SEMINARIO SULLA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
INTRODOTTA CON LEGGE 14 MAGGIO 2005, N. 80
MOLFETTA, 5 LUGLIO 2005


LE MODIFICHE AL LIBRO III DEL CODICE DI PROCEDURA CIVILE SUL PROCESSO DI ESECUZIONE
ALBERTO BINETTI


SOMMARIO


1. INQUADRAMENTO GENERALE ED ENTRATA IN VIGORE.
2. FORMA DEL PIGNORAMENTO.
3. CONVERSIONE DEL PIGNORAMENTO.
4. PIGNORAMENTO SUCCESSIVO : FORMA E MODALITÀ DELL’INTERVENTO E FACOLTÀ DEGLI INTERVENUTI.
5. RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE.
6. CONCLUSIONI.


1. INQUADRAMENTO GENERALE ED ENTRATA IN VIGORE.


La legge n. 14 maggio 2005 n. 80, che ha convertito il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, c.d. sulla competitività, ha modificato diverse norme del processo esecutivo, operando un intervento tanto incisivo – sicuramente il più ampio ed articolato dall’entrata in vigore del codice di rito – da potersi definire una vera e propria riforma del processo esecutivo.
Non c’è dubbio che il processo esecutivo necessitava di un’opera di aggiornamento, tenuto conto che la realtà odierna è ben diversa da quella già di dieci o quindici anni fa, e a maggior ragione da quella di cinquanta e più anni or sono; e ciò soprattutto in ordine al numero delle procedure esecutive, peraltro, in presumibile incremento, in ragione dell’aumento dei titoli esecutivi in base ai quali la procedura può essere avviata, ma anche, a mio parere, della cronica lunghezza delle singole procedure che ha spesso indotto i debitori a non fare nulla per liberarsi del vincolo in tempi brevi (con accordi stragiudiziali o istanze di conversione, fatalmente aumentati via via che i tempi di definizione delle procedure si accorciavano).
Pertanto, l’intervento del legislatore si è concentrato da una parte sulle operazioni materiali finalizzate alla liquidazione del patrimonio mobiliare e soprattutto immobiliare dei debitori, sottraendo al giudice dell’esecuzione una buona parte delle dette attività un tempo di sua stretta competenza (vendita – trasferimento – distribuzione) e portando a conseguenze ancora più estreme il percorso avviato con  la delega ai notai, soluzione che ha avuto vario esito (ora altamente positivo, ora addirittura disastroso) nei tribunali d’Italia e che evidentemente è stato ritenuto insufficiente dal legislatore; e, dall’altra, nello snellimento della procedura stessa, giungendo, però, come si vedrà, nell’intento di ridurre il più possibile i tempi biblici delle procedure esecutive,  ad incongruenze ed aporie la cui soluzione sarà rimessa all’applicazione concreta della nuova normativa.
Ciò detto, la prima considerazione da fare è quella relativa all’entrata in vigore della legge, che, in virtù del recentissimo decreto legge n. 115 del 30 giugno 2005, è stata spostata dai centoventi giorni dopo l’entrata in vigore della legge di conversione e, cioè, dal 12 settembre 2005 alla data fissa del 15 novembre 2005.
Ciò vale per tutte le norme ad eccezione delle modifiche degli artt. 133 e 134 c.p.c. e del nuovo art. 187 bis disp. att. c.p.c., che trovano immediata applicazione (si veda in proposito l’art. 2, comma 3 quater che limita il differimento ai centoventi giorni citati solo ai commi 3, lett. b-bis, b-ter, c-bis, c-ter), e, e-bis ed e-ter, 3-bis e 3-ter).
Ma il punctum dolens è la verifica dell’applicabilità della nuova normativa alle procedure in corso.
Nella assoluta assenza, allo stato, di una norma transitoria, l’unico criterio guida dovrebbe essere il principio generale in virtù del quale le norme processuali trovano immediata applicazione, secondo l’antico brocardo tempus regit actum.
Il che, portato alle estreme conseguenze dovrebbe significare che per le procedure in corso al momento dell’entrata in vigore, ciascuna delle attività processuali a compiersi dopo il 15 novembre 2005 (o la data conseguente ad ulteriore proroga) dovrebbe essere soggetta alla nuova normativa. Se non che, la giurisprudenza della Suprema Corte, nel noto arresto del 27 ottobre 1995 n. 11178 ha precisato come “il processo esecutivo si presenta strutturato non già come una sequenza continua di atti ordinati ad un unico provvedimento finale – secondo lo schema proprio del processo di cognizione – bensì come una successione di subprocedimenti, cioè in una serie autonoma di atti ordinati a distinti provvedimenti successivi”.
Il ricorso al meccanismo dei sub-procedimenti potrebbe consentire, allora, di applicare la novella, via via ai subprocedimenti non ancora istaurati, nonostante la pendenza della procedura nel suo insieme. A titolo esemplificativo si potrebbe dire che se fosse proposta una istanza di conversione del pignoramento prima dell’entrata in vigore della norma, il subprocedimento relativo dovrebbe essere disciplinato dalla normativa vigente al momento in cui esso ha avuto inizio, apparendo inconcepibile il mutamento di rito in corsa ovvero l’applicazione di un doppio rito allo stesso subprocedimento.
Tale soluzione avrebbe il pregio di permettere una attuazione immediata della novella, in quanto adottando l’alternativa più comoda ed ordinata, quella di riservare il c.d. nuovo rito alle procedure introdotte (con la notifica dell’atto di pignoramento) dopo l’entrata in vigore della legge, si avrebbe di fatto uno slittamento di almeno un paio d’anni per la prima attuazione (tenuto conto dei tempi medi intercorrenti tra il deposito del pignoramento e la fissazione della prima comparizione, tempi che, ad onta delle pie intenzioni del legislatore, non sembra si possa ridurre di molto nell’immediato futuro), il che non è detto che sia necessariamente un fatto negativo. Al tempo stesso, il meccanismo dei subprocedimenti porterebbe con sé un inevitabile limite dovuto al fatto che non tutti gli atti possono essere ricondotti nell’ambito di un ben preciso subprocedimento : va bene per la conversione o la riduzione del pignoramento ovvero il processo distributivo o la vendita, ma quid iuris nel caso della disciplina dell’intervento, con particolare riferimento ai presupposti per l’intervento e alle facoltà dell’interventore?
La questione rimane aperta nella speranza di un intervento legislativo chiarificatore.
Per la verità l’invocato intervento chiarificatore potrebbe essere rappresentato dal disegno di legge n. 3439 licenziato dalla commissione giustizia del Senato in tutta fretta e (fatto significativamente insolito) ancor prima dell’entrata in vigore della legge, il quale, apportando sostanziali modifiche alle norme oggi in commento, prevederebbe per le esecuzioni immobiliari, che le norme della novella (così come modificate dal citato disegno di legge) si applichino “anche alle procedure esecutive pendenti a tale data di entrata in vigore. Quando tuttavia è già stata ordinata la vendita la stessa ha luogo con l’osservanza delle norme precedentemente in vigore. L’intervento dei creditori non muniti di titolo esecutivo conserva efficacia se avvenuto prima della data di entrata in vigore delle modifiche al codice di procedura civile e alle disposizioni di attuazione richiamate nel presente comma”.
A voler trarre elementi di interpretazione dal progetto di legge in questione, si può osservare che l’intento del legislatore sia quello di prevedere l’immediata applicazione della novella a tutte le procedure, pendenti e non, utilizzando quale spartiacque, il fatto che sia già stata ordinata la vendita.
Ciò comporterebbe da una parte l’inutilizzabilità del criterio elaborato dalla giurisprudenza per i cc.dd. subprocedimenti, in presenza di una esplicita disposizione normativa, e dall’altra la necessità di inquadrare correttamente il momento in cui viene ordinata la vendita, che dovrebbe coincidere non con le operazioni di vendita o con l’udienza fissata per i provvedimenti sulla vendita, ma con la ordinanza di vendita vera e propria.
Inoltre, il legislatore sembra aver cercato di dare una risposta anche ai dubbi relativi alle innovazioni non inquadrabili esplicitamente in alcun subprocedimento, come la disciplina dell’intervento, precisando che anche l’intervento non supportato da titolo esecutivo, non più legittimato secondo la novella – come si dirà meglio in seguito –, laddove “avvenuto prima dell’entrata in vigore delle modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione richiamate nel presente comma” (v. art. 1. comma 3-quater del citato progetto di legge) conserva la sua efficacia.
Pur essendo impossibile – e per certi versi inutile – una disamina di un testo non ancora entrato in vigore ed addirittura soggetto ancora al vaglio di un ramo del Parlamento, è appena il caso di annotare come il legislatore, dopo avere indicato l’ordinanza di vendita come elemento separatore tra nuova e vecchia disciplina, precisa che “la stessa ha luogo con l’osservanza delle norme precedentemente in vigore”; sicché sembrerebbe che non l’intera procedura rimarrebbe soggetta al c.d. vecchio rito, ma soltanto la vendita.
Poiché, come già detto, le modifiche riportate dal progetto di legge, tra cui la disciplina transitoria della legge 14 maggio 2005, n. 80, non sono ancora legge e sono suscettibili di ulteriore modificazione, verranno ancora evidenziati nei paragrafi che seguono gli aspetti particolari rilevanti anche per la questione circa l’applicabilità o meno delle nuove norme alle procedure in corso.


2. FORMA DEL PIGNORAMENTO.


La norma che indica la forma del pignoramento è quella dell’art. 492 c.p.c; essa è stata modificata dalla l. 14 maggio 2005, n. 80 in più punti.
In primo luogo, lasciato immutato il primo comma, è stato inserito al comma 2 “l’invito rivolto al debitore ad effettuare presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione la dichiarazione di residenza o l’elezione del domicilio nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione con l’avvertimento che, in mancanza, le successive notifiche o comunicazioni a lui dirette saranno effettuate presso la cancelleria dello stesso giudice”.
L’immaginabile conseguenza di tale innovazione consiste in una maggiore responsabilizzazione del debitore, il quale, pur non essendo parte del processo esecutivo – che sostanzialmente subisce -, salva la sua legittimazione alle opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi, è, comunque, soggetto destinatario degli atti di esecuzione e deve essere sentito nei casi previsti dalla legge (basti pensare che l’art. 173 bis delle disposizioni di attuazione del codice di rito, introdotto dalla novella in commento prevede espressamente la comunicazione in suo favore – oltre che dei creditori procedenti o intervenuti – sebbene non costituito, almeno quarantacinque giorni prima dell’udienza fissata a norma dell’art. 569 c.p.c. [per l’adozione dei provvedimenti sulla vendita] della relazione di stima dell’esperto nominato dal G.Es.).
In altri termini, il legislatore ha preso coscienza della pratica – ben conosciuta negli uffici giudiziari – per la quale il debitore, magari dopo avere ricevuto la notificazione dell’atto di pignoramento, si rende sostanzialmente irreperibile, sottoponendo le Cancellerie ed i creditori procedenti a defatiganti ricerche e a molteplici rinnovazioni di comunicazioni.
Con l’introduzione del comma 2 dell’art. 492, dunque, è fatto carico al debitore di dichiarare la residenza o eleggere domicilio, con l’avvertimento che in mancanza le comunicazioni saranno effettuate presso la Cancelleria – avvertimento che per l’espropriazione immobiliare dovrà essere contenuto nell’atto solitamente formato dal procuratore del procedente -; rimarrà, dunque, totalmente a carico del debitore inadempiente la persistente sua inerzia, tenuto conto che – laddove non eseguita la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio – una volta effettuata la comunicazione presso la Cancelleria, da tale data decorrerà il termine che, pur aumentato dagli originari 5 giorni agli attuali 20 giorni (v. nuovo art. 617 c.p.c.), rimane in ogni caso breve per l’opposizione agli atti esecutivi.
Non comporta alcuna sostanziale variazione nell’interpretazione della norma la modificazione prospettata dal già citato progetto di legge approvato dal Senato il 28 giugno 2005, il quale semplicemente introduce la possibilità per il debitore di eleggere il domicilio o indicare la residenza in uno dei comuni del circondario del giudice d’esecuzione, anziché nel solo comune del giudice, e prevede la notificazione mediante deposito in Cancelleria anche nel caso di irreperibilità presso il domicilio o la residenza come sopra eletto o indicato.
E’ indubbio il tentativo da una parte di accelerare la procedura esecutiva e dall’altra di dare tempestiva stabilità ai provvedimenti e agli atti esecutivi in genere.
Decisamente più significative dal punto di vista degli incombenti posti a carico dell’ufficiale giudiziario sono le novità introdotte con i commi 3, 4, 5, 6 e 7 del nuovo art. 492 c.p.c.
Sebbene la collocazione della norma nella sezione relativa alle norme sull’espropriazione in generale induca a ritenere che essa si riferisca a tutte le forme di espropriazione, e, quindi, anche di quella immobiliare, deve, tuttavia, osservarsi che, se pure di una qualche utilità pratica, come  si dirà più oltre, lo schema disegnato dal legislatore appare più adeguato e confacente con la espropriazione mobiliare o presso terzi, laddove è lo stesso ufficiale giudiziario che “ricerca le cose da pignorare nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti”, o addirittura sulla persona del debitore.
E’ più difficile immaginare che nell’espropriazione immobiliare, laddove il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione di un atto nel quale “gli si indicano esattamente, con gli estremi richiesti dal codice civile per l’individuazione dell’immobile ipotecato, i beni e i diritti immobiliari che si intendono sottoporre ad esecuzione”, cui deve seguire, a norma del secondo comma dell’art. 555 c.p.c., la trascrizione dell’atto medesimo presso la conservatoria dei beni immobiliari, l’ufficiale giudiziario possa ottenere dal debitore l’indicazione di altri beni immobili, con l’analitica descrizione di cui al primo comma dell’art. 555 c.p.c. e possa egli stesso formare un atto da consegnare al creditore per la successiva trascrizione.
In ogni caso, non va nascosto che la portata dell’innovazione potrebbe non essere così rilevante come appare a prima vista : infatti, a fronte dell’invito rivoltogli dall’ufficiale giudiziario, è tenuto il debitore alle indicazioni della nuova norma o può rifiutarsi? Non v’è dubbio, in proposito, che manchi nella norma in commento una sanzione a carico del debitore per il caso in cui ometta di indicare altri beni sui quali eseguire il pignoramento. D’altro canto, una eventuale sanzione sarebbe stata contraria al principio immanente nel nostro ordinamento per cui nessuno può essere obbligato a danneggiare se stesso, di modo che l’innovazione legislativa si riduce ad una pia illusione : quella di ottenere la sostanziale spontanea collaborazione del debitore esecutato, addirittura a sottoporre a pignoramento (con ogni conseguenza in ordine al vincolo ex art. 388 cod. pen. espressamente richiamato) beni mobili o immobili tralasciati (colpevolmente o incolpevolmente) del creditore.
E ciò senza voler ulteriormente approfondire la sostanziale impossibilità da parte dell’ufficiale giudiziario, almeno per quel che riguarda le espropriazioni immobiliari, di constatare “che i beni assoggettati a pignoramento appaiono insufficienti per la soddisfazione del creditore procedente”.
Infatti, tenuto conto che il valore da assegnare ai beni immobili già attualmente di regola non viene assegnato dal G.Es. (sulla scorta delle sue inevitabilmente scarse cognizioni in materia di mercato immobiliare) ma attraverso l’ausilio della relazione di un tecnico, facoltativamente nominato, e che con l’entrata in vigore dell’art. 569 c.p.c. come novellato dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, la nomina del tecnico è prevista dalla legge in modo generalizzato prima ed al di fuori dell’udienza per i provvedimenti sulla vendita (con ciò recependo una prassi consolidata anche presso il Tribunale di Trani), come si può immaginare che l’ufficiale giudiziario possa verificare in sede di notificazione dell’atto di pignoramento che i beni staggiti – magari in numero notevole – siano o meno sufficienti a garantire il creditore procedente.
Né va trascurato che l’impossibilità diventa oggettiva nel caso di notificazione del pignoramento a mezzo del servizio postale, tenuto conto che le attività descritte nel novellato art. 492 c.p.c. possono essere compiute soltanto dall’ufficiale giudiziario di persona.
Ma anche nell’ipotesi di espropriazione presso il debitore non mancano gli elementi di perplessità in riferimento all’art. 1153 cod. civ..
Mentre nel previgente art. 492 c.p.c. non si faceva alcun riferimento alle modalità di esecuzione del pignoramento medesimo, se non attraverso l’ingiunzione di cui al comma primo, di modo che per l’esecuzione presso il debitore essa avveniva con ricerca diretta dell’ufficiale giudiziario “nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti” rispetto ai quali vi è una presunzione di appartenenza proprio in riferimento allo stato di possesso e salva la esistenza di altri beni mobili che, pur appartenendo al debitore, siano in possesso di terzi (in virtù di un titolo negoziale che presuppone l’obbligo di restituzione) per il qual caso si procede con il pignoramento presso terzi; al contrario, secondo la nuova disposizione dello stesso art. 492 c.p.c. comma terzo, il debitore dovrebbe indicare altri beni che non si trovino nella sua immediata disponibilità, bensì di terzi rispetto ai quali non è neppure possibile ipotizzare un titolo che comporti l’obbligo di restituzione da parte di quest’ultimo.
In altre parole, il pignoramento potrebbe cadere automaticamente su beni mobili detenuti o posseduti (questo non si specifica) da terzi, senza che sia precisato il rapporto con il debitore, semplicemente su indicazione di quest’ultimo ed in spregio alla nota presunzione per la quale “il possesso vale titolo”.
Sicuramente di maggiore impatto, proprio perché sottratta alla collaborazione del debitore, è l’introduzione del sesto comma laddove l’ufficiale giudiziario, su richiesta del creditore e previa autorizzazione del G.Es., può rivolgere richiesta ai soggetti gestori dell’anagrafe tributaria e di altre banche dati pubbliche.
Rimane per il momento irrisolto, anche perché rimesso alla giurisprudenza destinata a formarsi nei primi mesi di applicazione della norma totalmente nuova, il problema se il Giudice dell’Esecuzione possa o debba ancorare la propria autorizzazione alla sussistenza di particolari presupposti (quali ad es. l’esperimento negativo dei tradizionali canali di indagine, quali le visure ipocatastali) ovvero se possa o debba verificare la compatibilità tra la richiesta e la concorrente esigenza di rispetto della normativa sulla privacy, o ancora se il suo sia un atto dovuto.
Ciascuna delle opzioni presenta aspetti favorevoli e contrari; da una parte, presumere la automatica autorizzazione del G.Es. renderebbe la norma sostanzialmente priva di una sua utilità, dall’altra, richiedere la presenza di requisiti non previsti espressamente dalla norma comporterebbe una forzatura che non mi sento di legittimare, anche perché in tal modo la norma assumerebbe contorni eccessivamente generici; potrebbe, quindi, concludersi, che la verifica del giudice dell’esecuzione ai fini della concessione dell’autorizzazione di cui all’art. 492 co. 6 c.p.c. debba limitarsi al controllo della non contrarietà dell’istanza ad altre norme di legge e ai principi generali in materia di ordine pubblico, cui in ogni caso è sottoposta l’azione esecutiva.
Va, peraltro, sottolineato che quest’ultima novità non è limitata alla circostanza che i beni pignorati siano insufficienti a soddisfare il creditore, ovvero che tale presumibile incapienza sia sorta a seguito dell’intervento di altri creditori – ipotesi prevista dal nuovo comma 5 – ma è svincolata dalla detta valutazione, tanto che si dice che “in ogni caso” l’Ufficiale giudiziario può eseguire le indagini di cui sopra “ai fine della ricerca delle cose da sottoporre ad esecuzione”, pertanto anche e soprattutto in epoca antecedente al pignoramento stesso ed in funzione di questo.
Infine, il nuovo comma 5 dell’art. 492 c.p.c. ha introdotto un meccanismo in virtù del quale è il creditore procedente a richiedere all’Ufficiale giudiziario di procedere a norma dei commi precedenti, e, quindi, all’invito al debitore ad indicare ulteriori beni utilmente pignorabili ed i luoghi in cui si trovano. Si tratta evidentemente di una facoltà rimessa al creditore e subordinata alla circostanza che i beni pignorati siano divenuti insufficienti a seguito dell’intervento di altri creditori, di modo che possono riproporsi per la norma in parola quanto detto a proposito dei commi terzo e quarto e della difficile compatibilità tra la norma medesima e le espropriazioni immobiliari.
Inoltre, nel comma quinto, al precipuo scopo di responsabilizzare maggiormente i creditori si è previsto che solo laddove il creditore abbia effettuato la richiesta in questione, possa esercitare prevista dal nuovo art. 499 c.p.c. Nella suddetta norma, infatti, e con ciò brevemente anticipando quanto si dirà a proposito dell’intervento, è stato introdotto il terzo comma che riproduce quanto espresso nell’art. 492 co. 5 c.p.c., in ordine alla possibilità per il creditore pignorante di indicare con atto notificato o all’udienza fissata per l’autorizzazione alla vendita o per l’assegnazione (che è poi l’ultimo termine per la tempestività dell’intervento) l’esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili, e invitarli ad estendere il pignoramento, se sono forniti di titolo esecutivo, o, altrimenti, ad anticipare le spese necessarie per l’estensione. Se questi senza giusto motivo non estendono il pignoramento entro i trenta giorni successivi, il creditore ha diritto ad essere loro preferito in sede di distribuzione.
In breve e lasciando le ulteriori considerazioni alla sede di trattazione dell’intervento, l’art. 499 c.p.c. introduce indirettamente per il pignorante una sorta di incentivo e per l’intervenuto una specie di sanzione per stimolare nel primo l’indicazione di altri beni oltre quelli già pignorati e nel secondo la estensione del pignoramento, e ciò, comunque, sempre nell’ottica di conseguire con l’azione esecutiva il massimo risultato di vedere soddisfatti tutti i creditori. E sempre che si realizzi nella realtà – cosa invero non molto frequente – che il creditore, pur conoscendo l’esistenza di altri beni del debitore, limiti il pignoramento ad alcuni soltanto di essi.
Non comporta particolare difficoltà interpretativo il nuovo settimo comma che prevede la facoltà dell’ufficiale giudiziario di farsi assistere dalla forza pubblica senza la necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice dell’esecuzione.


3. CONVERSIONE DEL PIGNORAMENTO.


Di minore quantità ma sicuramente di notevole impatto pratico sono le modificazioni apportate dalla riforma all’art. 495 c.p.c. che disciplina la conversione del pignoramento.
E’ fatta salva tutta la struttura della norma nella parte in cui attribuisce al debitore la facoltà di chiedere di sostituire alle cose o ai crediti pignorati una somma di denaro pari, oltre alle spese di esecuzione, all’importo dovuto al creditore pignorante e ai creditori intervenuti, comprensivo del capitale, degli interessi e delle spese, nonché in quella in cui assegna al giudice dell’esecuzione il compito di determinare espressamente tale somma e in quell’altra in cui – al fine di evitare o rendere più difficoltose manovre dilatorie dei debitori – già il legislatore della riforma del 1990 aveva introdotto la necessità del versamento della cauzione del quinto e la sanzione della confisca della cauzione medesima e delle somme eventualmente già versate in caso di inadempimento alle prescrizioni imposte dal giudice.
La novità consiste, dunque, in ciò, che la facoltà prevista ai commi successivi, secondo il nuovo primo comma può essere esercitata soltanto sino a che sia disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e 569.
Orbene, precisato che l’istituto dell’assegnazione diretta al creditore come alternativo alla vendita è previsto soltanto per l’espropriazione presso il debitore, ai sensi dell’art. 530 c.p.c., e per l’espropriazione presso terzi, ex art. 552 c.p.c., mentre per quella immobiliare l’<assegnazione> può conseguire soltanto all’esperimento infruttuoso di almeno un tentativo di vendita, sicché sarà necessariamente successiva al provvedimento che dispone la vendita medesima, ai sensi dell’art. 569 c.p.c., va detto che la nuova norma risolve una querelle ancora aperta nell’interpretazione del previgente art. 495 co. 1.
E’ noto, che la dizione precedente – ed allo stato ancora vigente – contempla la facoltà del debitore di chiedere la conversione del pignoramento “in ogni momento anteriore alla vendita”, ingenerando una annosa questione se per vendita dovesse ritenersi l’aggiudicazione (e se quella provvisoria o definitiva) ovvero il trasferimento disposto con decreto del G.Es. con ogni conseguenza in ordine alla tutelabilità o meno degli interessi dell’aggiudicatario provvisorio o definitivo (ma non ancora proprietario).
Si è detto in proposito che l’aggiudicatario non vanti un vero e proprio diritto al trasferimento dell’immobile, ed alla sua tutela possa essere preferita quella degli interessi del debitore alla conservazione della proprietà mobiliare o immobiliare – ferma restando la soddisfazione del creditore -.
Con la novella, dunque, si è fatta piazza pulita dell’ampio dibattito in corso optando per una soluzione più radicale : se il debitore è realmente intenzionato a salvare il proprio bene mobile o immobile dalla vendita deve sollecitamente proporre l’istanza “prima che sia disposta la vendita”, di modo che mai più potrà verificarsi un conflitto con l’aggiudicatario, atteso che al momento dell’espletamento del primo tentativo di vendita già ogni facoltà per il debitore sarà preclusa.
Nella stessa ottica vanno lette, allora, tutte quelle norme che prevedono la comunicazione degli atti esecutivi al debitore (v. ad es. il già citato art. 173 bis disp. att. c.p.c. nella parte in cui si dispone la comunicazione della perizia al debitore da parte dell’esperto).
E nello stesso senso, va letta la norma del nuovo art. 187 bis disp. att. c.p.c. laddove si prevede l’intangibilità degli effetti dell’aggiudicazione nei confronti degli aggiudicatari o assegnatari (addirittura provvisori) anche  nel caso di estinzione o chiusura anticipata della procedura esecutiva.
E’ un ben considerevole cambiamento di prospettiva nel senso della tutela di queste figure, in passato un po’ bistrattate, degli aggiudicatari, sempre posti in secondo piano rispetto agli attori principali del processo esecutivo, creditori e debitori.
Per vero, come già anticipato nell’introduzione, l’art. 187 bis disp. att. c.p.c. induce ad alcune riflessioni in tema di prima applicazione della normativa in commento, nella assoluta assenza (almeno allo stato) di una norma transitoria.
In particolare, l’ultimo comma del citato articolo prevede che “dopo il compimento degli stessi atti, l’istanza di cui all’art. 495 del codice non è più ammissibile”. Orbene, che senso avrebbe la citata disposizione in presenza di una norma come quella del primo comma dell’art. 495 c.p.c. che esclude a priori che si possa proporre una istanza di conversione se non prima del momento in cui viene disposta la vendita o l’assegnazione, ovviamente, antecedente all’esperimento del primo tentativo o all’assegnazione medesima. Deve dedursene che la norma in parola può trovare una sua applicazione logica soltanto per il caso delle procedure attualmente in corso, rispetto alle quali l’art. 495 novellato non dovrebbe potersi applicare, di modo che ben sarebbe possibile (come ci insegna l’esperienza concreta) che il processo di esecuzione si estingua o si chiuda anticipatamente  magari perché intervenuta una istanza di conversione, accolta ed adempiuta, dopo l’esperimento della vendita e dopo l’aggiudicazione.
Se, dunque, si ritenesse la novella in commento applicabile – al pari di tutte le norme processuali – alle procedure in corso, l’art. 187 bis disp. att. c.p.c. troverebbe una chiara spiegazione, in quanto servirebbe a compensare la discrasia tra l’intangibilità degli effetti dell’aggiudicazione o assegnazione, prevista dalla novella, e la facoltà del debitore di richiedere la conversione sino al momento del trasferimento (anche dopo l’aggiudicazione provvisoria o definitiva), prevista dalla normativa previgente. Nulla esclude, però, che, in considerazione del fatto che l’art. 187 bis disp. att. c.p.c. non rientra tra le ipotesi per le quali è stato previsto il differimento dell’entrata in vigore a centoventi giorni dopo la legge di conversione ed è, quindi, di immediata applicazione, essa abbia il solo scopo di introdurre una preclusione temporale alla facoltà di chiedere la conversione (legata all’esito positivo della vendita o dell’assegnazione) rispetto alla normativa attualmente vigente, norma, pertanto, destinata ad essere privata di ogni efficacia concreta a decorrere dall’entrata in vigore del nuovo art. 495 c.p.c. – almeno nei casi in cui l’estinzione o la chiusura anticipata derivi da una conversione del pignoramento – e magari semplicemente di risolvere implicitamente il contrasto giurisprudenziale e dottrinale sulla espressione “vendita” del previgente primo comma dell’art. 495 c.p.c., intendendosi ovviamente per essa il decreto di trasferimento, altrimenti, in caso contrario, veramente l’art. 187 bis citato perderebbe gran parte del suo significato.
Perché sia chiaro, laddove ve ne fosse la necessità, per “prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 53, 552 e 569” deve intendersi il momento in cui il giudice dell’esecuzione adotta il provvedimento con il quale fissa la data della vendita, ovvero delega il notaio o altro professionista per l’esecuzione delle operazioni di vendita, ovvero dispone l’assegnazione nelle espropriazioni mobiliari e presso terzi, e per essere più chiari, tale momento non è quello dell’emissione del provvedimento o del deposito dello stesso, ma quello – praticamente sempre ricorrente – in cui il giudice si riserva di provvedere sull’istanza di vendita o di assegnazione; il problema non è di poco momento considerando che a volte, tenuto conto del carico ben conosciuto dai frequentatori delle aule giudiziarie, tra la riserva e l’emissione dei provvedimenti possono trascorrere parecchi giorni se non mesi. Conseguentemente, una istanza di conversione che sia stata depositata prima della emissione e deposito del provvedimento sulla vendita o sull’assegnazione, ma dopo la riserva, dovrà considerarsi tardiva, così come normalmente viene considerato tardivo l’intervento del creditore se avvenuto dopo “la prima udienza fissata per i provvedimenti sulla vendita”, indipendentemente se a tale udienza siano stati assunti i provvedimenti ovvero vi sia stata una riserva sciolta una settimana o un mese più tardi.
Tale situazione, essendo legata all’esercizio di una facoltà per la quale sono previste esplicite preclusioni, deve essere distinta da quella nella quale il giudice pur essendosi riservato, deve emettere un provvedimento rispetto al quale sono intervenute delle modificazioni sostanziali che giustificherebbero una sostanziale revisione del provvedimento medesimo, qualora accolto alla sola luce dei dati presenti al momento della riserva (si vedano precedenti specifici – sebbene non pacifici – in tema di riduzione del pignoramento o dei mezzi di espropriazione).
Lasciando la resa dei conti sull’effettiva applicazione della novella alle procedure in corso al vaglio della pratica, e tornando alla conversione del pignoramento deve essere sottolineato come il legislatore nulla abbia innovato in ordine al meccanismo di determinazione della somma da sostituire alle cose pignorate, lasciando inalterata la validità della elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in materia di valutazione del giudice sulla esistenza ed ammontare dei crediti e di opposizioni agli atti esecutivi avverso il provvedimento che determina la somma – salvo quanto si dirà a proposito degli interventi -, nonché sulla opportunità di sospendere le operazioni di vendita, non avendo la conversione alcun automatico effetto sospensivo della procedura esecutiva.
L’ultima vera innovazione consiste nell’allungamento del termine di rateizzazione che il giudice può concedere al debitore che passa da nove a diciotto mesi ed evidentemente va a compensare la restrizione sotto il profilo del termine entro il quale l’istanza va proposta.


4. PIGNORAMENTO SUCCESSIVO : FORMA E MODALITÀ DELL’INTERVENTO E FACOLTÀ DEGLI INTERVENUTI.


La nuova formulazione dell’art. 499 c.p.c. rappresenta un sostanziale stravolgimento della disciplina previgente. Infatti, a parte il comma secondo, che è rimasto immutato e che si occupa del contenuto del ricorso per intervento, è stato introdotto un primo ed un terzo comma di portata decisamente innovativa.
Quanto al primo comma, prevede che possano intervenire nell’esecuzione i creditori che nei confronti del debitore hanno un credito fondato su un titolo esecutivo, nonché i creditori che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero avevano un diritto di prelazione risultante da pubblici registri o un diritto di pegno.
E’ evidente che l’innovazione di maggior rilievo riguarda la limitazione dell’intervento ai soli creditori muniti di titolo esecutivo, cui si aggiungono coloro che pur non in possesso del titolo esecutivo, abbiano eseguito un sequestro, ovvero vantino un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri (ipoteca) o un diritto di pegno.
L’ipotesi che un creditore abbia iscritto ipoteca o abbia altro diritto di prelazione risultante dai pubblici registri senza possedere il titolo esecutivo, sia pure limitata, è possibile (ad es. nel caso del contratto di apertura di credito bancario, che, sebbene garantito ipotecariamente, non costituisce titolo esecutivo ai fini dell’azione per il recupero degli importi insoluti nei confronti del debitore).
In ogni caso, ciò che va sottolineato è il chiaro intento del legislatore di risolvere l’annosa questione degli interventi basati su mere “pretese” dei creditori, i quali, anziché sobbarcarsi le spese ed i tempi di un accertamento giudiziale, ovvero della formazione del titolo esecutivo, preferivano intervenire in procedure introdotte da altri e sperare che il debitore, magari ormai privo di interesse per una procedura con molti creditori e poche prospettive di recuperare un residuo, ovvero gli altri creditori, magari anch’essi interamente soddisfatti, non facessero alcuna opposizione ex art. 512 c.p.c.
D’altro canto, se è stato ristretto il canale di ingresso alla procedura esecutiva, dall’altro lato è stato ampliato (sia pure con numerose contraddizioni e complicazioni estranee all’0dierna trattazione) il numero dei titoli esecutivi, comprendendovi anche le scritture private autenticate.
In tal modo, se da una parte si è cercato di ridurre le controversie derivanti dalle opposizioni alle esecuzioni aventi ad oggetto la contestazione del credito degli intervenuti (che per il previgente art. 563 c.p.c. [nell’ambito della espropriazione immobiliare]– ora ovviamente abrogato – poteva essere anche non liquido ed esigibile, mentre per l’art. 525 c.p.c. [nell’ambito dell’espropriazione mobiliare presso il debitore] – anch’esso abrogato limitatamente al primo comma – doveva essere certo, liquido ed esigibile), dall’altra si è aperto il campo a presumibili numerose controversie di opposizione all’esecuzione vertenti proprio sull’accertamento del credito, meno certo, ad onta di un maggiore rigore formale, e trasfuso in un titolo non di formazione giudiziale.
Non è mio compito in questa sede occuparmi del titolo esecutivo come disciplinato dal nuovo art. 474 c.p.c. ma mi sia consentito accennare al fatto che l’aver introdotto un titolo non solo di formazione non giudiziale ma neppure garantito dalla fede privilegiata di alcuni atti privati quali la cambiale e gli altri titoli di credito cui la legge attribuisce l’efficacia di titolo esecutivo, e quali gli atti pubblici notarili o di altri pubblici ufficiali abilitati, ha inevitabilmente spostato, per una buona fetta di controversie, la fase di accertamento del credito dalla sua sede naturale della cognizione, a quella della opposizione all’esecuzione.
Tutta la giurisprudenza elaborata a proposito dei limiti dell’opposizione all’esecuzione, che appunto veniva circoscritta ai fatti successivi alla formazione del titolo – sia pure con una qualche concessione proprio in riferimento ai titoli non giudiziali (si pensi ad es. alla dibattuta questione dei limiti dell’opposizione all’esecuzione in materia di tassi ultra-legali sulla scorta di contratti pubblici di mutuo) – è destinata ad essere completamente revisionata alla luce di una normativa che introduce una così ampia categoria di titoli esecutivi, per i quali, peraltro, non sembra che il legislatore abbia compiuto una scelta guidata da opportuna ragionevolezza, nel senso che non si vede quale particolare valore privilegiato nell’accertamento del credito possano avere le scritture private autenticate.
In altri termini, e a solo titolo di esempio, sarà ben possibile richiedere il pagamento della penale prevista in un contratto preliminare di compravendita, con sottoscrizioni autenticate, lasciando, direi inevitabilmente, la controversia sull’esistenza dell’inadempimento e, quindi, del credito alla opposizione all’esecuzione.
Sotto tale profilo, e pur lasciando alla prova dei fatti la eventuale conferma o smentita ai miei timori, mi sembra, allo stato che i benefici, in termini di riduzione della conflittualità tra creditori e tra debitore e creditori circa gli interventori, dovuti alla maggiore qualificazione degli stessi, siano di gran lunga inferiori all’incremento di contenzioso, sotto la specie di opposizioni all’esecuzioni, in virtù della corrispondente introduzione delle scritture private autenticate tra i titoli esecutivi.
Ciò detto, va annotata, per mero scrupolo di completezza e salvo quanto detto in ordine all’applicazione dell’intera normativa alle procedure in corso, la permanenza inalterata di tutte quelle porzioni di norme in cui si facultava l’intervenuto a promuovere atti esecutivi, laddove munito di titolo esecutivo.
Tale conservazione, infatti, laddove non avesse lo scopo di consentire l’applicazione della normativa novellata anche alle procedure in corso, avrebbe un limitato utilizzo alle sole ipotesi di creditore ipotecario o pignoratizio.
Il comma terzo del nuovo art. 499 c.p.c. ha introdotto la facoltà per il creditore pignorante, laddove vi siano interventori chirografari, di indicare ai medesimi – con atto notificato o all’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita o per l’assegnazione, l’esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili, e di invitarli ad estendere il pignoramento se sono muniti di titolo esecutivo, ovvero ad anticipare le spese per l’estensione. La conseguenza del mancato accoglimento dell’invito suddetto nel termine di trenta giorni è che il creditore ha diritto ad essere loro preferito in sede di distribuzione.
E’ stata, dunque, inserita una ipotesi di graduazione tra creditori tutti chirografari (atteso che se il pignorante fosse anche ipotecario o titolare di un diritto di prelazione in ogni caso avrebbe diritto ad essere soddisfatto a preferenza rispetto ai chirografari) legata all’inerzia dell’intervenuto munito di titolo esecutivo, il quale, pur avendone avuto la possibilità, non abbia esteso il pignoramento ad altri beni che avrebbero potuto rendere la procedura capiente.
La norma riproduce il contenuto di quella di cui all’art. 527 c.p.c. in tema di espropriazione mobiliare, con la sola particolarità che trattandosi di norma inserita nelle disposizioni sull’espropriazione in generale, ora il meccanismo trova applicazione a tutte le ipotesi espropriative, anche a quella immobiliare, con tutte le considerazioni che questo comporta e che sono state illustrate in sede di commento al novellato art. 492 commi secondo, terzo, quarto e quinto c.p.c..
Appare evidente, anche in questo caso, come la norma abbia una portata più teorica che pratica, in quanto di norma avviene che il creditore pignori comunque tutto ciò che sia riconducibile al debitore, risultando quanto meno rischioso lasciare fuori dal pignoramento alcuni beni ed il riservarsi la facoltà di invitare i chirografari intervenuti eventuali all’estensione.
Sicuramente più significativa è l’annotazione della norma in questione sotto il profilo della entrata in vigore. Infatti, si precisa che l’onere di estendere il pignoramento, pena il diritto del pignorante ad essere loro preferito in sede di distribuzione, grava sui creditori chirografari muniti di titolo esecutivo; se, però, per la nuova formulazione dell’art. 499 c.p.c. i creditori intervenuti debbono essere muniti di titolo esecutivo, ad eccezione degli ipotecari e dei titolari di altri diritti di prelazione, che, quindi, non sono chirografari, e dei sequestratari, ne consegue che la norma troverebbe applicazione nei confronti dei soli sequestratari, muniti della sola misura cautelare (ché se avessero attenuto sentenza anche di primo grado si sarebbero convertiti in pignoranti).
Pertanto, laddove si ritenesse applicabile l’art. 499 co. 3 c.p.c. alle sole procedure “nuove”, è stato osservato, esso avrebbe una ben limitata portata, e peraltro, il legislatore lo avrebbe detto espressamente; di modo che l’interpretazione che consenta di attribuire un senso compiuto alla norma sarebbe quella di considerare l’art. 499 co. 3 c.p.c. applicabile alle procedure in corso, nelle quali l’intervento era ben possibile anche senza titolo esecutivo.
Quanto al momento che segna lo spartiacque tra l’intervento tempestivo e quello tardivo, esso è rimasto legato alla prima udienza fissata per i provvedimenti sulla vendita o sull’assegnazione (qui si richiamano le considerazioni illustrate a proposito dell’interpretazione di “udienza fissata per i provvedimenti sulla vendita” non afferenti specificamente alla novella), con la sola precisazione che tale termine viene arretrato al momento della presentazione del ricorso per l’assegnazione o la vendita di cui all’art. 529 c.p.c. nel caso in cui il valore dei beni pignorati non superi il valore di Euro Ventimila, mentre in precedenza il limite era fissato in Lire dieci milioni.
Si tratta di modificazione non sostanziale in quanto adegua la facoltà alla realtà del mercato attuale ed evidentemente si riferisce alla sola espropriazione mobiliare.
Mere modifiche di coordinamento, non abbisognevoli di particolari commenti sono quelle che attingono gli artt. 526, 527  (abrogato in quanto assorbito dal successivo art. 528) e 528 c.p.c.


5. RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE.


Uno dei segmenti nei quali maggiormente è intervenuto il legislatore della riforma è stata la fase di distribuzione del ricavato sia per quel che riguarda l’art. 510 che per l’art. 512 c.p.c.
Quanto al primo, occorre dire che, lasciando immutato il meccanismo dell’assegnazione dell’intera somma ricavata dall’espropriazione all’unico creditore (sempre sentito il debitore) ed in alternativa quello della predisposizione di un progetto di graduazione tra i diversi creditori, avuto riguardo alle cause legittime di prelazione, la novella ha introdotto la “necessità” di un accantonamento delle somme che spetterebbero ai creditori sequestratari, pignoratizi ed ipotecari privi di titolo esecutivo.
La norma rappresenta la inevitabile conseguenza dell’introduzione dell’onere in capo al creditore intervenuto di munirsi o di un titolo esecutivo – che comporta evidentemente la partecipazione a pieno titolo ed in prima battuta alla distribuzione del ricavato – ovvero di una misura cautelare del sequestro o ancora di un titolo di prelazione.
Come già accennato in precedenza, il maggiore rigore formale imposto nell’ammissione dei creditori alla procedura esecutiva risulta mitigato (e probabilmente inficiato) da una maggiore elasticità in termini di certezza del diritto di credito; infatti, ammettere il sequestratario, senza però richiedere che il suo credito sia certo, liquido ed esigibile (si ricordi l’abrogazione dell’art. 563 e del primo comma dell’art. 525 c.p.c.) sconta la sua debolezza in sede di distribuzione.
Infatti, non sarà possibile assegnare al creditore una somma il cui diritto alla riscossione non sia stato accertato e dall’altra parte non sarà neppure possibile rigettare la richiesta di partecipazione alla distribuzione una volta che legittimamente e sulla scorta di un titolo previsto dalla legge è stato ammesso l’intervento.
Per risolvere l’incongruenza, quindi, il legislatore ha pensato bene di prevedere “l’accantonamento delle somme”, in attesa che il diritto di credito soltanto potenziale diventi effettivo.
A parte i problemi di diritto intertemporale legati al fatto che in passato non si richiedeva per la partecipazione alla distribuzione il possesso del titolo esecutivo, maggiore imbarazzo crea il limite temporale dell’accantonamento; limite che manca.
Ci si chiede, infatti, sino a quando le somme devono rimanere accantonate. Verrebbe da pensare che ciò debba avvenire almeno sino a quando il creditore non si munisca di titolo esecutivo; tuttavia, a prescindere dalla questione se anche le contestazioni al progetto di distribuzione relative alle somme accantonate debbano essere sollevate necessariamente  nel momento in cui si discute il progetto, ovvero se possano essere formulate nel momento in cui esse vengono richieste dal creditore munitosi di titolo esecutivo, e se possano avere ad oggetto questioni attinenti proprio al titolo; in ogni caso, sembra veramente poco plausibile che la procedura possa rimanere in piedi per un tempo sostanzialmente indeterminato (si pensi alle ipotesi di ipoteca rinnovata, ovvero di sequestri legati a procedimenti di cognizione di durata magari decennale) in attesa della formazione del titolo esecutivo. La questione, allo stato, non può che rimanere aperta.
A risposta dei dubbi sin qui formulati, il progetto di legge già molte volte citato, dopo aver precisato che l’accantonamento delle somme può aver luogo soltanto su richiesta della parte, ha previsto che “l’accantonamento è disposto dal giudice dell’esecuzione per il tempo ritenuto necessario perché i predetti creditori possano munirsi di titolo esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di tempo non superiore a tre anni. Su istanza di uno dei predetti creditori, qualora lo stesso si sia munito di titolo esecutivo, ovvero decorso il termine di tre anni, su istanza di ciascuna delle parti o anche d’ufficio, il giudice dispone la comparizione davanti a sé del debitore, del creditore procedente e dei creditori intervenuti con l’eccezione di coloro che siano stati integralmente soddisfatti, e dà luogo alla distribuzione, anche parziale, della somma accantonata”. L’integrazione risolverebbe i problemi di indeterminatezza del termine di accantonamento, suggerendo sostanzialmente una nuova distribuzione, seppure limitatamente ai creditori non integralmente soddisfatti, nell’ambito della quale è difficile non immaginare la possibilità di contestazioni ex art. 512 c.p.c.; al tempo stesso la nuova norma lascerebbe alla futura interpretazione altre questioni aperte : ad es. se i creditori non integralmente soddisfatti che devono essere convocati dinanzi al G.Es. possano essere coinvolti nella nuova distribuzione anche nel senso di vedere ridotta la somma loro assegnata, rimanendo, a questo punto, costretti (solo perché non integralmente soddisfatti) a non percepire alcunché sino alla definitiva approvazione, ovvero se essi debbano essere coinvolti solo per eventuale ulteriore assegnazione in loro favore.
Quanto all’art. 512 c.p.c., esso presenta le maggiori innovazioni.
Brevemente, il quadro previgente : all’udienza fissata dal giudice dell’esecuzione per la discussione del progetto di distribuzione, proposto dallo stesso G.Es., il debitore o taluno dei creditori procedenti o intervenuti avevano la possibilità di contestare : a) la sussistenza di uno o più crediti; b) l’ammontare di uno o più crediti; c) la sussistenza di diritti di prelazione. In caso di contestazioni il giudice provvedeva all’istruzione della causa, il che significava, nella prassi quotidiana, decidere preliminarmente ed in sede esecutiva se limitare la sospensione ex lege a parte del progetto, distribuendo le somme non contestate e, quindi, rimettere le parti dinanzi a sé (ovvero ad altro magistrato, previo passaggio tramite il Presidente del Tribunale per l’assegnazione) per il merito della controversia che, attraversando tutte le fasi previste dalla cognizione piena avrebbe condotto ad una sentenza di merito.
Tale costruzione, a mio parere, presupponeva che la contestazione si configurasse come vera e propria opposizione all’esecuzione avendo ad oggetto non soltanto il diritto ad agire in via esecutiva ma addirittura il diritto di credito stesso, e non essendo vincolata ad alcun termine decadenziale, ma soltanto alla approvazione definitiva del progetto, e che il giudice dell’esecuzione nel suo progetto valutasse ed accertasse i singoli crediti vantati dalle parti.
Con la novella in commento il legislatore, mantenendo ferme le ipotesi di contestazioni, ha ritenuto di snellire la procedura, prevedendo che il giudice, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti, provveda con ordinanza. E qui mi fermo; per evidenziare in primo luogo come, probabilmente si è ritenuto, da parte del legislatore, del tutto superflua la procedura ex art. 512 previgente che conduceva addirittura ad una sentenza e sicuramente troppo lunga, a fronte di una espropriazione nella quale procedente ed intervenuti sono tutti muniti di titolo esecutivo.
In altre parole, immaginando la voluntas legislatoris, si sarà detto : se tutti gli intervenuti devono avere il titolo esecutivo e per quelli che non l’hanno c’è l’accantonamento, quali questioni potranno mai sorgere tali da giustificare un giudizio a cognizione piena? Non ha considerato, probabilmente il legislatore che, a parte la possibilità di formulare contestazioni già in ordine ai cc.dd. accantonamenti, in ogni caso, la presenza del titolo esecutivo non è affatto indice di certezza del diritto di credito : e ciò soprattutto alla luce del nuovo art. 474 c.p.c. che introduce tra i titoli le scritture private autenticate.
In altre parole, da una parte si trasporta – come già evidenziato in precedenza – in sede di espropriazione una buona parte del contenzioso per l’accertamento stesso del diritto di credito, originariamente riservato alla cognizione piena ed ordinaria, e dall’altra si tronca sostanzialmente ogni possibilità di accertamento pieno in sede di distribuzione del ricavato.
Di modo che, il debitore che intenda contestare l’esistenza o l’ammontare del credito deve affrettarsi a farlo a mezzo di una opposizione all’esecuzione nel corso della procedura espropriativa, perché giunto alla fase della distribuzione, sebbene formalmente sia abilitato a contestare l’esistenza del credito, si troverà di fronte ad un procedimento che non garantisce alcuna certezza, essendo affidato ad una istruttoria altamente sommaria e ad una decisione con ordinanza.
In questo ambito si innesta la problematica di che cosa il giudice possa fare in occasione di una contestazione sollevata al progetto di distribuzione, al fine di decidere la contestazione medesima con l’ordinanza di cui allo stesso articolo novellato.
In particolare, viene da chiedersi se i “necessari accertamenti” indicati dalla norma possano comprendere una attività istruttoria vera e propria (così come si era andata delineando nella prassi e nella giurisprudenza dei vari Tribunali e come, peraltro, prevedeva il previgente art. 512 con il richiamo all’istruzione della causa) ovvero se debbano limitarsi ad una istruzione sommaria, magari con  accertamenti d’ufficio anche estranei alle prove tipiche.
In verità, è possibile sfruttare la giurisprudenza formatasi in materia di procedimento cautelare uniforme – laddove pure si parla di sommarie informazioni in sede di decreto inaudita altera parte e di atti di istruzione “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, e per la quale nessuno ha mai dubitato che sostanzialmente le attività di istruzione siano quelle previste dal codice di rito per la cognizione ordinaria, rese più snelle dalla eliminazione del rigore formale (si pensi all’articolazione dei capitoli di prova per la i testimoni) e che, comunque, siano compatibili con le esigenze di urgenze insite nel procedimento cautelare – .
Se non che, a differenza del procedimento cautelare uniforme, nella fattispecie in esame non si tratta di assumere decisioni di carattere urgente, lasciando all’inevitabile fase di merito (necessaria almeno per le ipotesi non contemplate nel nuovo art. 669 octies c.p.c.) la cognizione piena, ma addirittura di decidere controversie tendenti addirittura all’accertamento di un credito – magari implicante complesse questioni di fatto e di diritto – ad esito di una istruttoria inevitabilmente sommaria.
E ciò a prescindere dal limitato valore di giudicato riconducibile all’ordinanza finale.
Ugualmente dubbia è la scansione degli accertamenti in questione, nel senso che non viene specificato entro quale termine debbano essere formulate le richieste di prova, se vi siano delle preclusioni analoghe a quelle previste per la cognizione ordinaria; tuttavia è presumibile che il legislatore abbia lasciato al giudice il compito di organizzare le attività processuali fissando termini entro i quali formulare le proprie richieste – sempre compatibilmente con la natura espressamente sommaria della procedura -.
L’impressione è che il legislatore anziché risolvere le questioni che si erano poste sotto la vigenza del vecchio 512 c.p.c., quali la necessità o meno dello ius postulandi per la formulazione della contestazione da parte del debitore, la necessità o meno di un apposito ricorso scritto da depositarsi separatamente, la fase di passaggio tra il giudice dell’esecuzione e quella del merito (con la problematica legata all’iscrizione della causa a ruolo del tutto trascurata dal legislatore del codice e variamente risolta nella prassi giudiziaria), abbia ritenuto di fare piazza pulita delle stesse questioni eliminandole in radice attraverso la soppressione del giudizio a cognizione piena conseguente alla contestazione ex art. 512 c.p.c. e sostituendolo con l’agile strumento dell’ordinanza emessa, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti.
La soluzione sarebbe condivisibile laddove effettivamente il giudizio di cognizione si fosse rivelato nella pratica un’inutile, dispendiosa e lunga appendice; tuttavia, tenuto conto che è opinione diffusa, e da me pienamente condivisa, siccome aderente al dettato normativo,  che la contestazione ex art. 512 c.p.c. non riguarda una mera irregolarità dell’atto o un aspetto marginale e formale, bensì l’accertamento stesso del credito – il che assume un significato molto più pregnante con la novella alla luce delle presumibili controversie relative agli interventi avvenuti sulla scorta di titoli esecutivi meno “forti” come le scritture private autenticate – ridurre la fase dell’accertamento al semplice ascolto delle parti e a sommari accertamenti e soprattutto privare la parte opponente della possibilità di ottenere una pronuncia giudiziale suscettibile di passaggio in giudicato non sembra scelta allo stato condivisibile.
Per mero scrupolo di completezza si vuole evidenziare che era già prassi del Tribunale di Trani, o comunque, del sottoscritto, provvedere, a seguito di contestazione in sede di distribuzione, laddove la contestazione si fosse ridotta ad una mera correzione formale o ad una limitata rivalutazione delle somme indicate nell’atto,  una correzione del progetto da sottoporre nuovamente alle parti.
La soluzione adottata ha il pregio di evitare laddove possibile, la fase di merito per controversie chiaramente di limitato contenuto, mentre nel caso di reiterata contestazione ovvero di controversia tra le parti sul punto, l’accertamento pieno con sentenza non può essere negato.
Nella stessa ottica, a mio parere, va letta l’ultima parte del comma primo dell’art. 512 c.p.c. novellato, lì dove si prevede che avverso l’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione ai sensi dello stesso comma, è possibile il ricorso ai sensi dell’art. 617 c.p.c.
A prescindere dalla superfluità della annotazione, dal momento che per regola generale tutti gli atti di esecuzione possono essere impugnati ai sensi del secondo comma dell’art. 617 c.p.c., sicché non si vede perché l’ordinanza ex art. 512 c.p.c. non avrebbe dovuto esserlo, tuttavia ciò che sorprende è soprattutto il richiamo proprio all’art. 617 comma secondo.
Infatti, come noto, nell’opposizione richiamata è possibile censurare singoli atti di esecuzione per questioni relative alla regolarità formale degli atti medesimi; ne consegue la necessità di immaginare quali possano essere i limiti dell’opposizione all’ordinanza ex art. 512 c.p.c.. Stando alla lettera della norma dovrebbero limitarsi alla sola regolarità formale dell’atto; ben scarsa consolazione per il debitore o il creditore che dopo avere ottenuto, a fronte di una contestazione concernente la sussistenza stessa del credito, una mera ordinanza seguita ad istruzione sommaria, può, al più, contestare la regolarità formale dell’atto senza chiedere al giudice dell’esecuzione la revisione del proprio precedente deliberato.
Anche laddove si volesse utilizzare la giurisprudenza e l’elaborazione dottrinale che ha condotto a ritenere utilizzabile lo strumento dell’art. 617 c.p.c. anche per una revisione nel merito dei provvedimenti impugnati, come ad es. nel caso di opposizione avverso il rigetto o l’accoglimento dell’istanza di sospensione ex art. 624 c.p.c., in ogni caso la posizione del proponente la contestazione sarebbe monca in quanto la sentenza emessa a seguito di opposizione ex art. 617 c.p.c. non sarebbe impugnabile.
Ne conseguirebbe una incongruenza tra la natura sostanziale di opposizione all’esecuzione e l’inappellabilità della sentenza relativa.
Quale ultima annotazione sull’argomento va detto che è stato modificato anche l’ultimo comma dell’art. 512 c.p.c. prevedendo attualmente che “il giudice può, anche con l’ordinanza di cui al primo comma, sospendere, in tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata”. La nuova formulazione va posta il relazione all’abrogazione del secondo comma dell’art. 624 c.p.c. che prevedeva l’automatica sospensione totale o parziale della distribuzione della somma ricavata; per cui lo stesso art. 512 cp.c. all’ultimo comma prevedeva che il giudice, se non sospendeva totalmente, ma soltanto parzialmente, provvedeva alla distribuzione della somma contestata.
Pertanto, in passato, la norma imponeva che la distribuzione fosse sempre sospesa, a meno che non vi fossero delle singole posizioni di credito insensibili alla contestazione, che giustificassero una sospensione solo parziale, con la efficacia del progetto nei limiti delle somme non  contestate.
La nuova formulazione sembrerebbe alludere, mediante l’uso del verbo “può”, ad una  facoltà del giudice dell’esecuzione di sospendere in tutto o in parte il progetto di distribuzione, anche con l’ordinanza di cui all’art. 512 c.p.c.; di tal che il giudice potrebbe anche non sospendere la distribuzione e provvedere all’assegnazione delle  somme anche in presenza di una contestazione ed anche per gli importi contestati.
Per la verità, la novità in parola appare giustificata dal fatto che mentre in passato alla fase della contestazione dinanzi al G.Es. seguiva l’istruzione della causa, sicché diventava inevitabile la sospensione (salva una sospensione parziale per le ragioni già dette), adesso la sospensione automatica non è più giustificata, chiudendosi la contestazione proprio con l’ordinanza che dovrebbe decidere la contestazione medesima.
Dall’altro lato, però, se si può comprendere l’esigenza che il giudice dell’esecuzione disponga a sua discrezione (e, deve presumersi, sulla scorta di una sorta di fumus boni iuris della contestazione) la sospensione della distribuzione in pendenza della contestazione medesima e prima e al di fuori della ordinanza ex art. 512 c.p.c. (come si deduce dall’espressione “anche con l’ordinanza di cui al primo comma”) non si comprende il significato della possibilità di sospendere la distribuzione con l’ordinanza ex 512 c.p.c. dal momento che, chiusa la contestazione, il giudice non deve fare altro che dichiarare esecutivo il progetto – accolta o rigettata la contestazione che sia – e tenuto conto che con l’eventuale opposizione ex art. 617 c.p.c. all’ordinanza di cui all’art. 512 c.p.c. è possibile chiedere la sospensione dell’esecuzione e, quindi, del progetto di distribuzione, sia pure nelle forme dei “provvedimenti opportuni” di cui all’art. 618 c.p.c.
Da segnalare, infine, che l’ordinanza di sospensione parziale o totale della distribuzione, essendo non più obbligatoria, ma facoltativa per il giudice è reclamabile nelle forme dell’art. 669 terdecies c.p.c, esistendo il richiamo espresso dell’ultimo comma dell’art. 624 c.p.c.


6. CONCLUSIONI


A titolo di conclusione, mi preme sottolineare che non esistono allo stato delle conclusioni. Non si tratta di un gioco di parole ma della ovvia considerazione che una riforma come quella brevemente illustrata – in ordine a taluni specifici punti -, talmente innovativa del processo esecutivo può essere valutata soltanto dopo la verifica dei fatti e cioè dopo una applicazione consolidata che consenta all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale di fare il suo lavoro e cioè di interpretare le leggi; opera tanto più necessaria in un caso in cui la nuova normativa si innesta in un più ampio quadro codicistico del quale non si possono ignorare le dinamiche interne formatesi a seguito di decennale applicazione.
E ciò senza dimenticare la possibilità, ormai vera probabilità, se non incerta solo nel quando, di ulteriori interventi “chiarificatori” da parte del legislatore, addirittura prima ancora della sua entrata in vigore.


Dott. Alberto Binetti