SEMINARIO SULLA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
INTRODOTTA CON LEGGE 14 MAGGIO 2005, N. 80
ANDRIA, 1 LUGLIO 2005


CONCORDATO PREVENTIVO, ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI,
PIANI DI RISANAMENTO DELL’IMPRESA; NELLA RIFORMA DELLE PROCEDURE CONCORSUALI.
PRIME RIFLESSIONI
PROF. GIANVITO GIANNELLI


1. Le normali difficoltà che deve affrontare l’interprete nell’esaminare una riforma legislativa sono acuite dalla particolare tecnica normativa adottata dal legislatore del d. lgs. n. 35 del 2005, convertito con legge n. 80 del 2005, sotto due aspetti: in quanto l’intervento del riformatore adotta il metodo della novella cosicché il nuovo vino va versato negli otri vecchi per usare una felice immagine di Sabino Fortunato; ed in quanto l’intervento del legislatore andrebbe coordinato, quantomeno per un’esigenza di coerenza sistematica, con i principi espressi dalla legge delega, o, se si preferisce con le indicazioni dettate al futuro legislatore delegato; cosicché vi è una preoccupazione – che penso accomuni lo studioso come l’operatore professionale – per la capacità di tenuta del sistema che riguarda non solo la coerenza tra vecchia e nuova disciplina del concordato preventivo; ma anche la coerenza delle modifiche immediatamente operative rispetto alla disciplina complessiva di prossima emanazione.
Una seconda considerazione preliminare riguarda la molteplicità di piani di risanamento previsti dalla novella. Oltre al concordato preventivo, abbiamo gli accordi di risanamento ex art. 182-bis e gli accordi tesi al riequilibrio della situazione finanziaria ed al risanamento delle esposizioni  dell’impresa ex art. 67, comma 3, lett. d il che impone all’interprete la ricerca, ove fruttuosa, di un profilo unitario i tre strumenti di intervento.
Direi che un primo elemento di novità riguarda già il presupposto oggettivo identificato con la crisi, che così fa il suo esordio in una normativa a carattere generale, e non più con l’insolvenza; cosicché è legittimo l’interrogativo se si tratti di un presupposto diverso e, in  quest’ultimo caso se comprenda o meno, in un rapporto tra genus e species, anche l’insolvenza dell’imprenditore.
Ricordiamo, allora, che la procedura di composizione concordata della crisi, come regolata dal progetto unificato della commissione ministeriale ristretta Trevisanato, prevedeva come presupposto oggettivo l’essere in una delle condizioni previste dall’art. 1.2 lett. h) i)  e cioè da un lato lo stato di insolvenza e cioè la situazione in cui l’imprenditore non è più in grado di soddisfare le proprie ragioni dall’altro lo stato di crisi, inteso come la situazione patrimoniale economica e finanziaria in cui si trova l’impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza.
Ciò significa che lo stato di crisi è, in un certo senso, prodromico a quello di insolvenza e, ancora che la procedura riveste una funzione di composizione preventiva della crisi e non soltanto una funzione meramente liquidatoria dell’impresa decotta. Se questo assunto è condivisibile, allora ne deriva che lo stato di crisi (non  definito dal legislatore della novella, a differenza dei progetti di riforma) è diverso dall’insolvenza, sia sul piano della reversibilità della insolvenza, sia nel senso che riguarda fattispecie meno gravi di difficoltà e, quindi può comprendere quelle ipotesi di compromissione della continuità aziendale (concetto mutuato dal diritto francese)  che non si traducano ancora un insolvenza.
La soluzione mi sembra confortata dall’emergere, sia pure in maniera cauta,  del requisito dell’equilibrio della situazione finanziaria come obiettivo da raggiungere per i piani i cui atti di esecuzione (atti, pagamenti e garanzie) sono esonerati dall’assoggettamento della disciplina della revocatoria (art. 67, comma 3, lett. d nel testo riformato); e, ancora, dalla condizione di eccessivo squilibrio tra indebitamento e risorse proprie della società come presupposto in presenza del quale i finanziamenti erogati in qualsiasi forma dai soci alla società a responsabilità limitata sono assoggettati, in quanto effettuati causa societatis, al regime di postergazione previsto dall’art. 2467 cod. civ.
Peraltro, il presupposto oggettivo così delineato, comune, come ho anticipato, alle tre ipotesi di piano di risanamento e ristrutturazione dei debiti previste dalla novella, non è meramente diverso dallo stato di insolvenza, il che porterebbe ad una ingiustificata esclusione dall’ambito della procedura degli imprenditori che versino già in condizione di insolvenza, così precludendo a costoro la possibilità di una soluzione negoziata della crisi,  ma lo ricomprende, in un rapporto di genus a species.
La non completa sovrapponibilità del presupposto oggettivo del fallimento e del concordato preventivo giustifica e trova conforto nella disposizione dell’art. 67 comma 3, lett. e che dichiara non soggetti all’azione revocatoria gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata (destinata ad una limitata sopravvivenza in quanto di prossima abrogazione da parte del legislatore delegato) nonché dell’accordo omologato ai sensi dell’art. 182-bis; nonché, ancora, dall’art. 67, comma 3 lett. g che dichiara non revocabili i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso  alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo; la non assoggettabilità a revocatoria degli atti esecutivi  e prodromici del piano, indubbiamente risolve il problema, a lungo dibattuto, circa l’assoggettabilità a revocatoria degli atti posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, problema che veniva risolto in base all’assunto della consecuzione delle due procedure, basate sullo stesso presupposto oggettivo e cioè lo stato di insolvenza;  dall’altro si giustifica in quanto il presupposto oggettivo può essere diverso (e così si tratta di norma che attiene alla delimitazione della fattispecie) per un verso; per altro verso, in quanto norma di esenzione di una disciplina che sarebbe comunque applicabile, laddove l’imprenditore versi in stato di insolvenza già al momento della presentazione della domanda di accesso alla procedura.
Un’ulteriore conseguenza è che la non omogeneità, bensì la solo parziale sovrapponibilità tra le nozioni di crisi e di insolvenza induce a ritenere non immediatamente operativo il fallimento che di ufficio consegue al rigetto della proposta  come previsto dall’art. 162  legge fallim. non abrogato e non modificato, il quale non tiene conto che la procedura si può aprire anche sulla base di mera crisi e non di insolvenza; con la conseguenza che in caso di inammissibilità della proposta di concordato il tribunale non dovrebbe dichiarare di ufficio il fallimento ma pronunciare un  semplice decreto di inammissibilità (Ferro) salvo valutare, caso per caso, se via sia o meno insolvenza.


2. Della vecchia disciplina il concordato preventivo conferma l’articolazione in una pluralità di fasi, consistenti in una valutazione di ammissibilità della domanda, nello svolgimento delle procedure di voto e nel giudizio di omologazione.
La domanda per essere ammessi al concordato perde, come condizione soggettiva, il requisito della meritevolezza e come condizione oggettiva il soddisfacimento in percentuale minima dei creditori chirografari e nel totale dei creditori privilegiati.
La domanda deve essere accompagnata da un piano di ristrutturazione o soddisfazione dei crediti corredato di una serie di documenti e cioè: a) un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; c) l’elenco dei titolari di diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore; d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili; il piano deve essere accompagnato dalla relazione di un professionista (abilitato a svolgere le funzioni di curatore ex art. 28 legge fallim.) che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo; cosicché non è azzardato ritenere che il requisito della meritevolezza soggettiva premiante il buon imprenditore (ancorché sfortunato) è sostituito da una valutazione oggettiva della fattibilità del piano, purché siano attendibili (ma in verità la legge richiede qualcosa di più e cioè la veridicità) i dati aziendali sui quali la proposta si basa.
Ciò non significa, si badi bene, che ad un requisito di meritevolezza soggettiva si sostituisce un requisito di meritevolezza oggettivo, il che porterebbe a ritenere che il professionista incaricato debba attestare anche la veridicità dei dati contabili della società e cioè che la l’imprenditore abbia tenuto in ordine la contabilità; la valutazione di veridicità dei dati aziendali è pur sempre in funzione della valutazione di fattibilità del piano il che significa che i dati aziendali di cui il professionista deve attestare la veridicità sono quelli cui si riferiscono le lettere a) b) c)  d) dell’art. 161 e non già i dati emergenti dalle scritture contabili, di cui non si prescrive più il deposito presso il Tribunale e rispetto ai quali possono anche divergere; soluzione che se condivisa, finisce per marcare in maniera ancora più netta – anche sotto il profilo dei valori tutelati – il distacco dalla vecchia procedura di concordato preventivo.
Insomma, se è vero che la nuova disciplina lascia, anche per il concordato preventivo, ampio spazio per soluzioni negoziate della crisi, prima considerata indisponibile dall’imprenditore medesimo e dai creditori, fatta eccezione per la procedura del concordato preventivo, rigidamente giurisdizionalizzato,  è altrettanto vero che esse presuppongono l’assunzione di decisioni consapevoli ed informate; il che non può che portare a chiedersi se il piano oggetto della proposta debba essere interpretato alla stregua di indicazione di un mero intento negoziale o se debba invece contenere una reale tipizzazione delle aspettative di rischio che possono e devono essere valutate ex ante dai creditori (Ferro).


3. La rubrica dell’art. 161 novellato che menziona le condizioni per l’ammissione è fuorviante, perché la norma si limita a contemplare il possibile contenuto della domanda che ha un oggetto minimo quanto generico e cioè la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma; il che risponde ad un mutamento dell’anima del concordato preventivo da procedura fortemente e formalisticamente procedimentalizzata a procedura negoziata aperta a tutte le soluzioni, da quella remissoria a quella meramente dilatoria; il che esclude, poi,  che possa trovare ancora giustificazione l’istituto della amministrazione controllata di cui, infatti, viene prevista l’abrogazione nella legge delega (art. 1, comma 6, lett. b, legge n. 80 del 2005); anzi, sul piano della coerenza legislativa non si può non rilevare che se la nuova procedura di concordato preventivo, già operativa anche per i concordati pendenti, rende inutile il ricorso all’amministrazione controllata, è obiettivamente superfluo che quest’ultima procedura sopravviva fino all’adozione del decreto delegato.
Per il perseguimento di questi obiettivi minimi sono previste diverse modalità di realizzazione del piano che vanno dalla cessione dei beni, all’intervento di un  assuntore. L’intervento dei creditori non si limita alla mera ricezione passiva di una proposta che possono approvare o meno, ma può essere loro riservato un ruolo attivo nella gestione della crisi, che si può attuare un due modi; la partecipazione diretta nella società ammessa alla procedura mediante assegnazione di quote, azioni o strumenti finanziari e cioè mediante assegnazione di titoli di partecipazione o di equity ed ancora, proponendosi come assuntori diretti del concordato o mediante partecipazione ad una società che si propone come assuntore del concordato ed al tempo  stesso cessionario dei beni dell’impresa in crisi: con l’evidente obiettivo di pagare i creditori e gestire le attività della società il cui ricavato sarà destinato al soddisfacimento dei creditori assunti e, per il residuo, agli stessi creditori – a titolo di quota di liquidazione – partecipanti al capitale della società assuntore. Peraltro, non si può nemmeno escludere che la soddisfazione dei creditori avvenga mediante erogazione di nuova finanza da parte degli stessi – e mi riferisco evidentemente al ceto bancario – in cambio della gestione dei beni aziendali attraverso la costituzione di una società cui gli stessi vengono attribuiti, realizzando così il duplice obiettivo della soddisfazione dei creditori e della preservazione dell’organismo produttivo. Né si può fare meno di osservare che le ipotesi delineate, nel caso in cui i creditori assuntori delle attività siano anche pignoratizi o ipotecari, realizzino una consistente (ed ulteriore) deroga al divieto di patto commissorio ex art. 2744, 2a parte (peraltro già derogato dagli artt. 5 e 6 d. lgs. 21 maggio 2004 n. 170 sulla garanzia finanziaria).


4. La domanda può anche avere per oggetto la divisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei (art. 160 lett. c), nonché, ancora, trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse (art. 160 lett. d).
Il concordato è approvato dai creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano presenti diverse classi di creditori, il concordato è approvato se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto nella classe medesima.
Il tribunale, riscontrata in ogni caso la maggioranza dei crediti ammessi al voto, può approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori se la maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti del concordato in misura non inferiore alle alternative concretamente praticabili (c.d. cram down).
 La divisione dei creditori in classi e la previsione di trattamenti differenziati per creditori appartenenti a classi diverse costituisce un tributo alle prassi più avanzate e trova un immediato precedente nell’art. 4-bis legge 18 febbraio 2004 n. 39 ( a sua volta tributario, probabilmente del d.d.legge n. 7497 presentato dal gruppo DS nel 2000).
 La divisione dei creditori in classi e la previsione di trattamenti differenziati per creditori appartenenti a classi diverse sono oggetto di distinta previsione, con la conseguenza che la divisione dei creditori in classi non è di necessità in funzione di un’offerta differenziata per creditori appartenenti a classi diverse ma può rispondere anche  alla più limitata logica (ma non meno importante nell’ottica dell’evidente favor nei confronti dell’impresa) di adoperare il meccanismo del voto per classi ed eventualmente anche la tecnica del cram down. Peraltro, mi sembra che una volta prevista la divisione in classi,  il trattamento differenziato non possa che avere ad oggetto solo creditori appartenenti a classi diverse (Stanghellini), cosicché non sarebbe ammissibile un trattamento differenziato trasversale ai creditori appartenenti alle medesime classi: l’opposta soluzione porterebbe alla conseguenza che i creditori rappresentanti la maggioranza dei crediti in una classe possano condizionare il voto dell’intera classe anche se in questa sono presenti crediti ai quali è riservato un trattamenti diversificato.
Nulla dice, invece,  la norma sui criteri della divisione per classi, le uniche indicazioni riguardanti da un lato la posizione giuridica dall’altro la omogeneità degli interessi economici.
Non mancano i problemi interpretativi: se non pare in discussione che l’omogeneità degli interessi economici vada valutata secondo la qualificazione professionale del creditore (ad esempio, banche, fornitori, dipendenti, creditori istituzionali ecc.) più dubbio è se nella formazione delle classi si debba tenere conto anche delle cause di prelazione. Per esempio, i creditori bancari afferirebbero necessariamente in una classe o potrebbero essere ripartiti su classi diverse secondo la tipologia di credito (ipotecari o chirografari)?
La risposta positiva all’interrogativo e cioè l’obbligo di tenere conto, nella divisione in classi, anche delle diverse cause (o del diverso grado) di prelazione sembra trovare conferma: a) nel riferimento contenuto nell’art. 160 lett. c alla posizione giuridica; b) nella conservazione del divieto di voto per i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca se non rinunciano al diritto di prelazione.
Peraltro, ho l’impressione che se si affermasse il criterio della esistenza di cause di prelazione come possibile criterio di formazione delle classi,  si porrebbe poi il problema dell’attribuzione del voto alla classe non pregiudicata perché portatrice di diritti di credito assistiti da prelazione.
Mi sembra che un possibile criterio interpretativo vada individuato nella possibilità, espressamente contemplata dal legislatore di tenere separate la divisione in classi ed il trattamento differenziato per classe che può ma non deve essere oggetto di una specifica autonoma previsione nella domanda di ammissione a concordato. Cosicché la presenza di cause di prelazione diventi un possibile criterio di formazione della classe ma ciò non comporti necessariamente un sacrificio della classe (il che trova conferma nella mancata attribuzione del diritto di voto).
Peraltro, non escluderei che a ciascuna classe possa essere attribuito un trattamento economico differenziato anche con pregiudizio delle cause di prelazione. La diversa conclusione, che porterebbe ad ingessare l’utilizzo dell’istituto non mi sembra possa essere condivisa atteso che da un lato è abrogato esplicitamente come condizione di ammissione l’obbligo della soddisfazione integrale dei creditori privilegiati o con cause di prelazione; dall’altro trova smentita dall’estrema elasticità che sembra contraddistinguere il contenuto della proposta di ristrutturazione dei debiti e la possibilità di attribuire trattamenti differenziati per classi ed anche in base alle diverse posizioni giuridiche. Cosicché mi sembra che: a) l’esistenza di cause di prelazione possa essere criterio di formazione delle classi; b) ai creditori assistiti da cause di prelazione possa essere attribuito un trattamento che preveda un  sacrificio economico e quindi la perdita del diritto all’integrale soddisfacimento; c) ai creditori privilegiati o assistiti da prelazione sia precluso l’esercizio del voto nella approvazione del concordato ma solo a  condizione che conservino il diritto all’integrale soddisfacimento; viceversa, tali creditori riacquisteranno il diritto di voto nel caso in cui sia loro imposto, nella proposta di concordato, un pregiudizio economico. Mi sembra cioè questa la ratio  presente sia nel modello comparatistico di riferimento (e cioè il Chapter 11 del US Code) ma anche nella legge fallimentare del 1942 e nella novella in commento, in cui la non attribuzione del diritto di voto si giustifica per l’integrale soddisfacimento del credito, ma l’esercizio del voto comporta rinuncia alla garanzia; ed ancora, in maniera ancora più incisiva nell’art. 177 nel testo riformato in cui si prevede espressamente la possibilità di una rinuncia sia parziale che totale alla garanzia (commi 3 e 4) con riacquisizione del diritto di voto. In altre parole, si riscontra una piena coerenza tra la attribuzione di un trattamento differenziato per classi anche in sacrificio delle cause di prelazione da un lato e la rinuncia alla garanzia dall’altro che avviene contestualmente all’approvazione della proposta di concordato, eventualmente anche all’interno della classe di creditori.
5. Uno dei punti oggettivamente poco chiari della nuova disciplina (e probabilmente di quelli destinati a far discutere) è costituito dal ruolo del tribunale sia in fase di prima valutazione della ammissibilità della proposta, sia nella fase successiva di omologazione.
L’art. 163 nel testo novellato prevede che il tribunale verificata la completezza e la regolarità della documentazione, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo.
Il giudizio di ammissibilità sembra, quindi, improntato ad un mero riscontro formale della completezza della documentazione e della sua regolarità e si apre, in caso di proposta con articolazione in  classi di creditori, altresì ad una disamina della loro corretta individuazione da parte del debitore proponente.
In quest’ultimo caso, però, la valutazione non può che essere aperta ad un riscontro sostanziale della correttezza e della coerenza dei criteri adoperati per la formazione delle classi, e, quindi verterà sul riconoscimento delle reali differenze giustificative della divisione per classi; valutazione di carattere sostanziale che, però, non sembra esclusa nemmeno per quanto riguarda il giudizio di ammissibilità della proposta nel suo contenuto; infatti, rimane al momento invariato l’art. 162 legge fallim. che demanda al tribunale la verifica delle condizioni previste dall’art. 160 il che fa pensare che, almeno sotto il profilo della completezza della documentazione, la verifica di ammissibilità non si debba limitare al riscontro formale dell’esistenza della documentazione richiesta ma si estende al contenuto della medesima, almeno sotto il profilo della sua idoneità informativa, così aprendo spazi per ipotesi di controllo più penetrante che finisce però per ridimensionare la portata asseverativa della relazione del professionista qualificato prevista dal penultimo comma dell’art. 161.
Il giudizio di omologazione è caratterizzato da un’accentuazione del ricorso al rito camerale ed alla collegialità della competenza, senza che si apra un vero e proprio giudizio di cognizione (Ferro).
La nuova disciplina nulla dice sulla portata e l’estensione del controllo del tribunale in fase di omologazione, prima previsto in maniera ben incisiva dall’art. 181, legge fallim.
La soluzione restrittiva vorrebbe il controllo del tribunale limitato alla sola presa d’atto del raggiungimento delle maggioranze, come sembra suggerire l’art. 180, comma 4, testo rif.: il tribunale, se la maggioranza di cui al comma 1 dell’art. 177 è raggiunta approva il concordato con decreto motivato. La lettera della norma sembra lasciare spazio a valutazioni di merito del tribunale solo in caso in cui si sia raggiunta la approvazione da parte della maggioranza delle classi ma non da parte di tutte le classi e sempre purché si sia raggiunta la maggioranza in somma di cui al comma 1 dell’art. 177; in questo caso compete la valutazione che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare comunque soddisfatti dal concordato in misura non inferiore alle alternative concretamente praticabili (c.d. cram down). Sembra cioè che il tribunale riacquisti spazi di valutazione della proposta nel merito solo in caso manchi l’approvazione da parte della classe o delle classi pregiudicate, diversamente essendo i creditori i migliori giudici della proposta la cui fattibilità si appaleserebbe ipso facto dalla relazione dell’esperto.
Va detto subito che tale conclusione, pur coerente con il principio ispiratore della riforma della gestione negoziata della crisi non convince appieno.
La soluzione restrittiva era inequivocabile nel progetto unificato della commissione Trevisanato bis che prevedeva che il tribunale omologasse il piano di composizione concordata della crisi con decreto motivato, verificato il raggiungimento della maggioranza e la regolarità formale della procedura, così non lasciando spazio a valutazioni di merito circa la fattibilità del piano (art. 3.3.5). Più ampi spazi per una valutazione di merito sulla fattibilità della proposta da parte del tribunale si aprivano solo se intervenisse opposizione alla omologazione. Inoltre, va detto che anche la fase di opposizione era più analiticamente disciplinata.
Di fronte alla cripticità del dato normativo si pongono una serie di interrogativi.
In realtà a spingere l’interprete verso soluzioni che aprano spazi di sindacato di merito al controllo da parte dell’autorità giudiziaria sono diversi indici normativi: la previsione del parere motivato del commissario giudiziale, che altrimenti diventerebbe del tutto superfluo ove si ritenesse che assumesse valore esaustivo la relazione dell’esperto a norma dell’art. 160 ult. comma; viceversa, se si richiede comunque un parere motivato al commissario giudiziale (parere, già previsto dall’art. 180 comma 3, legge fallim. 1942, che si accompagna alla relazione che lo stesso va a depositare prima dell’adunanza dei creditori ai sensi dell’art. 172, comma 1, legge fallim., non modificato) l’unica giustificazione finisce per essere quello di provocare un controllo del tribunale.
Né la soluzione più favorevole ad un controllo del tribunale sulla fattibilità della proposta deve sembrare in distonia con lo spirito della riforma, al contrario sembra in linea con altre scelte normative che hanno lasciato al tribunale ampia discrezionalità nella gestione di situazioni patologiche (e si pensi alla discussa scelta di rimettere al tribunale la scelta (nell’inerzia degli organi sociali) dell’adozione dei criteri di liquidazione della società di capitali ex art. 2487 comma 2 cod. civ.
Ugualmente criptico è il riferimento all’ampia previsione di attività istruttoria da parte del tribunale, da espletarsi anche di ufficio. Mi sembra che tale attività non si debba limitare all’acquisizione di prove precostituite ma possa spingersi fino all’espletamento di una vera e propria attività istruttoria (che può anche essere delegata ad uno dei componenti del collegio: art. 180 comma 3). La norma si riferisce solo alla fase di eventuale opposizione, come sembra indicare il riferimento al rispetto delle regole del contraddittorio, o anche alla fase di omologazione? In altre parole, il tribunale deve spiegare attività istruttoria di ufficio solo in fase di opposizione o anche nell’ipotesi in cui opposizione non vi sia e (beninteso) siano state raggiunte le maggioranze? La soluzione preferibile sembra quest’ultima e comunque l’intero procedimento sembra caratterizzato, come ho anticipato, da un’accentuazione della cameralità del rito, anche in caso di eventuale opposizioni da parte dei creditori dissenzienti, tecnicamente trasformate dall’art. 180 comma 2 in eccezioni di rito e di merito al giudizio di omologazione. Come che sia, se l’attività istruttoria prevista dall’art. 180 comma 3 riveste carattere di officiosità, pare sempre più difficile circoscrivere il ruolo del tribunale ad un mero controllo di regolarità formale.
 Ancora, il carattere officioso della conduzione dell’istruttoria nella fase di omologazione stride con la rigida procedimentalizzazione che riguarda l’onere per il commissario giudiziale e per il debitore di costituirsi in giudizio almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata (art. 180 comma 2). Ci si può legittimamente chiedere se la costituzione dei protagonisti principali (debitore e commissario giudiziale) sia in funzione della tutela del contraddittorio menzionato dall’art. 180 comma 3, o sia richiesta nella più limitata ipotesi che si vogliano sollevare eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio e indicare nuovi mezzi istruttori e documenti prodotti; quest’ultima sembra per la verità la soluzione preferibile, sembrando incongruo che il commissario giudiziale, al quale comunque si richiede il deposito del parere motivato nello stesso termine previsto per l’eventuale costituzione, non possa essere ascoltato in camera di consiglio. Peraltro, la scomparsa del riferimento (contenuto nel vecchio testo dell’art. 181 legge fallim.) all’accertamento delle condizioni della regolarità della procedura fa pensare che le stesse possano essere oggetto di scrutinio da parte del tribunale solo se la loro mancanza è espressamente fatta valere come eccezione non rilevabile di ufficio da chi, a questo punto, ha l’onere di costituirsi ritualmente.


6. Anche il regime transitorio solleva non pochi problemi. E’ noto che la legge di conversione estende l’applicabilità del concordato riformato alle procedure pendenti e non ancora omologate (art. 2, comma 2-bis, d. legge n. 35 del 2005, conv. dalla legge n. 80 del 2005).
Ciò significa, mi pare, che l’imprenditore istante debba beneficiare della disciplina più favorevole in termini di presupposti soggettivi ed oggettivi (art. 161), di calcolo delle maggioranze (art. 177),  di divisione dei creditori in classi sia per quanto riguarda le operazioni di voto (art. 177), che per quanto riguarda il trattamento economico (art. 160 lett. c e d).
Non mancano, però i dubbi. L’applicazione di alcune delle nuove regole è subordinata ad una domanda il cui contenuto è soltanto eventuale (così per quanto riguarda la strutturazione dei creditori in classi, ma direi anche per l’abbandono della percentuale minima del 40% per i creditori chirografari, pur sempre subordinata ad una proposta articolata presentata secondo le nuove regole e cioè corredata da un piano) in mancanza della quale esse non dovrebbero trovare spazio, a meno che l’imprenditore istante non ne faccia richiesta; salvo poi a verificare se il tribunale debba o no rimettere in termini l’istante (e potrebbe essere quanta una delle ipotesi che giustifichi la proroga del termine complessivo per l’omologazione ai sensi dell’art. 181, comma 1, ult. parte) e se lo debba fare di ufficio o su richiesta (soluzione che mi sembra preferibile).
Le cose si complicano nel momento in cui il tribunale debba applicare il regime residuale e cioè quello la cui applicabilità non è subordinata ad una specifica domanda e cioè l’assenza del requisito soggettivo di meritevolezza, l’approvazione da parte della maggioranza semplice (art. 177 comma 1). tutte norme sicuramente caratterizzate da un favor per l’imprenditore insolvente.
Direi che mentre le norme procedurali trovano diretta applicazione, in base al principio tempus regit actum, sia pure nella versione suggerita dalla disciplina transitoria (art. 2, comma 2-bis del decreto convertito: è il caso della approvazione della proposta da parte di tanti creditori che rappresenti la maggioranza dei crediti ammessi a votare ex art. 177, comma 1; della nuova disciplina del procedimento di omologazione ex art. 180 testo rif.) è più dubbio se vada applicato l’esonero dal requisito di meritevolezza non più richiesto come presupposto della domanda. La perplessità è legittima perché la domanda deve essere accompagnata da un piano di ristrutturazione o soddisfazione dei crediti corredato di una serie di documenti ed accompagnato dalla relazione di un professionista (abilitato a svolgere le funzioni di curatore ex art. 28 legge fallim.) che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.
Di qui evidentemente il dubbio se, in assenza della relazione, il tribunale possa ugualmente valutare la proposta sotto l’aspetto della fattibilità del piano o se debba invitare l’imprenditore istante ad integrare la documentazione o, ancora se debba valutare oltre che la proposta anche sotto il profilo della meritevolezza del proponente.


7. La novella introduce un nuovo art. 182-bis che prevede che il debitore possa depositare  con la dichiarazione e la documentazione prevista dall’art. 161 un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato in creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un esperto sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei all’accordo.
Se in questo modo il legislatore ha inteso offrire un ombrello agli accordi di ristrutturazione intervenuti tra debitore e creditori accorti (di solito appartenenti al ceto bancario), ancora una volta non mancano dubbi interpretativi. Tralasciamo il riferimento alla dichiarazione (?) prevista dall’art. 161 che in realtà prevede il deposito di un ricorso. Il termine obiettivamente improprio usato dal legislatore della novella non ha un senso logico anche perché il debitore con il deposito dell’accordo non dichiara alcunché ma chiede pur sempre che l’accordo sia omologato (art. 182-bis comma 3); peraltro, il riferimento alla dichiarazione è tributario della procedura di composizione concordata della crisi che nasceva per effetto di una dichiarazione del debitore.
La domanda di omologazione dell’accordo deve essere accompagnata da una relazione redatta da un esperto sull’attuabilità dell’accordo stesso con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei all’accordo. Tenendo presente che l’art. 182-bis richiama la documentazione prevista dall’art. 161, inclusa la relazione del professionista (rientrante nelle categorie contemplate dall’art. 28 legge fallim.) che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, è lecito chiedersi se la relazione dell’esperto debba essere affidata a soggetto diverso (il che però porterebbe ad una inutile duplicazione) o allo stesso professionista contemplato dall’ultimo comma dell’art. 161; di sicuro la relazione deve avere un contenuto ulteriore e cioè prevedere lo specifico riferimento della idoneità dell’accordo ad assicurare  il regolare pagamento dei creditori estranei, nei cui confronti non opera l’efficacia esdebitatoria ma che possono pur essere pregiudicati da accordi rispetto ai quali sono rimasti estranei (che per esempio possono prevede la concessione di garanzie).
Un interrogativo non trascurabile riguarda la stessa natura giuridica dell’istituto, se si tratti di un concordato preventivo semplificato o di una fattispecie negoziale sottoposta però a controllo da parte del tribunale; ed ancora, il ruolo del  tribunale è confinato ad un mero riscontro di regolarità formale o ampliato fino alla verifica della fattibilità dell’accordo?
Mi sembra che l’accordo conservi natura negoziale in quanto a) produce effetti solo nei confronti degli aderenti (non ha cioè efficacia esdebitatoria); b) produce effetti dal momento della pubblicazione nel registro delle imprese cosicché la omologazione del tribunale non è condizione di efficacia; peraltro, vi è da chiedersi se la mancata omologazione possa essere considerata condizione risolutiva dell’accordo anche in assenza di una previsione negoziale in tal senso.
L’effetto principale che si intende raggiungere è quello della irrevocabilità degli atti (pagamenti, costituzione di garanzie) esecutivi dell’accordo medesimo (art. 67, comma 3, lett. e); tale effetto non può che conseguire alla omologazione dell’accordo (art. 67, comma 3, lett. e) cosicché prima dell’omologazione gli atti già compiuti in esecuzione dell’accordo siano sempre revocabili in caso di sopravvenuto fallimento dell’imprenditore; dal momento però che l’accordo è efficace fin dal deposito presso il registro delle imprese  ne deriva che chi abbia eseguito pagamenti o acquisito garanzie in esecuzione del piano lo fa a suo rischio e pericolo.
La pubblicazione presso il registro delle imprese fa decorrere il termine per i creditori a proporre opposizione, cosicché prima del decorso di tal termine non può intervenire l’omologazione da parte del tribunale. E’ dubbio se l’opposizione dei creditori estranei debba avere per oggetto le prospettive di recupero per i creditori estranei  o possano toccare altri profili dell’accordo, soluzione che mi sembra da escludere sia perché difetterebbe un interesse degli opponenti, sia perché che l’area di intervento dei creditori estranei mi sembra quella delimitata, sul piano oggettivo,  dall’art. 2901 cod. civ.; in ogni modo, la norma fa riferimento alla legittimazione a proporre opposizione da parte di qualunque interessato e così, per esempio, da parte dei garanti ed obbligati in solido del debitore i quali potrebbero rimanere danneggiati da un accordo che lasci ai creditori la possibilità di recuperare nei loro confronti i crediti non soddisfatti.


8. Infine, l’art. 67 comma 3 lett. d prevede l’inapplicabilità della azione revocatoria ai pagamenti ed alle garanzie costituite su beni del creditore posti in essere in esecuzione di un piano idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501-bis, comma 4, cod. civ.
Si tratta, quindi, di un’ulteriore figura di piano di risanamento che si aggiunge al concordato preventivo, ed all’accordo di ristrutturazione dei debiti previsto dall’art. 182-bis, rispetto ai quali, però, non mancano le differenze.
Dal punto di vista soggettivo, a differenza del concordato preventivo che richiede pur sempre l’approvazione della proposta da parte dei creditori rappresentati la maggioranza in somma e per classi dei crediti e dell’accordo stragiudiziale previsto dall’art. 182-bis che richiede l’adesione dei creditori rappresentati almeno il sessanta per cento dei crediti, il piano previsto dall’art. 67, comma 3, lett. d sembra poter essere il frutto anche di un’iniziativa unilaterale e non concordata; il che pone il problema di individuare un momento iniziale di esecuzione del piano, la cui ragionevolezza sia attestata dalla relazione ai sensi dell’art. 2501-bis, comma 4, cod. civ., anche ai fini di delineare con sicurezza l’area degli atti esenti dall’esercizio di eventuali revocatorie, in assenza di un momento di pubblicità del piano medesimo (a differenza di ciò che avviene per gli accordi di ristrutturazione previsti dall’art. 182-bis).
Sul piano oggettivo, se identico è il presupposto (sempre che si voglia accogliere, come ritengo preferibile,  una nozione allargata di stato di crisi), va però precisato che a differenza del concordato preventivo che ha per oggetto la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma – e che, quindi, può avere natura meramente remissoria e liquidatoria – e dell’accordo contemplato dall’art. 182-bis che ha per oggetto la ristrutturazione dei debiti e deve comunque essere idoneo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei (e può quindi avere contenuto meramente remissorio – liquidatorio), la fattispecie contemplata dall’art. 67, comma 3 lett. d sembra avere una portata più circoscritta, perché oltre al risanamento della situazione debitoria, il piano deve avere per oggetto il riequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa, il che significa che  non ha un oggetto meramente liquidatorio (che invece può costituire l’unico oggetto della domanda di concordato preventivo); peraltro, in quanto avente per oggetto il ripianamento della situazione debitoria, non mi sembra che rientrino nella fattispecie in esame le ipotesi di accordi conclusi con singoli creditori o, ancora, gli accordi conclusi con esponenti di un determinato ceto creditorio  che non prevedano un risanamento della complessiva esposizione; anzi, una lettura ancora più restrittiva porterebbe ad escludere gli accordi meramente solutori che non prevedano anche un riequilibrio della situazione finanziaria; ne risulterebbe allora una lettura in cui il regime di esenzione dalla revocatoria costituisce un premio del rifinanziamento dell’impresa in difficoltà o, quantomeno di accordi dilatori che consentano all’impresa di utilizzare risorse proprie per riequilibrare la situazione economico finanziaria o, ancora, di allocazione di alcuni cespiti aziendali per consentire il ripristino della liquidità e, quindi, si giustifica perché l’impresa è tornata in condizioni di equilibrio finanziario,  è cioè uscita dalla crisi ed è nuovamente in condizione di adempiere alle proprie obbligazioni.
A conferma di questa lettura depone peraltro il richiamo, per quanto riguarda la relazione dell’esperto, ai criteri indicati dall’art. 2501-bis comma 4; la norma, caratteristicamente presente nella disciplina della fusione con indebitamento, prevede che la relazione debba contenere le ragioni che giustificano l’operazione con un piano economico finanziario con indicazione delle risorse finanziarie e la descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere. Cosicché finisce per essere determinante il recupero dell’equilibrio dell’impresa del debitore attingendo a) a risorse proprie, anche con accordi dilatori con i creditori; b) a risorse esterne cioè alla erogazione di nuova finanza.
Se questa lettura è condivisibile, si conferma allora la poliedricità degli strumenti di gestione della crisi di impresa che, accomunati dall’identico presupposto oggettivo, peraltro tanto ampio da comprendere anche il vecchio stato di insolvenza, si distinguono a) per il contenuto, molto ampio nel concordato preventivo, più circoscritto per i piani di risanamento previsti dall’art. 67, comma 3, lett. d; b) per la percentuale minima di situazioni creditorie dei cui titolari si chiede l’adesione; c) per gli effetti esdebitatori nei confronti dei soggetti diversi dagli aderenti, previsti nel concordato preventivo e non nelle altre due ipotesi; d) per la maggiore o minore incisività del controllo del tribunale.
Nell’ottica del riformatore finiscono per assumere valore premiante le iniziative, promosse dai creditori o dal debitore di ricerca di soluzioni negoziate, sempre purché non vi sia un pregiudizio delle aspettative di recupero dell’impresa (come per il piano previsto dall’art. 67 comma 3, lett. d), o per le aspettative di pagamento dei creditori anche estranei all’accordo (come nell’ipotesi contemplata dall’art. 182-bis) o dissenzienti (come previsto dall’art. 180, comma 4). In tutte le ipotesi contemplate si cerca di creare valore (di cui possano beneficiare creditori ed imprenditore in crisi) o quantomeno di non distruggerlo. L’obiettivo è perseguito con una ben delineata scelta di campo: nella possibile alternativa tra ricorso a procedure di gestione concordata della crisi e ricorso a tecniche di prevenzione (e si pensi agli istituti di allerta e prevenzione, rimasti sulla carta e non oggetto di previsione nella legge delega) caratterizzate dalla responsabilizzazione di alcuni creditori qualificati e dei titolari della funzione di controllo sull’impresa societaria, nonché, ancora, dalla ufficiosità della procedura, il legislatore mostra nettamente di preferire la prima soluzione: con una grossa apertura di credito nei confronti delle diverse categorie interessate (imprenditori, creditori qualificati, consulenti ed esperti) che, ci auguriamo tutti, possa trovare rispondenza nella realtà dei fatti.


Prof. Avv. Gianvito Giannelli
Ordinario di Diritto Commerciale
nell’Università di Bari


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