nel corso del procedimento di istruzione preventiva, e avvalendosi della capacità persuasiva che il consulente può sicuramente esercitare nei confronti delle parti,  sono idonee a produrre una concreta deflazione del contenzioso civile.


3. – Le modifiche al procedimento possessorio.
Il giudizio non può essere altrettanto benevolo sulle modifiche apportate invece al procedimento possessorio. A mio avviso, il legislatore ha sciupato l’occasione di eliminare quella aberrazione che è il procedimento bifasico secondo il quale, per tutelare in via provvisoria uno stato di fatto quale è il possesso, si deve ricorrere ad un complesso procedimento che si articola in una fase sommaria e ad una fase a cognizione piena ed esauriente (il c.d. merito possessorio), con un grande e inutile spreco di energie processuali. Tutto ciò al solo fine di  assicurare una tutela che è comunque precaria, in quanto la pronunzia resa sul diritto all’esito del giudizio petitorio è destinata ovviamente a prevalere sul provvedimento sanzionatorio dell’aggressione del possesso.
Vediamo come si è pervenuti a questa configurazione del procedimento possessorio.

3.1. – Il procedimento possessorio dall’Unità d’Italia ad oggi.
– Il codice di rito del 1865 non conferiva una particolare struttura al giudizio possessorio (12). Oltre alle norme che ne regolavano i rapporti con il petitorio (artt. 443-445), la disposizione fondamentale era contenuta nell’art. 82, che attribuiva, le azioni possessorie alla « competenza dei pretori, qualunque sia il valore della causa, perché proposte entro l’anno dal fatto che vi diede origine ». Dunque alle azioni possessorie si applicava il rito pretorile, che era costituito da un procedimento a cognizione piena ma ad istruttoria assi semplificata ed ampiamente deformalizzata. La rapidità e la snellezza che caratterizzavano quel rito: a) si confacevano al tipo di controversie devolute al pretore, b) si adattavano al contesto ristretto in cui operava quel giudice, c) agevolavano quel rapporto diretto che in quell’ambiente era solito instaurarsi fra parti e autorità giudicante. In definitiva dall’Unità e per quasi ottant’anni le azioni interdittali hanno seguito le regole del comune processo dinnanzi al pretore: per cui erano assistite dalla cognizione piena (più o meno semplificata), si snodavano lungo un’unica fase, all’esito della quale il giudice rendeva sentenza impugnabile coi rimedi ordinari. Non erano invece previsti provvedimenti anticipatori, né sommari, né interinali, né cautelari (13).
Il legislatore del ’40, invece, probabilmente perché il procedimento pretorile non assicurava più quella celerità che è ritenuta prerogativa insopprimibile della tutela possessoria, assimilò la procedura interdittale a quella nunciatoria, all’evidente scopo di sfruttare la rapidità connessa alla portata tipicamente cautelare di quest’ultima. La procedura nunciatoria prevedeva che sul ricorso della parte il pretore, assunte se del caso sommarie informazioni, potesse concedere con decreto i provvedimenti immeditati. In ogni caso doveva fissare la comparizione dinnanzi a sé e all’esito rendere i provvedimenti necessari, procedendo poi alla trattazione della causa di merito se competente, o fissando termine per la riassunzione dinnanzi al diverso giudice fornito di competenza.
Si affermava così, anche per le azioni di spoglio e di manutenzione, il procedimento bifasico così articolato:
a) si componeva di due fasi: una a cognizione sommaria e l’altra a cognizione piena;
b) l’unico ricorso era idoneo a introdurre sia la prima che la seconda fase;
c) entrambe le fasi appartenevano alla competenza per materia del pretore;
d) nel corso della prima fase il giudice poteva disporre con decreto le misure immediate e, comunque, all’esito del giudizio sommario doveva con ordinanza rendere o negare la misura possessoria (e qualora questa fosse già stata concessa con decreto, doveva revocare, confermare o modificare, lo stesso);
e) in entrambi i casi doveva fissare altra udienza dinnanzi a sé per lo svolgimento della fase a cognizione piena;
f) nel corso della fase a cognizione piena poteva revocare o modificare il provvedimento interdittale;
g) il giudizio del c.d. merito possessorio si concludeva con una sentenza soggetta alle normali impugnazioni;
h) per i fatti sopravvenuti alla pendenza del giudizio petitorio, entrambe le fasi dovevano svolgersi dinanzi al giudice del diritto reale;
i) solo nel caso di spoglio avvenuto in pendenza del giudizio petitorio, il pretore, resi i provvedimenti indispensabili, rimetteva la causa al giudice del petitorio per lo svolgimento della fase a cognizione piena;
j) il divieto per il convenuto di promuovere giudizio petitorio sopravviveva fino al passaggio in giudicato della sentenza che definiva il procedimento possessorio (14).
 Virgilio ANDRIOLI fu il primo a criticare questo schema(15), che aveva invece trovato il pressoché unanime consenso della dottrina e della giurisprudenza. Osservava ANDRIOLI che in realtà non vi era diversità di istruttoria tra fase sommaria e fase di merito: anzi nel corso di quest’ultima i poteri del pretore erano più ridotti, in quanto il giudice non poteva intendere d’ufficio i testi incontrati sui luoghi, come invece gli era consentito nella fase sommaria. Concludeva, perciò, che i procedimenti possessori non dovessero articolarsi in due fasi, ma dovessero al contrario esaurirsi con l’ordinanza che all’esito della cognizione sommaria concedeva o negava la tutela interdittale. La sua voce è rimasta inascoltata.
Successivamente la disciplina è stata ritoccata dal legislatore del ’90, il quale nell’introdurre il procedimento cautelare uniforme, ha abrogato gli artt. 689 (provvedimenti immediati) e 690 (pronuncia sui provvedimenti immediati) c.p.c. in tema di procedimenti nunciatori, e ha dovuto così modificare l’art. 703 c.p.c. che a tali articoli rinviava, inserendo invece il rinvio alla disciplina cautelare uniforme. La modifica è stata dettata dunque da esigenze di puro coordinamento.
Tuttavia, la nuova disciplina prevista dagli artt. 669 bis ss. c.p.c., non era interamente compatibile con l’antica struttura dei procedimenti possessori. In particolare gli artt. 669 septies e 669 octies c.p.c. creavano una inedita cesura tra fase interdittale e processo di merito, in quanto:
– l’art. 669 septies (provvedimento negativo) c.p.c., precludeva la fase a cognizione piena in caso di provvedimento negativo;
– mentre l’art. 669 octies (provvedimento di accoglimento) c.p.c., imponeva in caso di una ordinanza favorevole, l’avvio di un autonomo giudizio di merito.
Tutto ciò ha dato vita, negli scorsi dieci anni, ad un intenso dibattito sulla struttura del procedimento possessorio in cui si sono contrapposte almeno quattro scuole di pensiero (16).
La prima scuola (17) nega che esista più il c.d. merito possessorio e sostiene che la fase sommaria esaurisce senz’altro la tutela interdittale, per cui il giudice, resa l’ordinanza concessiva o negativa della tutela, non deve né disporre la prosecuzione del processo dinnanzi a sé (come prevedeva lo schema bifasico), né fissare il termine per l’avvio di un autonomo giudizio (come prescriverebbe l’art. 669 octies c.p.c. in caso di provvedimento positivo).
La seconda scuola (18) ritiene che i procedimenti possessori sopravvivano alla riforma nella loro tradizionale struttura, per cui concesso o negata la tutela interdittale all’esito della fase sommaria, il giudice dovrà fissare altra udienza dinnanzi a sé per la trattazione della causa a cognizione piena. Non si applicherebbe dunque quanto stabilito  dagli artt. 669 septies e 669 octies c.p.c..
La terza scuola ritiene ineliminabile la fase del merito possessorio, e suggerisce un parziale ritocco della disciplina cautelare uniforme: per cui sia nel caso di provvedimento di rigetto, sia nel caso di ordinanza di accoglimento, il giudice deve fissare termine per l’inizio della fase a cognizione piena, che però dovrà essere introdotta con autonomo atto.
La quarta scuola, infine, propone la massima aderenza alla disciplina cautelare uniforme, per cui subordina il c.d. merito possessorio all’esito della fase sommaria:
a) se il provvedimento viene negato, in ossequio all’art. 669 septies c.p.c., non avrà luogo il giudizio di merito;
b) se, invece, venga concessa la misura possessoria, in ossequio all’art. 669 octies c.p.c., l’ordinanza di accoglimento fisserà il termine per l’avvio del giudizio a cognizione piena.
Di questo acceso e aspro dibattito si è avuto eco nella giurisprudenza di merito e di legittimità, fino alla soluzione finale propugnata dalle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 1984 del 1998 (19), hanno difeso la struttura classica del procedimento possessorio, ossia quella caratterizzata dall’articolazione bifasica.

3.2. – La soluzione introdotta dal legislatore del 2005.
Ricostruito il quadro dell’evoluzione storica che ha subito il procedimento possessorio, possiamo esaminare nel dettaglio la soluzione invece introdotta dal legislatore del 2005.
La l. n. 80 del 2005 corregge il secondo comma dell’art. 703 c.p.c. precisando che « il giudice provvede ai sensi degli articoli 669-bis e seguenti, in quanto compatibili ».
La legge inoltre inserisce ulteriori due commi alla norma. Il nuovo terzo comma della norma dispone che « l’ordinanza che accoglie o respinge la domanda è reclamabile ai sensi dell’articola 669-terdecies ». Viene quindi codificata quella soluzione – già affermatasi in dottrina e giurisprudenza, non senza dubbi e incertezze – che prevede l’estensione del rimedio cautelare anche all’ordinanza che ammette o nega la misura interdittale, all’esito della fase sommaria.
Il nuovo quarto comma della norma prevede invece che « se richiesto da una delle parti, entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrente dalla comunicazione del provvedimento che ha deciso sul reclamo ovvero, in difetto, del provvedimento di cui al terzo comma [ossia dell’ordinanza che accoglie o respinge la domanda, quando avverso ad essa non sia proposto reclamo], il giudice fissa dinanzi a sé l’udienza per la prosecuzione del giudizio di merito ».
Il legislatore dunque prevede che il giudizio per il c.d. merito possessorio debba avere luogo solo su istanza di una delle parti. La norma fa riferimento ad una mera istanza delle parti e possiamo conseguentemente escludere che sia necessario un autonomo atto introduttivo. A sostenere il giudizio di merito sarà dunque idoneo sempre il ricorso introduttivo della fase sommaria, che fisserà il thema decidendum e il thema probandum e che dovrà essere integrato solo da una semplice istanza.
La disciplina suscita tuttavia alcuni immediati dubbi interpretativi.
Non si comprende perché il legislatore abbia qualificato come perentorio il termine entro cui proporre l’istanza. Infatti, qualora il giudizio di merito venisse instaurato a seguito di una istanza proposta oltre il termine di sessanta giorni, trattandosi appunto di termine perentorio, dovrebbe conseguirne l’estinzione del giudizio stesso. Come noto però l’estinzione non estingue il diritto di azione e dunque la domanda di merito, ossia quella cioè per il merito possessorio, potrebbe essere comunque sempre riproposta.   
Domandiamoci invece che cosa succede nel caso in cui tale termine decorra senza che sia stata proposta l’istanza. Innanzitutto possiamo ritenere – in linea con la ratio della norma, nonché non la nuova disciplina del procedimento cautelare uniforme – che l’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria non decada e conservi la propria efficacia. Tale efficacia infatti potrà essere travolta soltanto dalla sentenza pronunciata all’esito del giudizio di merito. Tuttavia, trattandosi di un provvedimento sommario non acquisterà mai la stessa efficacia della sentenza.
La norma poi fa decorrere il termine per la proposizione dell’istanza dalla comunicazione del provvedimento interdittale, ovvero, in caso di reclamo, dalla comunicazione del provvedimento reso in sede di reclamo. Non fa invece riferimento alla notificazione del provvedimento eventualmente effettuata dalla controparte, facendo sorgere nuovi dubbi in ordine al momento in cui matura il termine preclusivo, ove appunto la notificazione sia stata effettuata prima della comunicazione. La soluzione ormai accolta anche dallo stesso legislatore (ad es. nel nuovo art. 669 terdecies c.p.c.) è che la notificazione, anteriore alla comunicazione, sia comunque idonea a produrre la decorrenza del termine decadenziale.
Il legislatore, infine, in tema di rapporti fra giudizio possessorio e giudizio petitorio, modifica il secondo comma dell’art. 704 c.p.c. prevedendo che « la reintegrazione nel possesso può essere tuttavia domandata al giudice competente a norma dell’articolo 703, il quale dà i provvedimenti temporanei indispensabili; ciascuna delle parti può proseguire il giudizio dinanzi al giudice del petitorio, ai sensi dell’articolo 703 ». Anche in questo caso dunque il giudizio del merito possessorio non deve svolgersi necessariamente: saranno le parti a decidere se instaurarlo o se accontentarsi del provvedimento sommario. Se una delle parti deciderà di instaurarlo lo farà dinanzi al giudice del giudizio petitorio.
E’ sicuramente apprezzabile che il legislatore si sia emancipato dalla soluzione bifasica affermata anche dalle Sezioni Unite, rendendo facoltativa la fase possessoria a cognizione piena. Tuttavia è ragionevole ritenere che tale innovazione non produrrà l’effetto sperato, in quanto è assai probabile che la parte che si ritenga insoddisfatta dal provvedimento sommario provvederà sempre a chiedere il giudizio di merito.
E allora non può non giudicarsi come ancora timida la scelta del legislatore che facendo comunque sopravvivere il procedimento bifasico (anche se adesso la fase del merito possessorio viene ad essere subordinata all’istanza di una delle parti), persevera nell’errore di consentire un enorme spreco di energie processuali per assicurare una tutela, peraltro precaria, ad uno stato di fatto quale è il possesso (v. supra § 3).  


4. – Le discipline transitorie.
Concludo con un rapidissimo sguardo alla disciplina transitoria dettata per regolare l’entrata in vigore della nuova disciplina.
Il legislatore del 2005, nel varare questa imponente riforma del codice di rito, si è inizialmente “dimenticato” di dettare anche una disciplina transitoria buttando da subito gli interpreti e gli operatori nello sconforto.
In assenza, infatti, di una specifica disciplina transitoria, come noto, l’introduzione di nuove norme processuali è soggetta al principio tempus regit actum. Tuttavia, questa soluzione, è fonte di innumerevoli dubbi interpretativi. Alcuni giudici del Tribunale di Bari, alla prima udienza hanno iniziato a disporre un mero rinvio a settembre, in modo da poter applicare alla successiva udienza direttamente la disciplina dettata dal riformato art. 183 c.p.c. Tuttavia occorre tenere conto che la nuova disciplina del processo di cognizione regola diversamente il contenuto della comparsa di risposta prevedendo che questa debba contenere a pena di decadenza anche « le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio ». Pertanto non si potrebbe fare applicazione del nuovo art. 183 c.p.c., ove prima non si consentisse al convenuto di integrare le proprie difese proponendo le eccezioni in senso stretto secondo quanto previsto dal vecchio artt. 180 c.p.c.
Il legislatore si è subito pentito di tale “dimenticanza” ed ha provveduto ad introdurre una disciplina transitoria con il d.d.l. n. 3439-S, approvato dalla Commissione Giustizia del Senato in sede deliberante, ed attualmente in attesa di approvazione alla Camera (quello che introduce le “modifiche delle modifiche”).
Secondo tale disciplina transitoria:
a) le disposizioni inerenti il processo di cognizione entrano in vigore centottanta giorni (non più centoventi) dopo la data di pubblicazione della legge di conversione del decreto nella Gazzetta Ufficiale (ovvero l’11 novembre) e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data di entrata in vigore (non si applicherebbero quindi ai processi già pendenti a tale data);
b) le disposizioni inerenti il processo esecutivo entrano in vigore centottanta giorni dopo la data di pubblicazione della legge di conversione del decreto nella Gazzetta Ufficiale (sempre l’11 novembre) e si applicano anche alle procedure esecutive pendenti a tale data;
c) tuttavia, se nella procedura esecutiva è già stata ordinata la vendita, la stessa ha luogo con l’osservanza delle norme precedentemente in vigore;
d) l’intervento dei creditori non muniti di titolo esecutivo conserva efficacia se avvenuto prima della data di entrata in vigore delle modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione.
Tutto bene se non fosse che, nel frattempo, anche il Governo ha pensato di introdurre una disciplina transitoria. Lo ha fatto con il decreto legge 30 giugno 2005, n. 115 (disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), ossia il c.d. decreto mille proroghe, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 151 dell’1.07.2005.
Secondo tal disciplina transitoria le modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione [nonché all’art. 4 della l. n. 898 del 1990 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio)] hanno effetto a decorrere dal 15 novembre 2005. Tali disposizioni, ad eccezione di quelle inerenti il processo esecutivo, non si applicano ai giudizi civili pendenti alla data del 15 novembre 2005.
Inoltre, sembra che i Consigli degli Ordini territoriali stiano esercitando una forte pressione per ottenere un rinvio anche più lungo. In considerazione della  ormai prossima scadenza della legislatura, ciò potrebbe tradursi nell’ennesimo affossamento  della riforma.
Questa sarebbe una vera e propria iattura perché – al di là delle fondate obiezioni circa il metodo adottato dal legislatore per il varo della riforma, nonché sulla esistenza di sfasature tecniche da cui nessuna riforma peraltro è esente – le misure introdotte rispondono all’esigenza di provvedere, a dieci anni dall’ultima riforma, al restyling del nostro codice di rito, e appaiono idonee a garantire una maggiore efficienza del sistema giustizia, pur nella consapevolezza che per ottenere tale risultato le riforme processuali da sole non bastano.
Insomma, fra modifiche, modifiche delle modifiche e discipline transitorie a gogò, si profila un’estate davvero calda per il processo civile.


Avv. Nicola Ventura


Note



  1. Per un esame dettagliato di tali critiche v. C. FUCCI, Un tavolo di confronto sulle deleghe per dare una vera speranza alla Giustizia, in Guida al dir., 2005, fasc. 22, p. 6 ss.

  2. Così G. COSTANTINO, La giustizia civile e biancaneve: secondo episodio, in corso di pubblicazione su Foro it., 2005, V.

  3. Si tratta delle c.d. modifiche urgenti al c.p.c.

  4. Ad es. in relazione alla modifica dell’art. 474 c.p.c. si è chiarito la scrittura privata autenticata non è titolo esecutivo per le azioni di rilascio e consegna ma solo per il pagamento di somme di denaro. Al contempo si è provveduto a modificare anche l’art. 480 c.p.c. (che era rimasto invariato) prevedendo che nell’atto di precetto va trascritto il testo della scrittura privata (al pari delle cambiali).

  5. Ad es. in relazione all’art. 186 quater c.p.c. viene stabilito che, in caso di pronuncia della relativa ordinanza, la sentenza diviene meramente eventuale, dovendo essere pronunciata solo ove la parte interessata alla pronuncia ne faccia richiesta con apposito ricorso (che in questo caso deve essere prima notificato alla controparte e poi depositato in cancelleria); diversamente, decorsi trenta giorni dalla pronuncia dell’ordinanza in udienza o dalla sua comunicazione, questa acquista efficacia di sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. Viene quindi ad essere capovolta la precedente disciplina.

  6. Corte cost. 30 gennaio 1986, n. 18, in Foro it., 1986, I, 1783.

  7. Corte cost. 22 ottobre 1990, n. 471, in Foro it., 1991, I, 14, con nota di ROMBOLI.

  8. Corte cost. 19 luglio 1996, n. 257, in Giust. civ., 1996, I, 2807, con nota di LUISO.

  9. Corte cost. 20 febbraio 1997, n. 46, in Giust. civ., 1997, I, 880.

  10. Corte cost. 22 ottobre 1999, n. 388, in Foro it., 2000, I, 1071, con nota di PAGNI.

  11. Cfr. Cass. n. 849 del 1975.

  12. Sulla riforma del procedimento possessorio dall’Unità d’Italia ad oggi, vedi G. DELLA PIETRA, Il procedimento possessorio. Contributo allo studio della tutela del possesso, Torino, 2003, p. 85 ss.

  13. Così G. DELLA PIETRA, op. cit.

  14. Ibidem, p. …

  15. Cfr. V. ANDRIOLI, Commento al c.p.c., IV, Napoli, 1964, sub art. 703, p. 278 ss.

  16. G. DELLA PIETRA, op. cit., p. …

  17. Vedi CHIARLONI, Non esiste più (ma non sarebbe dovuto esistere neanche prima) il c.d. merito possessorio, in Giur. it., 1993, I, 2, p. 808, per il quale perfino in passato non aveva ragion d’essere il cd merito posessorio.

  18. Vedi VACCARELLA, Azioni possessorie e nuovo procedimento cautelare, in Giust. civ., 1994, II, p. 221 ss.; ID., Per le Sezioni Unite esiste (ed esisteva anche prima) il c.d. merito possessorio, in Giust. civ., 1998, I, p. 637 ss.

  19. Cass., sez. un., 24 febbraio 1998, n. 1984, in Foro it., 1998, I, 1054; in Giust. civ., 1998, I,631, 2223; in Giur. it., 1998, 1323, con nota di LUISO.