REPUBBLICA ITALIANA 
TRIBUNALE DI TRANI


UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
IL GIP


Letta la richiesta di archiviazione presentata dal P.M. nei confronti dei dott.ri Fazio Antonio, Governatore della Banca d’Italia e Spaventa Luigi, già presidente della CONSOB;
Letti gli atti del procedimento;
Udite le parti nella camera di consiglio sorta a seguito della opposizione alla richiesta di archiviazione;


Premesso


In via assolutamente preliminare va sgomberato il campo dalle eco di alcune note polemiche sollevate dalle parti nel corso del procedimento.
Innanzitutto va osservato che la iscrizione dei dott.ri Fazio e Spaventa nel registro degli indagati ad opera del P.M. procedente è stato atto assolutamente doveroso ed ineludibile alla luce del principio della obbligatorietà dell’azione penale, nel momento in cui alcune parti offese hanno presentato alla locale Procura della Repubblica diverse, dettagliate e nominative querele nei confronti degli odierni indagati. Il doveroso esercizio del potere di indagine su ipotesi di reato dettagliate e non palesemente infondate, non può essere condizionato da fattori esterni alla giurisdizione quali le scadenze elettorali o i mercati finanziari.
Ragionando contrariamente si porrebbe il magistrato non solo sotto la soggezione della legge, come imposto dalla Costituzione, ma anche di una serie di considerazioni metagiuridiche soggettivamente valutabili, con conseguente vulnus alla tenuta dello stato di diritto e conseguente creazione di sacche di ingiustificato privilegio.
Non va mai dimenticato che “tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge”, e non si tratta di una affermazione programmatica o propagandistica ma dell’essenza stessa della democrazia.
Altrettanto infondate sono le perplessità evidenziate dall’avv. S., patrono di parte civile, nel corso dell’udienza in camera di consiglio, circa la regolarità di alcune scelte processuali del P.M.. Questo Giudice non può non sottolineare che le scelte del P.M. appaiono essere state esercitate nell’ambito delle facoltà procedimentali ad esso conferite dall’ordinamento. Per tanto, le circostanze di fatto evidenziate circa stralci, comunicazioni via fax e quant’altro  evidenziato dalla parte civile nelle memorie difensive e nel verbale di udienza, attinge unicamente la sfera della illazione senza maturare mai in una seria censura processuale.
Quanto alle scelte del P.M., quando non sono state condivise da questo G.I.P., come nel caso della mancata notifica ai querelanti della richiesta di archiviazione per Fazio e Spaventa, questo Giudice, nell’ambito delle facoltà accordategli dal codice è intervenuto con una necessaria attività di ortopedia processuale. Sicché nessun danno al diritto di difesa delle p.p.o.o. è  dato di riscontrare allo stato attuale del procedimento.
Infine, per quanto riguarda la ammissibilità della memoria presentata dal P.M. in udienza, va osservato che la stessa appare tardivamente presentata, dal momento che l’art 127 c.p.p. dispone che le memorie possono essere presentate fino a cinque giorni prima della camera di consiglio. Sicché va dichiarata inammissibile e ne va ordinata la restituzione al P.M. procedente.


Rilevato


Capitolo I
Sulla ipotizzata truffa contrattuale
§1.1


Le indagini, sorte a seguito di svariate querele di clienti della Banca 121 (ex Banca del Salento oggi incorporata nella Monte dei Paschi di Siena), hanno avuto ad oggetto l’esame di un prodotto finanziario denominato BTP TEL e di prodotti similari quali il BOT Reverse BOT Equity BTP-INDEX  BTP-ONLINE a seguito di numerose querele pervenute presso la locale procura della Repubblica.
Le indagini hanno consentito  l’acquisizione di informazioni e documentazione utili alla comprensione degli elementi tecnici e risvolti finanziari che caratterizzano un “contratto di vendita di opzioni put” che, complementare e collegato funzionalmente all’acquisto di “BTP-1/1/2004”, formalizza l’investimento nel prodotto finanziario denominato “BTP–TEL” proposto dalla Banca 121”, nonché l’esame degli altri prodotti suddetti.
Dalle informazioni acquisite è stato possibile ricostruire  le caratteristiche del “BTP-TEL 1/1/2004” e degli altri prodotti equipollenti.
Si premette che oggetto della richiesta di sequestro preventivo e dell’esame delle consulenze in atti sono oltre che il BTP-TEL anche altri prodotti dalla struttura identica denominati BTP-INDEX e BTP-ONLINE, che risultano ancora in essere avendo scadenze successive al dicembre 2003. Con riferimento, invece, ai prodotti analoghi BOT Riverse e altri con sigle iniziali BOT e CTZ ormai la Banca ha già operato l’addebito a seguito dell’esercizio dell’opzione put e, quindi, risultano ormai estinti.
L’esigenza cautelare va perciò circoscritta ai contratti in scadenza. Per comodità descrittiva si parlerà del BTP-TEL ma analogo discorso riguarderà il BTP-INDEX e il BTP-ONLINE rispettivamente con scadenza all’01/8/04 ed all’01/07/2006. 
Il contratto relativo all’investimento denominato “BTP-TEL” è caratterizzato dalla coesistenza di due singole operazioni costituenti  due diversi contratti di compravendita di strumenti finanziari:
a. Il primo denominato conferimento di ordine di negoziazione di strumenti finanziari: con tale contratto il cliente acquista, per un valore multiplo di € 4.000 nominali, BTP 1° gennaio 2004 – ISIN (omissis), dalla Banca del Salento. Il fissato bollato consegnato al cliente riporta la dicitura “la Banca del Salento vende al nominativo sopra indicato i seguenti titoli …etc.” ;
b. il secondo denominato proposta di contratto di vendita di opzioni put collegate all’andamento dei corsi sui titoli azionari: con tale contratto il cliente vende alla Banca del Salento un tot di “opzioni put” (una ogni multiplo di € 4.000 nominali di BTP acquistati) collegate all’andamento dei corsi sui seguenti titoli azionari: ASML – KPN – PHILIPS (sulla Borsa di Amsterdam); TIM (sulla Borsa di Milano); ALCATEL (sulla Borsa di Parigi). Il fissato bollato consegnato al cliente riporta la dicitura “la Banca del Salento acquista dal nominativo sopra indicato i seguenti titoli …etc.” ;
Il BTP 1° gennaio 2004 è un Buono del Tesoro Poliennale con durata decennale (1.1.1994 / 1.1.2004), con cedola semestrale fissa posticipata, produttivo di interesse lordo annuale pari all’8,5%. L’acquisto da parte del cliente non è avvenuto in sede d’asta. 
L’ “opzione” è uno strumento finanziario “derivato” (1). Un “derivato” è così denominato in quanto il proprio valore deriva dal valore di una attività sottostante, reale (una merce) o finanziaria (tassi di interesse, valute, titoli di stato, indici di borsa, azioni).
Nel mercato finanziario, l’opzione put è un contratto che nella sua forma più semplice consiste nella cessione da parte di un venditore (writer: nello specifico è il cliente della banca che come tale riceve in contropartita un corrispettivo denominato premio) a un acquirente (buyer: nello specifico è la banca del Salento) del diritto (ma non obbligo) di vendere una data quantità di un certo strumento finanziario a un prezzo prefissato (prezzo d’esercizio o strike price) entro una certa data futura (opzione americana) o allo scadere di essa (opzione europea).
Le opzioni put oggetto dell’indagine rientrerebbero tra quelle di tipo europeo, come esplicitamente indicato all’art. 1 “Obblighi delle parti contraenti” del contratto di opzione in questione.
Come compenso del diritto di opzione, il compratore (nel nostro caso la Banca del Salento) paga al venditore (il cliente della banca) un premio che rappresenta il prezzo dell’opzione.
Semplicemente, l’opzione put è il contratto che conferisce all’acquirente (nel nostro caso la Banca del Salento) il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un bene a una scadenza (oppure entro una scadenza) e a un prezzo prefissato.
Così facendo, l’ acquirente del diritto (la banca) limita i rischi dell’investimento al solo ammontare del premio pagato, mentre il cedente del diritto (il cliente della banca) si espone a rischi potenzialmente illimitati. Di contro, mentre per il cedente del diritto il guadagno è limitato al premio percepito, per l’acquirente del diritto il guadagno massimo potrebbe coincidere con l’intero controvalore del contratto diminuito del premio pagato.
L’investimento in BTP-TEL è diverso da quello in normali titoli di Stato: esso, infatti, a differenza di un investimento “puro” in titoli di Stato, non garantisce – in caso di detenzione del titolo fino a scadenza – il conseguimento di un rendimento certo e predeterminato. Il differenziale di rendimento che il BTP TEL consente di realizzare rispetto all’investimento in normali BTP è soggetto a potenziali riduzioni, anche rilevanti, in relazione alla presenza nel prodotto della componente derivata rappresentata dalla vendita delle opzioni put;
Il BTP TEL espone l’investitore all’agire di più fattori di rischio: infatti, questi, oltre a essere esposto al rischio di un cambiamento del valore in linea capitale dei BTP acquistati (caratteristico di qualsiasi investimento in obbligazioni) per effetto di variazioni dei tassi di interesse, assume il rischio di veder decurtato il valore corrente del proprio investimento a seguito di un aumento del valore delle opzioni vendute (che per l’investitore rappresentano una passività): Tale valore a sua volta dipende – come la teoria finanziaria indica – da molteplici fattori (livello dell’azione sottostante, volatilità del prezzo dell’azione medesima, livello dei tassi di interesse, tasso di dividendo, durata residua).
Il BTP TEL costituisce un prodotto particolarmente complesso: esso infatti consegue dalla combinazione di due diversi contratti di cui uno avente natura derivata. Tale complessità implica, nel caso di acquisto, maggiori difficoltà di valutazione da parte di un investitore non particolarmente esperto. Conseguentemente, dovranno essere adottate da parte della banca collocatrice procedure di vendita volte a selezionare adeguatamente la clientela cui offrire il prodotto e a informare correttamente i potenziali investitori dei rischi  che esso comporta.
L’esame dei fatti oggetto d’indagine ha consentito di ricostruire la cronologia delle fasi che caratterizzano l’investimento in questione. Infatti, con la sottoscrizione dei documenti sottoposti alla firma, in capo ai clienti venivano disposte le seguenti operazioni finanziarie:
n l’addebito  del prezzo di acquisto (in dare)  del Buono del Tesoro Poliennale scad. 01.01.2004 (per un controvalore corrispondente al valore nominale del BTP maggiorato del 13 o 14%);
n l’accredito del premio (in avere) relativo alla vendita dell’opzione put collegata all’andamento dei citati titoli azionari.
Alla scadenza dell’investimento si verificherà, contestualmente:
n l’accredito del valore nominale del BTP 1.1.2004;
n l’addebito dell’importo corrispondente alla differenza tra la quotazione dei 5 titoli presi a parametro rilevata al momento dell’investimento e la quotazione degli stessi titoli (medesime quantità, tipologia e borsa azionaria) rilevata alla data di chiusura dell’operazione (corrispondente alla somma di denaro costituita dal differenziale tra il “Corso Strike” ed il “Corso di Chiusura” moltiplicato per la quantità del titolo azionario di riferimento in ordine al/ai quale/i la Banca abbia deciso di esercitare l’opzione).
E’ opportuno evidenziare che:
n l’investimento in BTP-TEL 1/1/2004 non comporta l’acquisto e la successiva vendita dei titoli azionari sottostanti all’opzione put (cioè le azioni ASML, KPN, PHILIPS, TIM e ALCATEL non vengono né acquistate né vendute), tali titoli rappresentano solo un valore di riferimento per la successiva regolazione finanziaria;
n in termini schematici, se chiamiamo “P1” il valore complessivo dei titoli sottostanti all’opzione put rilevato alla sottoscrizione (come indicati nella “proposta di contratto di vendita opzioni put collegate all’andamento dei corsi u titoli azionari”) del BTP-TEL e “P2” il valore complessivo degli stessi titoli “rilevato alla data dei corsi di chiusura” , alla scadenza, prevista per l’01.01.2004, si potrà verificare che:






P2 > P1la Banca non avrebbe convenienza ad avvalersi del diritto contrattuale derivante dall’applicazione dell’opzione put ed il capitale nominale inizialmente investito dal cliente rimarrebbe inalterato;


oppure, che:







P2 < P1la Banca avrà convenienza ad avvalersi del diritto contrattuale derivante dall’applicazione dell’opzione put ed il capitale nominale inizialmente investito dal cliente verrebbe decurtato dell’importo corrispondente alla differenza tra i parametri P1 e P2;;


n con l’operazione sottoscritta, il cliente è in conflitto d’interessi con la Banca. Quest’ultima è contrattualmente la beneficiaria del corrispettivo decurtato alla scadenza dal capitale nominale investito inizialmente dal cliente, in ragione dell’applicazione dell’opzione put. Questo conflitto di interessi è illegale dal momento che la Banca in questo caso, ha agito formalmente come consulente ed assistente finanziario: in sostanza ha carpito di fatto una forma di finanziamento al proprio cliente scaricando sullo stesso il rischio di investimento azionari.


§ 1.2
Le sommarie informazioni assunte dalle p.p.o.o.


Tutto ciò è confermato dalle querele e dalla s.i.t. assunte.
Tra i mesi di novembre 1999 e marzo 2000, i clienti della Banca 121 che avevano investimenti in scadenza o, comunque, disponibilità finanziarie, furono “invogliati” (anche con telefonate a casa) ad investire in un prodotto finanziario denominato BTP – TEL, con scadenza nel gennaio del 2004, che avrebbe prodotto interessi nell’ordine dell’8,5% lordo annuo in cedole semestrali, nonché la restituzione del capitale investito o una perdita sul capitale investito che non avrebbe potuto superare la quota corrispondente agli interessi attivi già liquidati. A nessuno degli escussi è stata prospettata l’eventualità dell’integrale perdita del capitale investito  (2).   
Generalmente, in sede d’investimento, il funzionario di banca preposto faceva sottoscrivere al cliente, contestualmente, un “conferimento di ordine di negoziazione di strumenti finanziari” riportante nel riquadro relativo alla “descrizione strumenti finanziari” l’indicazione della dizione BTP-TEL e della quantità o valore nominale dell’investimento e una “proposta di contratto di vendita opzioni put collegate all’andamento dei corsi su titoli azionari” legato ad un paniere di nr. 5 titoli azionari del comparto telefonico quotati su varie borse europee.
Nella sostanza, con la sottoscrizione dei due separati documenti, l’investitore acquistava dalla banca un tot, multiplo di € 4.000, di “BTP 1/1/2004 – ISIN (omissis)” e, inconsapevolmente, a fronte della corresponsione di un premio (generalmente d’importo corrispondente al sovrapprezzo di acquisto dei “BTP 1/1/2004”, cioè tra il 13 ed il 14% del capitale investito), vendeva alla stessa banca una “opzione put”, diritto da applicare eventualmente dalla Banca alla scadenza del prodotto.
Nessuno degli investitori ascoltati ha dichiarato e/o dimostrato di essere stato a suo tempo informato sui reali rischi legati alla specifica tipologia del prodotto finanziario fatto loro sottoscrivere, cioè la possibilità nella peggiore delle ipotesi, di non veder restituito l’intero capitale investito. 
Nessuno degli stessi ha dichiarato di essersi presentato presso la sede bancaria di sottoscrizione per cedere alla banca un qualcosa, né ha dimostrato di essere consapevole di aver ceduto alla banca “un qualcosa” (opzioni put), né per detta cessione di aver incassato un premio. Tantomeno, i testi ascoltati hanno mostrato di essere a conoscenza dell’esistenza delle “opzioni put” e delle implicazioni legate all’acquisto o alla vendita delle stesse.
La gran parte dei testi ascoltati (querelanti o no), nel “lamentare i fatti”, hanno sottolineato l’ottimo rapporto di fiducia al tempo esistente con la banca, nonché una “buona” produttività di interessi (circa 8,50% lordo annuale) del prodotto all’epoca offerto dalla banca e l’assenza del rischio di “non restituzione di capitale” prospettato proprio dai funzionari di banca preposti; tutto ciò indusse la clientela ad investire rilevanti somme, col risultato di aver già subito un danno economico (qualora l’investimento sia già scaduto o sia stato chiuso anzitempo) o con la prospettiva, a prossima scadenza (gennaio 2004), di vedersi restituire una esigua parte del capitale iniziale.
A nessuna delle persone escusse è stata proposta, nel periodo d’indagine, altra tipologia d’investimento, quali anche il semplice acquisto di Buoni del Tesoro Poliennali.


§ 1.3
Sommarie informazioni testimoniali assunte dai dipendenti della “Banca 121”


Nel corsi dlle indagini sono state assunte s.i.t. anche da funzionari di banca.
(omissis)   
Emerge una quadro complessivo di vessazioni ed intimidazioni ai danni degli stessi dipendenti della Banca “121” assolutamente ripugnante ed antigiuridico in violazione non solo delle norme del lavoro, ma la cui rilevanza penale dovrà essere approfondita dalla Procura della Repubblica


§ 1.4
Natura giuridica della fattispecie contrattuale in esame e obblighi informativi


Ciò premesso la valutazione degli elementi strutturali della fattispecie contrattuale impone la verifica della normazione da applicarsi nel rapporto contrattuale qualificabile come vedremo nella categoria degli STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI e civilisticamente inquadrabili in una fattispecie contrattuale caratterizzata dalla combinazione e dal collegamento funzionale fra due contratti. Formalmente distinti ma strettamente interconnessi tale da costituire un’unica fattispecie negoziale.
Nel corso dell’attività investigativa non si è rilevata l’esistenza di alcun foglio informativo analitico e/o prospetto informativo relativo al prodotto denominato BTP-Tel. In merito, la Banca 121, nella persona del sig. S. G., ha motivato l’assenza di detti documenti, nei seguenti termini:
in ordine al Foglio Informativo Analitico del BTP TEL, vi specifichiamo che, trattandosi dell’acquisto da parte del cliente di un BTP e della vendita, da parte dello stesso, di un contratto d’opzione, l’attuale normativa non prevede che le due operazioni siano assistite da un F.I.A.”““.
Il principale scopo della regolamentazione nel campo dell’intermediazione finanziaria è di assicurare l’affidabilità delle informazioni fornite al cliente, garantendo la sostanzialità e l’accuratezza dei consigli all’investimento da questi ricevuti. I sistemi regolamentati si preoccupano di mitigare lo svantaggio informativo sopportato da investitori non sofisticati nella fruizione dei servizi prestati dagli intermediari finanziari. L’acquirente di servizi finanziari confida implicitamente che i soggetti sottoposti a vigilanza prudenziale stiano operando correttamente e professionalmente, cioè agiscano sulla base di un’expertise e di informazioni che a questi manca e non si avvantaggino di tale condizione.
Il livello di tutela fornito dalla normativa è legato a fattori vari, quali potrebbero essere la tipologia di attività messa in atto dall’intermediario e/o la tipologia di strumento finanziario. Occorre perciò conoscere la disciplina generale che trova le sue fonti di normazione nel T.U.F (testo unico dell’intermediazione finanziaria) e nel regolamento CONSOB.
I criteri generali in materia di informazione della clientela in materia di intermediazione finanziaria (con conseguente disciplina giuridica delle condotte negoziali di istituti di credito) ai quali devono far riferimento i soggetti abilitati nello svolgimento dei servizi sono dettati dall’art. 21 del T.U. dell’intermediazione finanziaria. Detta norma, infatti, testualmente recita:
1.Nella presentazione dei servizi di investimento e accessori  i soggetti abilitati devono:
a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati;
b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati;
c) organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza  ed equo trattamento;
d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi;
e) svolgere una gestione indipendente sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati.
2. Nello svolgimento dei servizi le imprese di investimento, le banche e le società di gestione del risparmio possono, previo consenso scritto, agire in nome proprio e per conto del cliente
.    
A rafforzare le predette regole intervengono le previsioni di cui agli artt. 26 e 28  del regolamento CONSOB 11522/98. Esse stabiliscono che gli intermediari autorizzati devono acquisire essi stessi una conoscenza degli strumenti finanziari adeguata al tipo di prestazione da fornire, e allo stesso tempo devono trasmettere in maniera chiara queste informazioni  agli investitori. 
Il D.Lgs. 58/98, nella Parte IV dedicata alla “Disciplina degli emittenti” – Titolo II “Appello  al  pubblico”,  con  l’art. 94  detta  gli  “Obblighi degli offerenti”  nel  caso  di “sollecitazione all’investimento” :


2Coloro che intendono effettuare una sollecitazione all’investimento ne danno preventiva comunicazione alla CONSOB, allegando il prospetto destinato alla pubblicazione.
3Il prospetto contiene le informazioni che a seconda delle caratteristiche dei prodotti finanziari e degli emittenti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria e sull’evoluzione dell’attività dell’emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti.
4. 4. 5. …omissis
Con provvedimento datato 30 luglio 1999, concernente la “Raccolta in titoli delle banche. Trasparenza”, il Governatore della Banca d’Italia, dettava le seguenti istruzioni:
Le istruzioni di vigilanza in materia di raccolta in titoli delle banche prevedono che per tutte le operazioni di raccolta (3)  le banche autorizzate in Italia e le banche comunitarie si attengono a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali (cfr. tit. V, cap. 3, sez. VI). In tale ambito viene, tra l’altro, richiesto che le banche, in ciascun locale aperto al pubblico, affiggano un avviso sintetico relativo alle condizioni praticate per le principali operazioni e mettano a disposizione fogli informativi analitici contenenti informazioni sulle operazioni medesime (cfr. tit. X, cap. 1, sez. II, par. 1). La maggiore complessità e diversificazione dei profili di rischio delle emissioni di titoli da parte delle banche pongono ora l’esigenza di un’informativa al pubblico più dettagliata, secondo schemi uniformi che facilitino il confronto tra le varie offerte.In relazione a ciò, si fa presente che i fogli informativi analitici relativi alle operazioni di raccolta che le banche effettuano mediante obbligazioni e altri titoli (cfr. tit. V, cap. 3, sezioni II e IV) devono contenere le informazioni indicate nello schema allegato. Tali fogli sono messi a disposizione della clientela presso i locali della banca emittente. Negli avvisi sintetici le banche danno notizia delle emissioni, rinviando ai fogli informativi analitici per una descrizione dettagliata delle caratteristiche e dei profili di rischio dei titoli. Gli avvisi sintetici devono altresì contenere l’indicazione che la banca consegna gratuitamente i fogli informativi medesimi a chiunque ne faccia richiesta. Le banche che pubblicizzano a mezzo stampa le informazioni indicate nello schema allegato possono utilizzare copia della relativa pagina a stampa quale foglio informativo analitico. Agli obblighi informativi di cui alle presenti disposizioni sono assoggettate anche le banche che collocano titoli di altre banche, italiane o estere. Ai fini dell’adempimento di tali obblighi, le banche che collocano i propri titoli avvalendosi della rete distributiva di altri soggetti forniscono tempestivamente a questi ultimi le informazioni da pubblicizzare, in conformità alle previsioni di cui sopra. Nel far riserva di recepire quanto prima nelle istruzioni di vigilanza le suddette disposizioni, si precisa che le medesime verranno pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e entreranno in vigore decorsi quindici giorni dalla data di pubblicazione”(f.to Fazio).
Ciò premesso occorre esaminare la natura giuridica del rapporto e la normativa, in termini di informazione alla clientela, applicabile nel caso di specie. A tal fine appaiono assolutamente rilevante gli esiti delle consulenze espletate nel corso delle indagini.
Ai consulenti si chiedeva di pronunziarsi, tra l’altro, sulla natura giuridica del prodotto denominato BTP-Tel e similari, nonché, in relazione all’accertata natura sostanziale del citato prodotto finanziario, sui relativi obblighi informativi.


a) il prof. F. M., nel corpo della consulenza depositata il 29.09.2003, scompone il BTP-Tel in due tipologie di contratti, collegati funzionalmente, con i quali la banca:


n da un canto acquista da un cliente – a fronte di un versamento di un premio in suo favore – l’opzione a vendergli una serie di titoli azionari, cosiddetti di riferimento;
n dall’altro canto, vende al medesimo cliente titoli di Stato.
 
Il collegamento funzionale tra i due contratti risiede nella destinazione impressa ai titoli di Stato in parola che depositati presso la banca, sono vincolati a garanzia del ricordato diritto di opzione della banca medesima, come si rileva all’art. 6, seconda alinea della “proposta di contratto”.
Quindi, l’operazione in BTP-Tel, come descritta, ripercorre lo schema ricorrente di una cosiddetta “opzione put”, per la cui vendita è prassi consolidata il “versamento di un deposito di garanzia” da parte del venditore medesimo, deposito destinato appunto a garantire l’adempimento dell’obbligo assunto da quest’ultimo con la sottoscrizione dell’opzione.
Detta garanzia è componente “naturale” dell’operazione laddove, come nel caso di specie, il rapporto fra acquirente dell’opzione ed il suo venditore è diretto e non compare un soggetto terzo (intermediario) che garantisce la solvibilità di quest’ultimo.
In conclusione, la garanzia costituita dai titoli di Stato è “strumentale” al diritto di opzione.  Emerge, infatti, un collegamento funzionale tra i due contratti nel quale il primo, quello relativo all’acquisto dei titoli di Stato rappresenta una garanzia per le operazioni speculative della banca che quindi riduce completamente il rischio sul mercato finanziario, trasferendo tale rischio in capo al cliente. Si tratta di un ipotesi di collegamento negoziale fra contratti funzionalmente interconnessi (interdipendenza bilaterale).
Di rimando, la prevalenza della componente opzionale inquadrerebbe il BTP-Tel e similari, tra i contratti di opzione di cui alla lettera i) del 2° comma dell’art. 1 del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.), quindi, in relazione alla natura finanziaria, tra gli STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI, di cui al terzo comma della predetta norma. Pertanto il consulente giunge alle seguenti conclusioni:
“Un’opzione put su azioni, come quella in esame, è dunque uno strumento finanziario derivato (art. 1, co. 3 del t.u.f.), accompagnato da un alto rischio di perdita, segnatamente per la parte venditrice che nella specie è il Cliente (vedi supra parr. 1 e 1.2): “la vendita di un’opzione comporta in generale l’assunzione di un rischio molto più elevato rispetto al suo acquisto”  (cfr. “parte B”, punto 2.2 del ricordato documento sui “rischi generali”, allegato n. 3 del regolamento Consob) (vedi supra par. 3.2)”.
L’acquirente dell’opzione in parola è d’altra parte la Banca, che opera in contropartita diretta con il Cliente, e quindi in conflitto di interessi con quest’ultimo.
La Banca è pertanto soggetta all’obbligo di “agire in modo tale da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento”, come specificamente previsto dal ricordato art. 21, lett. c del t.u.f.. 
In forza di tale disposizione il contratto di opzione put deve prima di tutto dare trasparenza all’esistenza stessa del conflitto di interessi: in particolare il testo contrattuale, contenuto in un modulo predisposto dalla Banca, deve “recare l’indicazione,  graficamente evidenziata, che l’operazione è in conflitto di interessi” (art. 27, co. 3 del regolamento Consob).
I contratti di opzione put,  laddove difettino di detta “indicazione graficamente evidenziata”, violano una precisa regola formale a presidio della trasparenza del conflitto di interessi.
In tale stato di mancanza di trasparenza è facile che il Cliente stipuli il contratto di opzione put sulla base di un errore essenziale e riconoscibile sull’identità della persona dell’altro contraente (art. 1429, n. 3 c.c.), e cioè la Banca.
L’art. 21, lett. b) del t.u.f. prevede che la Banca debba “(…) operare in modo tale che (i clienti) siano sempre adeguatamente informati”. In particolare, l’art. 28, co. 2° del regolamento Consob precisa che la Banca deve fornire al Cliente “informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento”.   A tal fine la Consob ha predisposto il ricordato “documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari” (all.to n. 3 al regolamento Consob), documento informativo che in forza  dell’art. 28, co. 1°, lett. b del regolamento Consob la Banca è tenuta a consegnare al Cliente.
La Banca, laddove – in spregio a quest’ultima disposizione – ometta di consegnare al Cliente detto documento informativo, viola la regola di condotta prevista dal riferito art. 21, lett. b t.u.f. e dall’art. 28, co. 2° del regolamento Consob: la conseguente mancanza di informazione del Cliente in ordine ai ricordati rischi connessi alla vendita di un’opzione put su azioni, può facilmente indurre il Cliente medesimo a stipulare l’opzione  sulla base di un errore essenziale e riconoscibile sull’oggetto del contratto (art. 1429, n. 1 c.c.).
In sinergia con l’obbligo di informare il Cliente, l’art. 21, lett. b t.u.f. pone in capo alla Banca l’obbligo di acquisire le informazioni necessarie dal Cliente medesimo. A tal fine  la Banca in forza dell’art. 28, lett. a) del ricordato regolamento Consob deve chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, la sua propensione al rischio.
Tale (obbligo di) acquisizione di informazioni – come già detto – è fra l’altro funzionale al rispetto da parte della Banca dell’obbligo di “astenersi dall’effettuare   con o per conto degli investitori operazioni non adeguate (a questi ultimi) per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione” (art. 29, co. 1° del regolamento Consob).
Laddove manchi l’acquisizione delle informazioni di cui all’art. 28, lett. a del ricordato regolamento Consob, segnatamente quella riguardante la propensione al rischio, è facile che la Banca  dia corso  ad un’operazione non adeguata al Cliente per tipologia ed oggetto, senza che il Cliente medesimo ne fosse consapevole: Cliente che così sarebbe caduto in errore essenziale e riconoscibile appunto sulla tipologia e sull’oggetto dell’opzione put su azioni (art. 1429, n. 1 e 2 c.c.).  
Riguardo alle denominazioni come  BTP – TEL, BOT- reverse attribuite agli strumenti finanziari in esame,  va ribadito che  esse possono risultare ingannevoli per l’investitore, in quanto acronimi come  BOT o BTP richiamano immediatamente i relativi titoli di stato (vedi supra par. 5). In particolare va ricordato che, secondo la nota tecnica di Banca d’Italia, i titoli correntemente definiti “reverse” assicurano il rimborso del capitale alla scadenza: così non è   per gli strumenti finanziari in esame  denominati “BOT reverse 2002” .
L’uso di siffatte denominazioni unitamente alla mancanza di informazioni in ordine a natura, rischi ed implicazioni di un’operazione finanziaria sofisticata come la vendita di un’opzione put  su azioni (cfr. art. 28, co. 2° del regolamento Consob, ed il documento sui rischi generali, “parte B”, punto 2.2), garantita da titoli di stato, può facilmente indurre l’investitore diverso dall’operatore qualificato (art. 31 del regolamento Consob) in errore essenziale e riconoscibile sull’oggetto del contratto e più in generale sul programma negoziale complessivamente inteso (art. 1428 c.c. e spec. art. 1429, punti 1 e 2 c.c.).
Altra questione è la rilevanza penale della condotta dei funzionari della Banca, su cui i documenti non sembrano offrire indicazioni “univoche”.  
Il dott. M. P., funzionario designato dalla Banca d’Italia per la  consulenza tecnica, nel corpo della relazione depositata il 24.10.2003, esaminatane la struttura contrattuale e finanziaria, fa rientrare il BTP-Tel tra quei prodotti finanziari complessi originati dalle banche, a prevalente contenuto opzionale, comunque diverso da quelli emettibili nell’ambito dell’ordinaria attività di raccolta e le cui caratteristiche sono tali da non comportare l’acquisizione delle azioni sottostanti da parte dell’investitore quand’anche il loro prezzo di mercato risulti inferiore a quello di strike.
In particolare, il dott. M. P. inquadra il BTP-Tel  nella definizione di STRUMENTO FINANZIARIO DERIVATO prevista dall’art. 1, comma 3, del Testo unico sulla finanza.  
Quindi, entrambe le consulenze concordano nel far rientrare contrattualmente e finanziariamente il BTP-Tel (e similari)  tra gli “strumenti finanziari derivati” di cui al comma 3 (4) dell’art. 1 del D.lgs. 58/98, in cui prevale la componente opzionale.
Inoltre, così come è stata contrattualmente “ideata e costruita”, l’operazione in BTP-Tel (e similari) :


n sarebbe esclusa dall’obbligo di emissione del foglio informativo analitico (ex  provvedimento Banca d’Italia del 30.07.1999), in quanto non inquadrabile tra le operazioni di raccolta del risparmio di cui all’art. 11 del D.Lgs. 385/93; infatti, perché sussista detta circostanza, è necessario che con l’operazione di raccolta si concretizzi per la banca “l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso”, quindi una situazione di indebitamento della banca nei confronti del cliente; ciò non si verifica nel BTP-Tel, perché la componente obbligazionaria – passività – è a carico dello Stato;  
 
n sarebbe esclusa dall’obbligo di emissione del prospetto informativo (ex art. 94 D.L.gs. 58/98) in quanto operazione non inquadrabile – a norma dell’art. 100, comma 1, lett. f), D.Lgs. 58/98 – tra quelle di sollecitazione all’investimento; infatti, poiché l’operazione in questione è a scadenza regolata per contanti e, quindi, non comporta l’acquisizione o la sottoscrizione di azioni, ovvero di prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazioni, non è soggetta all’obbligo del prospetto informativo;
 Il consulente però evidenzia che la circostanza che non siano stati comunicati i documenti informativi sia a tutela della trasparenza bancaria (foglio informativo analitico) che a tutela della disciplina in materia di sollecitazione all’investimento (il prospetto informativo) non significa che sussista una esimente in favore della banca. Invero la creazione di uno strumento atipico che sfugge a tali obblighi informativi potrebbe esso stesso rappresentare un mezzo elusivo circa le informazioni da dare alla clientela proprio utilizzando le maglie di una carenza dell’ordinamento dovuto allo scarso grado di complementarietà esistente tra le due discipline della trasparenza e delle operazioni finanziarie dei servizi di investimento. L’esistenza di un tale varco della normativa era ben presente alla banca offerente che ha utilizzato tale carenza normativa per giustificare con lettera dell’11.10.2002 indirizzata al GICO l’insussistenza di tali obblighi.
E, tuttavia, il consulente in questione conclude affermando che   tale constatazione, tuttavia, non esaurisce la materia degli obblighi informativi a carico della banca offerente il BTP TEL. Infatti, in quanto servizio di investimento, l’attività di commercializzazione del prodotto svolta dalla banca restava comunque soggetta alle prescrizioni del T.U.F. in tema di criteri generali di svolgimento dei servizi di investimento e della correlata normativa secondaria emanata dalla CONSOB. In particolare, alla luce di quanto previsto dall’art. 21 del T.U.F e dell’art. 28 del Regolamento CONSOB n. 11522/98, nel caso in esame sussistevano comunque a carico della Banca 121 specifici obblighi informativi nei confronti della clientela volti ad assicurare che la stessa fosse correttamente edotta circa le caratteristiche di rischiosità del prodotto. Inoltre la stessa Banca era tenuta a valutare l’adeguatezza del prodotto alle caratteristiche del cliente destinatario della proposta di investimento previo ottenimento da parte dello stesso di adeguate informazioni in ordine alla sua esperienza in campo finanziario e alla propensione al rischio.
Alle stesse conclusioni perviene il dott. C., nominato CTU in procedimento riunito ed originariamente pendente presso il P.M. dott. B. (pagg. 40 e 41 della relazione contenuta nel fascicolo riunito).
Così com’è stato l’ideato e costruito il BTP-Tel, cioè, formalmente, con l’ “abbinamento” di due diversi contratti :
a) con uno il cliente vende alla Banca un tot di “opzioni put” collegate all’andamento dei corsi su alcuni titoli azionari (paniere) ricevendo in contropartita un corrispettivo denominato premio;
b) con l’altro il cliente acquista dalla banca BTP 1° gennaio 2004 – ISIN (omissis), per un valore multiplo di € 4.000 nominali pagandolo con una maggiorazione del 13% circa, al fine fornire alla banca – acquirente dell’opzione put – la garanzia del potenziale debito scaturente a scadenza dall’applicazione del “diritto”.
Per le motivazioni evidenziate in precedenza, il BTP TEL non sarebbe assoggettabile né all’emissione del “prospetto informativo” né all’emissione del “foglio informativo analitico”. 
L’esclusione dagli obblighi predetti, però, non esime la banca dall’onere di comportarsi seguendo i canoni dettati dall’art. 21 del D.Lgs. 58/98, cioè:






n comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; 
n acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati;
n organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza  ed equo trattamento;
n disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi;
n svolgere una gestione indipendente sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati,


Vi è anche l’elusione della disciplina di cui all’art. 28 del Reg. CONSOB 115522/98:






n il comma 1° lettera b), impone nella contrattualistica in questione il DOCUMENTO SUI RISCHI GENERALI SUGLI INVESTIMENTI IN STRUMENTI FINANZIARI, che non va confuso con il prospetto informativo (art. 94 e 100 T.U.F. in materia di sollecitazione all’investimento) né con il foglio informativo analitico (in materia di trasparenza bancaria).

Come si evince dalla consulenza del prof. M. che ha anche analizzato la contrattualistica in esame, si rileva che in gran parte delle operazioni in questione mancherebbe il DOCUMENTO SUI RISCHI GENERALI SUGLI INVESTIMENTI IN STRUMENTI FINANZIARI ed in alcuni casi non risulta consegnata la cedola di tale documento ai clienti che assumono di aver sottoscritto in bianco la detta documentazione.
Il DOCUMENTO RELATIVO ALLA PROPENSIONE AL RISCHIO DEI CLIENTI (anch’esso da non confondersi con gli altri documenti informativi predetti) – art. 28, comma 1 lett. a) del Reg. CONSOB 11522/98 –, nella molteplicità e varietà di documenti sottoposti per la firma al cliente in sede di investimento, sarebbe stato fatto firmare in bianco al cliente e compilato “ad hoc”  per soddisfare le condizioni necessarie al superamento dei vincoli imposti a livello informatico per l’accettazione dei contratti altamente aleatori; quanto precede è emerso oltre che dalle dichiarazioni di alcuni testi/investitori che da quelle del sig. B. E. (Per l’inserimento al terminale di operazioni sia strutturate che di MY WAY il sistema richiedeva due condizioni necessarie e cioè la propensione al rischio che doveva essere alta e l’esperienza finanziaria; senza queste due condizioni il sistema non accettava l’inserimento dell’operazione. Tali condizioni non erano però discusse con il cliente al momento della sottoscrizione del contratto; per quanto mi risulta infatti la documentazione era spesso firmata in bianco compresa la scheda del profilo di rischio del cliente.);
Elusione dell’art. 27 comma 3° del Regolamento di attuazione del D.Lgs. 58/98 concernente la disciplina degli intermediari – adottato dalla CONSOB con  delibera nr. 11522 dell’1/7/98, la “proposta di contratto di vendita opzioni put collegate all’andamento dei corsi su titoli azionari” non riporta graficamente  evidenziato la dizione che “l’operazione è in conflitto di interessi”. Il consulente della Banca d’Italia, conformemente a quanto evidenziato dal prof. M., conclude a pag 54 della relazione che:
la conclusione raggiunta dal CTU nello svolgimento delle operazioni di vendita del BTP TEL è che la banca offerente il prodotto si trovava in una situazione di conflitto tra i propri interessi e quelli della clientela investitrice in una situazione di vulnerabilità del cliente non reso adeguatamente edotto dei rischi che l’operazione comportava esclusivamente nei suoi confronti. In tale contesto, infatti, si sono resi disponibili per la banca ampi spazi per l’esercizio di una funzione di consulenza incidentale che costituisce uno dei principali fattori in grado di originare conflittualità nei rapporti tra la banca e l’investitore”.
Come evidenzia altresì la consulenza del prof. M. ciò che perde il cliente guadagna la banca.
Ebbene nelle decine di querele assunte e di s.i.t. si evince chiaramente che nessuno dei clienti della Banca “121” è stato mai informato dei rischi che correva. (5)


Capitolo II
Sul concetto di contratto collegato


§2.1


La nozione di collegamento contrattuale si deve all’elaborazione della dottrina e della giurisprudenza, mancando nella disciplina del codice civile una previsione relativa all’impiego di più contratti in vista di uno scopo economico unitario.
Nel periodo tra le due guerre la dottrina italiana, sotto l’influsso di quella straniera, ed in modo particolare di quella tedesca, comincia a interessarsi di questo tema. Nel primo studio organico della materia (6) venivano fissati gli elementi necessari perché vi sia collegamento in senso tecnico.
Da subito la dottrina più avvertita è consapevole del fatto che tra le molteplici relazioni che possono insorgere tra i contratti, è quella che nasce per volontà delle parti in vista del perseguimento di un fine economico unitario, a sollevare problemi del tutto peculiari quanto alle sue conseguenze.
Alla dottrina fa eco la giurisprudenza la quale presto comincia a dare rilievo al collegamento negoziale. Individuare con sicurezza un leading case in questa materia non è, tuttavia, agevole, perché si tratta di una messa a fuoco progressiva.
Negli anni cinquanta la Corte di Cassazione inizia a mettere a fuoco le relazioni tra contratti distinti nell’ambito di operazioni economiche complesse (7)Ma in quegli anni più che al dato formale la Corte si dimostra attenta al carattere unitario dell’operazione economica posta in essere dalle parti (8).
Nella definizione dei contratti collegati vengono così in evidenza i due elementi che la dottrina aveva indicato, quello soggettivo (volontà delle parti) e quello oggettivo (scopo pratico unitario), in presenza dei quali il giudice deve dunque valutare nel suo complesso il comportamento delle parti ai fini dell’applicazione dei rimedi sinallagmatici, nella specie, dell’eccezione d’inadempimento.
La tecnica del collegamento trova applicazione solo in presenza di un nesso di natura funzionale che abbia la sua origine non nella legge, ma nella volontà delle parti. In altri termini, di collegamento in senso proprio si può parlare solo quando esso sia funzionale e volontario.
Funzionale, nel senso che è diretto ad influenzare non la nascita di uno dei due contratti, ma ad influire sul “funzionamento” del contratto, vale dire sullo svolgimento del rapporto; e volontario, nel senso che ha la sua origine nella volontà delle parti piuttosto che nella disciplina legale dei contratti. Il cosiddetto collegamento occasionale, quello genetico (come nel caso del contratto preliminare), e quello necessario (ad esempio i contratti accessori, quelli di garanzia), restano fuori dalla nozione tecnica di collegamento, ponendo problemi che vanno risolti altrimenti.
Oggi sembra essere definitivamente acquisito che il cosiddetto collegamento occasionale riguardi in realtà fattispecie di contratti strutturalmente e funzionalmente autonome, solo casualmente riunite dall’unità del documento che le contiene o da altre circostanze estrinseche (9).
Non essendo i contratti destinati a perseguire un’operazione economica unitaria, il legame estrinseco che li accomuna non è in grado di modificare le sorti e le vicende dei distinti contratti (Cass., 13 febbraio 1992, n. 1751).
La dottrina più recente, d’altra parte, è sempre più consapevole del fatto che problemi del tutto diversi si pongono nel caso del cosiddetto collegamento necessario ed in quello volontario. Solo, infatti, dove il collegamento sia frutto dell’autonomia privata dei contraenti potrà porsi un problema di apprezzamento delle conseguenze e degli effetti che il carattere unitario dell’operazione economica determina sui singoli contratti. Quando, invece, il collegamento sia posto da una norma di legge, è questa a stabilire che un contratto si pone come presupposto di validità ed efficacia dell’altro ed i problemi di interferenze reciproche andranno risolti mediante l’interpretazione delle norme di legge.
Il collegamento appare allora come strumento «atipico» per perseguire l’interesse delle parti ed il suo fondamento normativo risiede appunto nel riconoscimento dell’autonomia privata (art. 1322 c. c.), la quale, così come può dar vita a nuovi contratti non disciplinati dalla legge, può combinare tra loro più contratti distinti  (10).
L’autonomia privata, d’altra parte, non si esprime nel dar vita ad una fattispecie autonoma, una sorta di negozio di collegamento, che si aggiunga ai distinti contratti e li coordini verso lo scopo comune (11)
Essendo il collegamento espressione dell’autonomia privata, il suo accertamento nelle diverse fattispecie concrete è affidato al giudice il quale si avvarrà dei consueti strumenti ermeneutici. Si tratta perciò di un giudizio di fatto, insindacabile in Cassazione quando sia sorretto da adeguata motivazione (Cass., 2 settembre 1962, n. 2412)
La giurisprudenza meno recente si attesta su un indirizzo di tipo soggettivo, richiedendo la dimostrazione positiva della volontà dei contraenti diretta ad istituire un legame tra i contratti. Ne è un esempio significativo Cass., 22 luglio 1971 (12).
Soltanto due anni dopo la Corte dimostra di apprezzare in termini oggettivi il nesso di collegamento (Cass., 15 maggio 1973, n. 1378) (13)
Secondo la Corte di Cassazione, è vero che “il nesso funzionale tra negozi deve trovare la sua matrice nella volontà delle parti”. Questo tuttavia “non significa che occorra in ogni caso una specifica e puntuale previsione in proposito, perché l’esistenza, la natura, l’intensità e le conseguenze del collegamento possono e debbono essere affermate anche attraverso l’esame dell’assetto che le parti hanno inteso dare ai rispettivi interessi, desunto dagli strumenti negoziali utilizzati, da valutare nella loro interezza e nella loro concreta portata”. In altri termini “il nesso di collegamento può emergere per implicito, come corollario necessario del regolamento di interessi perseguito”. E, dunque, al regolamento negoziale che il giudice deve volgere la sua attenzione “per trarne tutti i significati e le implicazioni di cui esso è suscettibile, senza forzare in nessun modo la comune intenzione delle parti che esso consacra, però applicandone i precetti anche alle evenienze che, pur non essendo state considerate in maniera specifica ( … ) possono tuttavia verificarsi e devono, in tal caso, attingere in primo luogo al negozio stesso la propria disciplina”. Occorreva perciò accertare alcuni aspetti della vicenda (in particolare il rapporto di corrispettività tra gli obblighi nascenti dai due contratti) giudicati indispensabili per rispondere al quesito “se l’esecuzione e l’intangibilità del secondo contratto fossero compatibili con la risoluzione del primo”, anche alla luce del principio di buona fede cui la corte si appella sia come canone interpretativo (art. 1366), sia come regola generale di comportamento nell’adempimento delle obbligazioni (art. 1175 c. c.).
E’ alla valutazione del concreto assetto di interessi tra le parti, come risultante dal regolamento contrattuale, definito alla luce del principio di buona fede, che la Corte fa quindi riferimento per l’accertamento del nesso di collegamento.
Nella giurisprudenza più recente si afferma l’indirizzo oggettivo che pone l’accento sul rapporto funzionale tra i contratti e perciò sulla necessità di apprezzare l’assetto di interessi perseguito dalle parti, il programma unitario alla realizzazione del quale i diversi contratti sono coordinati (14)
Che sia il profilo funzionale, l’esistenza di “un solo e particolare scopo” della catena contrattuale, quello che va riguardato per cogliere l’interdipendenza tra più contratti è ribadito da una sentenza che ritiene meritevole di accoglimento l’azione revocatoria proposta dal creditore anche quando il “pregiudizio” sia determinato non da un singolo atto di alienazione, ma da una serie di atti il cui scopo finale sia quello di determinare una diminuzione del patrimonio del debitore (Cass., 6 ottobre 1994, n. 8188).
In questa direzione, ancora più recentemente, la Corte dì Cassazione ribadisce che “il collegamento contrattuale… è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, come normalmente avviene, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi”. “La giustificazione del collegamento è data dalla finalità complessiva che è tale quando rende inscindibile l’assetto economico costituito dai diversi contratti” (Cass., 27 aprile 1995, n. 4645).
Il collegamento contrattuale può sussistere anche nel caso in cui i contratti non intercorrono tra le stesse parti, sempre che i diversi contratti perseguano uno scopo economico unitario (15).
La regola secondo cui il collegamento può sussistere anche tra contratti intercorsi tra soggetti diversi viene ripresa e sviluppata dalla Corte di Cassazione in un caso relativo al cosiddetto credito al consumo. Il riconoscimento del carattere unitario dell’operazione, che si articola nei contratti di vendita e di mutuo finalizzato all’acquisto, ha come conseguenza, nel caso di mancata consegna del bene dal venditore al consumatore, non solo il venir meno dell’operazione complessiva, ma anche l’obbligo per la società finanziaria di chiedere la restituzione della somma non all’acquirente, ma al venditore al quale era stata direttamente erogata, anche se questi non era parte del contratto di mutuo (Cass., 20 gennaio 1994, n. 474).
Il fatto che, in questo caso, i contratti diano vita ad un’operazione economica unitaria rende necessaria l’individuazione di regole di condotta che, alla stregua dei principio di buona fede, consentano di stabilire i necessari raccordi tra i diversi frammenti dell’operazione complessiva. Questi raccordi vengono attuati dalla Corte nel presupposto di un collegamento tra contratti distinti.
Dell’esigenza di stabilire raccordi tra i frammenti dell’operazione economica si fa interprete la giurisprudenza chiamata a più riprese ad occuparsi del problema. La considerazione dei modi in cui si è articolata in concreto l’operazione complessiva ha portato la Corte di Cassazione a valutare in termini oggettivi il nesso di collegamento esistente tra i due negozi. A sentire la Corte, il collegamento tra diversi negozi dipende dall’autonomia delle parti che li indirizza al perseguimento di una funzione unitaria, funzione che trascende quella dei singoli contratti, ma che investe invece la fattispecie negoziate nel suo complesso. L’indagine per accertare l’esistenza della funzione unitaria non deve tuttavia essere svolta in termini soggettivi, per identificare vuoi una astratta volontà di collegare vuoi, per così dire, un accordo di programma, ma deve invece verificare “se la volontà di collegamento si è obiettivata nel contenuto dei diversi negozi”. Solo in tal caso, infatti “si può ritenere che entrambi i negozi o uno di essi, secondo la reale intenzione dei contraenti, siano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro”. Nella specie sono proprio le circostanze di fatto a dimostrare, “in modo certo, il collegamento negoziale tra il mutuo e la compravendita”, in quanto “provano con sicurezza che della somma concessa in mutuo per l’acquisto del veicolo beneficia direttamente ed effettivamente il venditore e non il mutuatario”.
Si tratta, secondo la Corte, di quello “specifico collegamento cui dà luogo il cosiddetto contratto di mutuo di scopo consistente nella erogazione del credito a medio o a lungo termine, in cui acquista rilievo, accanto alla causa genericamente creditizia, il motivo specifico per il quale il mutuo viene concesso”. Per effetto della clausola di destinazione l’impiego del capitale, da motivo estraneo alla struttura, entra a far parte del regolamento contrattuale. All’obbligo del mutuatario di restituire la somma mutuata, si aggiunge quello di impiegare la somma per la destinazione pattuita. D’altra parte se lo scopo del mutuo non può realizzarsi, come accade nel caso in cui la compravendita venga risolta, il mutuo stesso non ha più ragione d’essere.
Riassumendo, i punti della decisione che meritano di essere segnalati sono i seguenti: a) i contratti, formalmente distinti, in cui si articola l’operazione di credito al consumo sono avvinti da un nesso di collegamento capace di dare un’impronta unitaria alla disciplina ed alle vicende di entrambi; b) l’esistenza del collegamento va verificata in termini oggettivi, vale a dire facendo riferimento al contenuto effettivo degli accordi ed allo stesso comportamento delle parti durante le trattative e la stipulazione dei contratti; c) si tratta di quel particolare nesso di collegamento che caratterizza il cosiddetto mutuo di scopo; d) se un tale collegamento sussiste, allora l’inadempimento del venditore, e la conseguente risoluzione del contratto di compravendita, privano il finanziamento della sua causa giustificatrice (lo stesso contratto di mutuo si risolve, di modo che) il mutante potrà chiedere la restituzione delle somme mutuate non a chi formalmente era parte del contratto, ma a chi effettivamente ne ha beneficiato, vale a dire al venditore.
Concludendo merita di essere sottolineato il fatto che la Corte sembra ormai essersi affrancata da suggestioni di tipo soggettivo psicologico, per approdare ad una impostazione inequivocabilmente oggettiva del problema del collegamento (16).
Problemi di validità dei contratti collegati possono porsi da diversi angoli di visuale. Intanto è noto che la frode alla legge (art. 1344 c. c.) può essere realizzata proprio mediante l’impiego di più contratti combinati in modo da rendere possibile l’elusione di norme imperative.
Merita poi di essere segnalato come la nullità di uno dei contratti si ripercuota sugli altri con esso collegati. In applicazione del principio simul stabunt, simul cadent, la giurisprudenza ritiene che la nullità dell’uno determini anche quella dell’altro o degli altri con esso collegati (17).
Il collegamento rende così applicabile l’art. 1419 sulla nullità parziale non solo nel caso in cui sia una parte o una clausola del singolo contratto ad essere affetta da nullità, ma anche in quello in cui sia nullo uno dei contratti in cui si articola l’operazione complessa. Di più: a sentire la Corte, in presenza di contratti collegati la prova della funzione unitaria dell’insieme già dà la dimostrazione di quanto richiesto dal 1° co. dell’art. 1419 c. c., vale a dire del fatto che i contraenti non avrebbero concluso l’affare senza quel segmento affetto da nullità. Provato il “nesso”, può allora risultare già assolto l’onere probatorio richiesto dall’art. 1419 c. c. Il che non significa, come talvolta  ambiguamente si è detto, che in materia di contratti collegati vale il principio utile per inutile vitiatur  in deroga a quello generale secondo cui utile per inutile non vitiatur perché in un’operazione complessa l’ “utilità” va riguardata con riferimento all’insieme e non al singolo frammento.
Questi schemi appaiono ora superati da una più recente sentenza che sembra approdare ad una valutazione realistica del collegamento contrattuale, ormai libera dalle formule e dalle suggestioni volontaristiche (Cass., 12 dicembre 1995, n. 12733) relativa al caso Ambrosiano Cir) (18).
Nella sentenza la Corte di Cassazione afferma il carattere globale dell’intesa tra il Banco e De Benedetti, intesa che quindi non può essere arbitrariamente scissa nei suoi frammenti senza tradire l’interesse unitario con essa perseguito. Infatti “l’esistenza di un collegamento funzionale tra più negozi, pur non eliminando l’individualità giuridica dei singoli negozi collegati, che restano conseguentemente soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, ne impone una considerazione unitaria anche quando ( … ) non vi sia coincidenza soggettiva di tutte le parti: essenziale è infatti l’unitarietà dell’interesse da esse globalmente perseguito e non anche che i soggetti siano i medesimi in ciascuno dei negozi attraverso i quali l’operazione complessiva si articola”.
In questa prospettiva si afferma che il collegamento reagisce sull’efficacia e sulla validità di ciascuno dei negozi collegati, che dovranno essere conseguentemente verificate avendo riguardo all’interesse globalmente perseguito dalle parti. Pertanto “riveste un’importanza marginale stabilire se le pattuizioni intervenute tra le parti siano qualificabili come un unico contratto complesso o come più contratti collegati, posto che nell’uno e nell’altro caso sono applicabili le regole desumibili dall’art. 1419 c. c. in tema di invalidità parziale (e deve quindi ammettersi che l’invalidità di un contratto possa riflettersi sugli altri contratti che siano ad esso collegati, sempre che, naturalmente la loro permanenza in vigore non sia compatibile con l’originario programma negoziale … ) e deve aversi riguardo all’affare nella sua interezza per valutare se il rifiuto all’adempimento sia o meno conforme a buona fede anche quando la prestazione inadempiuta derivi da uno dei contratti collegati”.
In presenza di una serie di contratti tra loro collegati, allora, alla Corte pare evidente che “l’esistenza di violazioni dell’art. 38 della L. banc. deve essere verificata avendo riguardo all’interesse unitario perseguito dalle parti attraverso l’insieme dei contratti stipulati, ivi compresi quelli dai quali derivino obbligazioni di carattere strumentale di cui la banca si sia fatta eventualmente carico per la realizzazione dell’intesa complessiva raggiunta con il proprio esponente bancario. Specie se si tratti di finanziamenti, per l’ovvia considerazione che tali atti possono comportare l’impegno di risorse finanziarie dell’azienda di credito per l’interesse personale dei soggetti preposti, in posizione di vertice, alla sua gestione o al suo controllo, e cioè proprio il risultato che il legislatore con detta disposizione ha inteso evitare”. Ed a questo proposito la Corte non manca, in prosieguo, di sottolineare come “la formulazione dell’art. 38 della L. banc.  rende… evidente che il legislatore ha avuto di mira la sostanza economica dell’operazione assai più delle categorie formali attraverso le quali può essere in concreto realizzata”.
I punti più significativi della sentenza sembrano dunque i seguenti: a) essenziale per l’esistenza del collegamento negoziale è l’unitarietà dell’interesse globalmente perseguito: il riferimento all’elemento soggettivo  non compare in motivazione; b) non è invece necessaria la coincidenza soggettiva di tutte le parti e quindi può darsi collegamento anche se i soggetti non siano i medesimi in tutti i contratti, purché, appunto, unico sia l’interesse globalmente perseguito; c) ciascun contratto collegato resta soggetto alla disciplina propria del rispettivo tipo; d) validità ed efficacia dei contratti andranno verificate avendo riguardo all’interesse complessivo: da questo punto di vista ha importanza marginale discutere se si è in presenza di un unico contratto complesso o di più contratti collegati perché in definitiva i problemi di validità ed efficacia debbono essere risolti tenuto conto dell’insieme e non dei frammenti; e) anche l’art. 1419 va applicato all’insieme dei contratti senza che l’essere in presenza di un insieme di contratti piuttosto che di un contratto unico determini alcuna “deroga” alla regola codicistica; f) è con riguardo all’insieme di contratti che va valutata se la condotta dei contraenti  sia o meno conforme alla regola di buona fede.
Al di là degli schemi e delle formule, pare allora che il giudice debba considerare l’operazione nella sua globalità per verificare se il suo originario equilibrio complessivo risulti alterato da circostanze sopravvenute od originarie e perciò se sia compatibile con l’interesse unitario perseguito dai contraenti la sopravvivenza in tutto o in parte del régolamento contrattuale. Il collegamento, allora, da tecnica che consente di far riflettere su di un contratto le vicende proprie dell’altro ad esso collegato, diviene tecnica che rende anche possibile l’apprezzamento globale dell’operazione contrattuale compiuta, operazione che va perciò direttamente apprezzata dal giudice (19).


§ 2.2
La disciplina dei contratti dei consumatori.


Il collegamento tra contratti, che deve la sua affermazione all’opera della dottrina e della giurisprudenza, di recente è stato preso in considerazione dal legislatore. La disciplina delle clausole abusive nei contratti dei consumatori per la prima volta attribuisce espressa rilevanza al collegamento tra contratti. L’art. 1496 ter c. c., infatti dispone che “la vessatorietà di una clausola è valutata… facendo riferimento alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende”.
Con riguardo ai contratti conclusi con i consumatori, la norma prevede in primo luogo un criterio interpretativo, secondo il quale, in presenza di contratti collegati, “l’interpretazione complessiva” (art. 1363 c. c.) deve abbracciare l’intera catena di contratti (Cass., 17 marzo 1978, n. 1346). Non solo: l’interpretazione complessiva dei contratti vale a stabilire la vessatorietà  delle clausole, vale a dire se esse determinino un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto (art. 1469 bis c. e.). E’ dunque al regolamento complessivo derivante dall’insieme dei contratti che deve aversi riguardo per stabilire l’equilibrio o lo squilibrio del regolamento contrattuale anche alla luce del principio di buona fede.
L’art. 1469 ter, 11 co., viene ora a fornire la base normativa mancante per un’interpretazione unitaria dei negozi collegati: dinanzi a contratti, tra i quali sia accertato un collegamento, l’interprete potrà e dovrà dunque procedere ad una valutazione d’insieme. Di più la norma in esame non si limita ad introdurre un canone ermeneutico globale, ma sancisce una precisa regola in punto di effetti: nell’ipotesi di collegamento negoziale, il significativo squilibrio di una clausola deve stimarsi avuto riguardo all’operazione complessiva.
La valutazione complessiva delle clausole, naturalmente, opera in duplice direzione a favore o contro il consumatore, nel senso che come una clausola di per sé equilibrata può dar vita ad un significativo squilibrio se valutata in relazione a quelle di un contratto collegato, così una clausola apparentemente squilibrata può non risultare tale se considerata in ragione dei vantaggi conseguiti grazie ad altra clausola o ad altro contratto. Quella contenuta nell’art. 1469 ter, quindi, non è soltanto una regola interpretativa: è anche, regola operativa.
La norma fa testualmente riferimento alla necessità di valutare l’operazione economica nel suo insieme per accertare se una clausola determini un “significativo squilibrio”. Essa tuttavia può avere una portata più ampia di quella che a prima vista potrebbe sembrare. Essa lascia infatti intendere che l’equilibrio contrattuale debba essere definito con riguardo alla fattispecie complessiva tutte le volte in cui il suo apprezzamento sia rilevante secondo l’ordinamento: è il caso della definizione della gravità dell’inadempimento, dell’eccessiva onerosità sopravvenuta; dell’impossibilità parziale, della rescissione, tutte situazioni in cui diviene rilevante la valutazione dell’assetto complessivo di interessi dei contraenti: è il caso della risoluzione per inadempimento e del requisito della non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse della controparte.
Il principio contenuto dell’art. 1469 ter, d’altra parte, pur previsto espressamente per i contratti con i consumatori, dovrebbe potersi applicare anche al di fuori di questo ristretto ambito soggettivo ed operare come regola generale di valutazione della vessatorietà delle clausole. Dall’art. 1469 ter può quindi desumersi in primo luogo una regola di interpretazione, vuoi sul carattere vessatorio delle clausole, vuoi in generale sul significato da attribuire ai contratti collegati: alle clausole dei contratti collegati va attribuito il senso che risulta dall’operazione economica complessiva. In secondo luogo da esso può trarsi una regola operativa secondo cui all’unitarietà dell’operazione economica deve corrispondere una risposta unitaria da parte dell’ordinamento, risposta unitaria che, tuttavia, non può essere semplicemente ricondotta al principio simul stabunt simul cadent, imponendo ancor prima che ogni volta in cui è richiesta una valutazione dell’equilibrio contrattuale questa vada condotta avuto riguardo alla fattispecie complessiva.


Capitolo III
Responsabilità dei proponenti l’investimento.


§3.1


Atteso quanto sopra, l’onere di informare adeguatamente il cliente in sede di investimento, soprattutto, sui reali altissimi rischi legati alla prevalente componente “opzionale” contenuta in ogni singola sottoscrizione di BTP-Tel, ricadeva su ogni singolo bancario trovatosi nella situazione di interlocutore per la banca, anche se le direttive generali a livello centrale imponevano, previa applicazione di sanzioni interne, la indiscriminata e massificata commercializzazione del prodotto finanziario approfittando del consolidato rapporto fiduciario instaurato con la clientela.
Le dichiarazioni della gran parte dei testi ascoltati, querelanti o non, concordano nell’evidenziare situazioni di doloso “silenzio” o, addirittura, di “disinformazione” concretizzatesi con rassicurazioni sulla sicura restituzione del capitale investito o di rischi limitati agli interessi percepiti, che li indussero alla sottoscrizione del BTP-Tel e similari, esponendoli, conseguentemente, a “rischi illimitati”, che, nella sussistente circostanza di conflitto d’interessi, avvantaggia la Banca trovatasi, tra l’altro, nella voluta e contrattualmente ricercata duplice veste di intermediaria e controparte del cliente (la banca incassa ciò che il cliente perde).    


§ 3.2
Responsabilità legate alla struttura contrattuale.


L’attenta lettura del contratto di vendita di opzioni put impone, previa visione delle clausole, una serie considerazioni. Il detto contratto esordisce come segue:
BANCA: Abbiamo ricevuto la Sua richiesta di sottoscrizione della Proposta di Contratto di Vendita Opzioni Put di stile Europeo con esercizio automatico che, in segno di benestare ed accettazione, qui di seguito trascriviamo integralmente (premessa non presente su tutti i moduli).
CLIENTE: Con riferimento al contratto per la negoziazione, la sottoscrizione, il collocamento e la raccolta di ordini concernenti strumenti finanziari, ed all’ “Accordo quadro per la disciplina dei contratti su strumenti finanziari derivati collegati a valori mobiliari, tassi di interesse e valute o indici su tali valori non quotati su mercati regolamentati” (d’ora in poi definito semplicemente “Accordo quadro”, da me a suo tempo sottoscritto, Vi propongo di concludere per mio conto direttamente con Voi stessi i seguenti contratti con cui il sottoscritto vende alla Banca le seguenti opzioni put collegate all’andamento dei corsi dei titoli azionari le cui caratteristiche sono specificate nel seguente riquadro “caratteristiche dei contratti di opzioni put” … omesso …
   
Dalla lettura di quanto sopra emerge una realtà distorta di quanto effettivamente accaduto.
Infatti, implicitamente, il contratto attesta che ciascuno dei soggetti sottoscrittori del BTP-Tel e similari, si sia presentato presso la banca e che,  avendo ben a mente quando attestato nella premessa dell’ “Accordo quadro per la disciplina dei contratti su strumenti finanziari derivati collegati a valori mobiliari, tassi di interesse e valute o indici su tali valori non quotati su mercati regolamentati”, cioè:
a) il sottoscritto, nell’ambito della propria attività di investimento finanziario e/o delle proprie relazioni di affari, pone in essere operazioni in titoli azionari ed obbligazionari i cui corsi sono soggetti alle fluttuazioni del mercato e rispetto alle quali intende cautelarsi contro il rialzo o ribasso dei tassi di interesse e dai rischi di perdite derivanti da tali fluttuazioni, inoltre pone in essere operazioni dalle quali derivano posizioni creditorie e/o debitorie a scadenza futura denominate in divise estere o indicizzate a divise estere, rispetto alle quali intende cautelarsi dagli eventuali effetti delle variazioni dei tassi di cambio, che potrebbero intervenire prima della scadenza delle operazioni stesse, determinando fin da ora, in via indiretta, il controvalore in lire o altra divisa dei relativi crediti o debiti;
b) è pertanto interesse del sottoscritto concludere contratti del tipo previsto dal presente Accordo per limitare i rischi di corso e/o di tasso e/o di cambio derivanti dalle suddette operazioni e/o da posizioni in titoli e/o divisa estera;
c) il sottoscritto dichiara di possedere una specifica competenza ed esperienza nel settore delle contrattazioni su titoli e/o  valute e delle contrattazioni aventi per oggetto strumenti finanziari derivati collegati a valori mobiliari, tassi di interesse e valute o indici su tali valori, con particolare riferimento alle operazioni di interest rate swap, forward rate agreement, cap, floor, collar, swaption, currency swap, e delle opzioni su titoli e valute e su relativi indici, oggetto del presente “Accordo”;
d) a tale scopo il sottoscritto si è rivolto alla Banca del Salento S.p.a. (di seguito denominata anche “banca”), la quale nell’ambito della propria attività di intermediazione è disponibile a concludere i contratti del tipo disciplinato dal presente Accordo, confidando nelle dichiarazioni sopra rese dal sottoscritto;
e) il sottoscritto si è rivolto alla Banca onde concludere con la stessa il presente accordo nominativo, volto a stabilire le modalità di conclusione e la disciplina dei contratti su strumenti finanziari derivati collegati a valori mobiliari, tassi di interesse e valute o indici su tali valori;
f) le parti intendono pertanto stabilire, con il presente Accordo, le modalità di conclusione e la disciplina di ciascun contratto che verrà tra esse concluso con le modalità di cui al successivo art. 5. Ciascun contatto così concluso, come regolato dai termini contenuti nel presente Accordo, sarà di seguito indicato anche come “Contratto”;
… omesso …
manifestando, quindi, anche approfondito livello culturale e conoscenza degli strumenti finanziari, abbia di sua iniziativa proposto alla banca l’acquisto (il cliente vende; la banca acquista) di “opzioni put collegate all’andamento dei corsi su titoli azionari”, esponendo il proprio investimento a rischio illimitato a fronte di un corrispettivo (premio) esiguo se rapportato alla durata dell’investimento stesso (nel caso dell’opzione put contenuta nel BTP-Tel è circa il 14% da dividere per la durata quadriennale dell’investimento).
Una tale lettura della vicenda, distorta ma di comodo per la Banca, giustificherebbe anche l’irrilevanza del fatto che il cliente sia o meno stato informato dei rischi. Il “perché di comodo per la Banca” è presto detto: a che prò si dovevano fornire informazioni a chi si era presentato spontaneamente in banca per venderle delle opzioni put; il semplice fatto che l’abbia proposto ne presupporrebbe la conoscenza.    
Ebbene, l’esame testimoniale del significativo campione di investitori monitorato, ha delineato una realtà ben diversa ed opposta all’evidenza contrattuale.
Infatti, ci si è trovati di fronte a testi/investitori  di varie estrazione sociale e cultura; gran parte con cultura tale da non conoscere il significato di parole tecniche come “alea”, “aleatorio”, “conflitto di interessi”, “capitale”, “corrispettivo”, “premio”, “clausola”, “operazione di copertura”, e/o che si esprimeva con idioma strettamente dialettale; altri, invece, in grado di dare significato a detti termini.
Quello che ha accomunato tutti gli investitori escussi, è stato certamente:







n voler sottoscrivere un normale BTP a capitale garantito senza alcun rischio ed essersi ritrovati un contratto di vendita opzioni put che ha preso in ostaggio il BTP 01.01.2004;
n essere stati allettati da un presunto alto interesse del BTP – Tel all’8.5%come se fosse una elargizione della banca, quando in realtà si trattava del normale tasso di interesse acquistabile da chiunque sul mercato senza necessità di alcun collegamento con contratti derivati; 
n ignorare il significato della parola “opzione put” e/o degli altissimi rischi legati alla  sottoscrizione di contratti della specie;
n essere andati in banca in sede d’investimento del BTP-Tel, su invito o meno, certamente NON per sottoscrivere un contratto di vendita di opzioni put, ma per investire in un titolo di Stato o altro prodotto finanziario la cui denominazione richiamava comunque quella dell’omonimo titolo di Stato – BTP, con tutte le garanzie ad esso collegate;
n ignorare di aver essi venduto un qualcosa alla banca;
n ignorare per detta vendita di aver percepito in contropartita un corrispettivo (premio);
n ignorare che detto corrispettivo sia stato conglobato (su decisione unilaterale della banca) nell’investimento in BTP, come meglio si spiega nel seguente esempio pratico inerente l’investimento in BTP Tel per nominali Euro 36.000:






















Causale


Importo in euro


Commento


Somma disposta dal cliente per l’operazione, corrispondente al valore nominale dell’investimento


36.000,00

Quindi partendo da una disponibilità di 36.000 Euro, il cliente effettivamente esborsa 41.104,82 Euro per l’acquisto del BTP 1.1.04.. La provvista utilizzata per coprire tale differenza deriva dall’inconsapevole vendita alla banca di n. 9 diritti di opzioni put per la quale vendita gli viene corrisposto un premio di 5.103,36 Euro, equivalente al sovraprezzo di acquisto del BTP 1.1.04 (41.104,82 – 5.103,36 = 36.001,46). Ciascun cliente escusso in atti, a specifica domanda ha sempre risposto di non sapere dell’esistenza di detto premio e di non sapere di aver speso più di quanto  da lui disposto.  Il predetto comportamento da parte della banca ha di fatto impedito al cliente di disporre liberamente e/o altrimenti dell’importo del premio (p.e. destinare l’importo del premio al soddisfacimento di bisogni personali). Inoltre, salvo leggeri discostamenti (nel nostro esempio di € 1,46 su € 5.103,36 – circa lo 0,03%) l’importo del “premio” corrisponde a quello del “sovra prezzo”. Quanto prospettato in precedenza si manifesta in ogni investimento della specie
Vendita del cliente alla banca di n. 9 Opzioni put +5.103,36 
Acquisto del cliente dalla banca del BTP  1.1.04 -41.104,82 
Saldo    -1,46 


Quindi la realtà che emerge dalle dichiarazioni degli investitori e dei bancari escussi è opposta e certamente più credibile rispetto a quanto rappresenti la formalità dei contratti fatti sottoscrivere.


In definitiva la Banca 121, tra il 1999 ed il 2000, per mezzo del suo responsabile legale, del direttore generale, dei responsabili di filiali e di dipendenti a vario livello, in relazione al BTP-Tel:
n  ha ideato una struttura contrattuale tale da eludere gli obblighi in materia di “prospetto informativo” e di “foglio informativo analitico” ;
n  ha predisposto il contratto di “vendita di opzioni put” in modo tale da alterare la realtà dei fatti e far risultare che ad “istigare” l’investimento “deleterio” sia stato il cliente stesso e non la banca, come effettivamente accaduto;
n  pur avendo a disposizione tutte le informazioni utili a definire il profilo dei clienti (disponibilità finanziarie; caratteristiche dei precedenti investimenti; professione esercitata; grado di cultura; conoscenze personali – generanti il rapporto di fiducia) ha posto in essere per proprio tornaconto una indiscriminata collocazione dello strumento finanziario in questione, esponendo investitori ignari e inadatti a rischi non richiesti e potenzialmente illimitati (nr. 1007 investitori nel solo circondario della Procura della Repubblica di Trani);
n  come emerso nel corpo della relazione del dott. M. P. della Banca d’Italia – sub 4.2.1 pag. da 23 a 26 e sub 7.2 pagg. 60 e 61 -, la banca con l’operazione finanziaria in argomento, ha ottenuto, nell’immediatezza, un margine di guadagno intorno a percentuali variabili tra il 43% ed il 52% circa del costo di acquisto della componente derivata (premio dell’opzione put); in particolare, la banca, successivamente al collocamento del BTP-Tel, ha venduto analoghi strumenti finanziari a controparti istituzionali italiane o estere lucrando sulla differenza dell’importo tra il premio pagato al cliente e quello incassato dalla controparte istituzionale (più alto del primo), nonché neutralizzando di fatto il rischio di mercato – il tutto nell’ambito di una mera operazioni speculativa;
n  trattandosi di “contratto di vendita di opzioni put”, quindi di strumenti finanziari derivati, ed essendo emerso – diversamente da quando indicato nei singoli contratti fatti sottoscrivere ai clienti –  che l’operazione non è stata disposta per finalità di copertura, la banca non ha adempiuto ad informare prontamente per iscritto il cliente/investitore nel momento in cui gli strumenti in argomento generavano una perdita effettiva o potenziale pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni, come sancito dall’art. 28, comma 3 del Regolamento di attuazione del D.Lgs. 58/98 concernente la disciplina degli intermediari – adottato dalla CONSOB con  delibera nr. 11522 dell’1/7/98; 
in più:
n  in violazione all’art. 27,  comma 3 del Regolamento di attuazione del D.Lgs. 58/98 concernente la disciplina degli intermediari – adottato dalla CONSOB con  delibera nr. 11522 dell’1/7/98, la “proposta di contratto di vendita opzioni put collegate all’andamento dei corsi su titoli azionari” non riporta graficamente evidenziato la dizione che “l’operazione è in conflitto di interessi”;
n  il documento attestante l’attività di acquisizione di informazioni sulla propensione al rischio dei clienti – art. 28, comma 1 lett. a) del Reg. CONSOB 11522/98 –, nella molteplicità e varietà di documenti sottoposti per la firma al cliente in sede di investimento, sarebbe stato fatto firmare in bianco al cliente e compilato “ad hoc”  per soddisfare le condizioni necessarie al superamento dei vincoli imposti a livello informatico per l’accettazione dei contratti altamente aleatori; quanto precede è emerso oltre che dalle dichiarazioni di alcuni testi/investitori che da quelle del sig. B. E. (Per l’inserimento al terminale di operazioni sia strutturate che di MY WAY il sistema richiedeva due condizioni necessarie e cioè la propensione al rischio che doveva essere alta e l’esperienza finanziaria; senza queste due condizioni il sistema non accettava l’inserimento dell’operazione. Tali condizioni non erano però discusse con il cliente al momento della sottoscrizione del contratto; per quanto mi risulta infatti la documentazione era spesso firmata in bianco compresa la scheda del profilo di rischio del cliente.);
n  nella Parte III, “Organizzazione e procedure interne”, artt. 56, 57 58 e 59, del citato regolamento 11522/98, al fine di assicurare una adeguata vigilanza interna sulle attività svolte dal personale addetto e dai promotori finanziari, gli intermediari autorizzati istituiscono un’apposita funzione di controllo interno assegnata ad apposito responsabile, svincolato da rapporti gerarchici rispetto ai responsabili dei settori di attività sottoposti al controllo. In particolare, detto responsabile:
– verifica costantemente l’idoneità delle procedure interne ad assicurare il rispetto delle disposizioni di cui al testo unico e ai relativi regolamenti di attuazione;
– vigila sul rispetto delle procedure interne;
– vigila sul rispetto del codice interno di comportamento di cui all’art. 58 del reg. 11522/98;
– gestisce il registro dei reclami di cui all’art.59 del reg. 11522/98;
– svolge una attività di supporto consultivo ai settori dell’organizzazione aziendale con riferimento alle problematiche concernenti la prestazione dei servizi, i conflitti di interesse ed i conseguenti comportamenti da tenere;
– riferisce dei risultati della propria attività al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale;
– nel caso in cui constati gravi irregolarità, ne riferisce immediatamente al collegio sindacale il quale, a norma dell’art. 8 c. 3 del testo unico, segnala senza indugio alla CONSOB e alla Banca d’Italia le irregolarità riscontrate.
Le gravi problematiche emerse dalle indagini sinora svolte in relazione al BTP-Tel e prodotti similari, fanno emergere più che legittimamente la completa assenza, colposa o dolosa, di detta funzione di controllo interno.


§ 3.3
Ipotesi di reato ed attribuzione dello stesso.


I fatti e circostanze evidenziati, concretizza  a pieno titolo la condotta prevista e punita dall’art 640 c.p., con l’aggravante di cui all’art. 61 c.1 punto 7) e 11), in quanto, mediante il mascheramento della realtà legata all’effettività dello strumento finanziario fatto sottoscrivere ai clienti e mediante le menzogne corredate all’effettività della restituzione del capitale e/o dei rischi paventati,  si è provocato un errore che ha dato luogo a disposizioni patrimoniali dal quale (l’investimento in BTP-Tel e similari) è derivato un danno patrimoniale di rilevante gravità per il soggetto ingannato (sino al 70% del capitale investito) e un ingiusto profitto per la Banca, abusando delle relazioni d’ufficio e del rapporto fiduciario con la clientela.
Si rammenta che dalle indagini esperite sono risultate ben 1007 le persone che hanno acquistato il BTP Tel dalle filiali della Banca 121 del solo circondario del Tribunale di Trani. Sono ben 125 coloro che hanno proposto querela contro la Banca ed i suoi responsabili (66 a questo Comando e 59 a Codesta A.G.); mentre altri 15 hanno confermato le condotte incriminate anche se non hanno proposto querela per ragioni personale (di solito legate alla conoscenza ed amicizia con i funzionari di banca proponenti l’investimento). Il valore di quanto acquisito dai 1007 investitori è pari a Euro 23.823.067,60 (46.127.889.166 Lire). La perdita si stima in circa 14.293.869,96 Euro (pari al 60% dell’investimento). Per i soli denuncianti escussi da questo Comando l’investimento complessivo è pari a 1.998.000,00 Euro nominali con una perdita stimata in circa 1.198.800,00.                 
Orbene, le responsabilità della Banca 121 nelle vicende appare fuori dubbio. 
La condotta artata integrante gli estremi della truffa contrattuale deve necessariamente desumersi da una serie di indici rilevatori dell’intento fraudolento posto in essere dalla banca e dai suoi preposti in danno della clientela attraverso lo strumento giuridico del contratto in questione.


§ 3.3.1
Violazioni normative della clausola di buona fede


Si tratta di violazione ed elusione di norme che sono imposte da regolamenti normativi che specificano la condotta che la banca deve tenere nella fase di stipulazione del contratto e formazione del consenso informato del cliente:
1. risultano violati gli obblighi informativi di cui all’art. 21  lett. B) T.U.F.;
2. vi è violazione della disciplina e della informazione sul conflitto d’interessi in contrasto con l’art. 27 c. 3° e art. 28 lett. A) del reg. Consob 11522/98 e soprattutto art. 21 lett. C) T.U.F.;
3. violazione dell’art. 28 c. 2° del reg. Consob 11522 che impone fra i vari obblighi quello della redazione e consegna del DOCUMENTO SUI RISCHI GENERALI DEGLI INVESTIMENTI IN STRUMENTI FINANZIARI;
4. sottoscrizione in bianco del DOCUMENTO INFORMATIVO SULLA PROPENSIONE AL RISCHIO ai sensi dell’art. 28 lett. a) e 29 c. 1° reg. Consob 11522 che costituiva una sorta di test circa la intellegibilità dell’alea dell’operazione da parte del cliente e adeguatezza delle operazioni che si andavano a sottoscrivere in ragione delle condizioni soggettive del cliente;


§ 3.3.2
Violazioni intrinseche del contratto


1. Inintellegibilità del contenuto del Contratto e delle sue clausole compreso i documenti allegati e/o richiamati al fine di celare attraverso un esasperato tecnicismo i reati intenti speculativi della Banca in danno della clientela. Nella consulenza Pariotti si conclude al punto 6 che esistono elementi per poter affermare che il contenuto della complessa struttura contrattuale adottata dalla Banca per il BTP TEL consentiva ad una esperta lettura la desumibilità del carattere aleatorio dell’investimenti e del contratto, ma poiché i documenti tra loro intimamente collegati e dotati di elevato tecnicismo presentavano un elevato grado di complessità la desumibilità degli elementi di alea e dei profili di rischiosità come esplicitati nel contratto doveva ritenersi possibile soltanto con riferimento ad un soggetto contraente dotato di elevata conoscenza ed esperienza nel campo degli investimenti finanziari nonché di adeguate competenze nel campo giuridico, in particolare in materia di contrattualistica finanziaria; pertanto, in difetto di tale capacità di comprensione del contratto, il grado di desumibilità dei fattori di alea risultava fortemente ridotto. Se si aggiunge che nella fase precontrattuale il cliente è stato ingannato dal proponente circa la intangibilità del capitale utilizzato per l’operazione appare evidente come la condotta truffaldina sui sia sviluppata nel senso di trarre in errore essenziale e riconoscibile il contraente;
2. carattere ingannatorio del titolo dei contratti denominati BOT Reverse e BTP TEL. Il richiamo al concetto di BOT titolo a bassissimo rischio di perdita del capitale  rappresenta un elemento ingannatorio per un contraente ordinario che proprio dalla titolazione trova erroneo convincimento e assicurazione sulla scarsa aletorietà su una operazione che invece si presenta ad elevatissima alea;
3. in molteplici casi, inoltre, è stata riscontrata carenza documentale soprattutto in riferimento al DOCUMENTO SUI RISCHI GENERALI DEGLI INVESTIMENTI IN  STRUMENTI FINANZIARI, che in vari casi risulta assente nella pratica ed in altri non risulta restituita la cedola (attestato di ricezione) in favore del cliente;
4. sottoscrizione in bianco del documento di PROPENSIONE AL RISCHIO costituente un test per la verifica della capacità di comprensione dell’aleatorietà dell’operazione da parte del cliente;
5. artata prospettazione di circostanza non veritiera riferibile al cliente: Il contratto “di vendita opzioni put ….”, esordisce come segue:  BANCA: Abbiamo ricevuto la Sua richiesta di sottoscrizione della Proposta di Contratto di Vendita Opzioni Put di stile Europeo con esercizio automatico che, in segno di benestare ed accettazione, qui di seguito trascriviamo integralmente (premessa non presente su tutti i moduli). CLIENTE: Con riferimento al contratto per la negoziazione, la sottoscrizione, il collocamento e la raccolta di ordini concernenti strumenti finanziari, ed all’ “Accordo quadro per la disciplina dei contratti su strumenti finanziari derivati collegati a valori mobiliari, tassi di interesse e valute o indici su tali valori non quotati su mercati regolamentati” (d’ora in poi definito semplicemente “Accordo quadro”, da me a suo tempo sottoscritto, Vi propongo di concludere per mio conto direttamente con Voi stessi i seguenti contratti con cui il sottoscritto vende alla Banca le seguenti opzioni put collegate all’andamento dei corsi dei titoli azionari le cui caratteristiche sono specificate nel seguente riquadro “caratteristiche dei contratti di opzioni put” … omesso …    Dalle SIT in atti emerge chiaramente che la clientela non immaginava neppure di vendere un qualcosa alla banca né di comprendere cosa significasse opzione put;
6. collegamento funzionale fra l’operazione dell’opzione put e il contratto di garanzia. Con questa operazioni di collegamento negoziale la Banca si garantisce l’immunità da ogni rischio derivante da operazioni speculative in ambito finanziario facendo gravare tale rischio esclusivamente sul cliente.


§ 3.3.3
Sfruttamento delle condizioni soggettive della clientela


La Banca ha attinto la sua clientela in maniera indiscriminata ed indifferenziata, reperendola da ogni fascia sociale e facendole sottoscrivere in bianco in vari casi il documento di propensione al rischio del cliente stesso. E comunque nella fase precontrattuale che la vittima si trova di fronte ad una condotta fraudolenta finalizzata a sottacere elementi essenziali di pericolosità del contratto che se conosciuti non avrebbero di certo indotto il contraente alla stipula. Infatti, si prospettava alla clientela l’assicurazione dell’intangibilità del capitale investito e quindi la scarsa aleatorietà dell’operazione. Si evidenziava la vantaggiosità dell’operazione derivata dall’investimento in BTP, si sottacevano obblighi informativi e condizioni di conflitto di interessi fra la Banca e il cliente e attraverso l’esasperato tecnicismo delle clausole contrattuali si confondeva la capacità di poter comprendere l’effettiva portata dell’operazione. Quale soggetto di media o bassa conoscenza del mercato finanziario avrebbe mai potuto stipulare un simile contratto ove gli fosse stato evidenziato e rappresentata la prospettiva della messa a rischio del proprio capitale in operazioni altamente rischiose senza che la banca per conto suo rischiasse qualcosa ?
Tutto ciò rappresenta un’ipotesi di truffa contrattuale nei confronti di un contraente debole in un rapporto negoziale ove la Banca aveva l’obbligo di accertarsi che il cliente fosse concretamente edotto di ciò che andava a sottoscrivere. Ma oltre a tale omissione vi è proprio una condotta di tipo commissivo nel prospettare un situazione non veritiera e cioè la sicurezza che il capitale non risultasse a rischio.


§ 4.1
Sul reato di truffa in generale


Ai sensi dell’art. 640, 1° co., c.p. viene punito “chiunque, con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Tale formula,  riprende, quasi totalmente, l’analoga disposizione contenuta nel 1° comma dell’art. 413 c.p. abrogato.
L’adozione di una formula decisamente sintetica consente  di liberare la figura criminosa in esame da strettoie ed ostacoli interpretativi e di considerare la disposizione che la descrive come clausola generale di tutela del patrimonio nei confronti di aggressioni dolose aventi determinati caratteri ed operanti mediante determinati mezzi.
Dottrina e giurisprudenza, più volte, spinte da esigenze di tutela, impellenti, o reagendo a taluni eccessi interpretativi a queste ultime dovuti, sono pervenute a conclusioni che o slabbrano la portata della disposizione di cui all’art. 640 c.p. o ne restringono l’ambito operativo.
Una prima difficoltà sorge a proposito dei rapporti intercorrenti tra esigenza di tutela del patrimonio e della libertà delle dichiarazioni negoziali e contenuto normativo della disposizione di cui all’art. 640 c.p.
Ed invero, da una parte, è chiaro  che i due interessi prima indicati ricevono una tutela, per così dire, sfaccettata, a seconda del tipo di aggressione effettuata nei loro confronti; dall’altra, sembra utile ricordare, in particolare per ciò che concerne il patrimonio, che quest’ultimo non è difeso in sé, ma in relazione alle modalità che contraddistinguono l’aggressione condotta contro la sua integrità; modalità di aggressione che costituiscono, talora, l’elemento caratterizzante di fondo che induce il legislatore a formulare in un “titolo” a se stante o, comunque, in un “titolo” diverso da quello dedicato ai “delitti contro il patrimonio”, le singole ipotesi criminose.
Così come, pertanto, nell’ambito delle singole figure di delitti “patrimoniali”, accanto all’interesse di categoria preminente (tutela dell’integrità patrimoniale), sono presi in considerazione anche ulteriori ed altrettanto importanti interessi, analogamente – nell’ambito degli altri “titoli” contenenti figure delittuose che ipotizzano l’aggressione ad altri interessi categoriali – deve, sovente, ammettersi la presenza della contemporanea lesione anche di interessi patrimoniali. Sia sufficiente, in proposito, ricordare tutta la tematica relativa all’oggettività giuridica dei delitti di falso e di gran parte dei delitti contro la Pubblica Amministrazione.
Le considerazioni che precedono assumono specifica attualità nei confronti della disposizione di cui all’art. 640 c.p.. Nei suoi riguardi, infatti, è dato ravvisare – in dottrina ed in giurisprudenza – una tendenza a trasformarla, volta a volta, in uno strumento di tutela della libertà dispositiva del destinatario della condotta di frode  o in uno strumento generale di tutela dell’integrità patrimoniale da qualsiasi aggressione  o, infine, in una ipotesi di repressione dell’indebito arricchimento avente determinate modalità; con conseguente attribuzione di una funzione assorbente e qualificante nei confronti dell’intera fattispecie o al momento del danno (a scapito della condotta e del nesso causale tra questa ed il comportamento della vittima) o al momento del profitto (a scapito del danno) o al momento dell’errore (a scapito della condotta e degli eventi patrimoniali).
Ma in tanto è rilevante l’aggressione all’integrità patrimoniale della vittima, in quanto essa si svolga mediante una precedente aggressione  alla libertà psichica del destinatario della condotta; in altri termini, mediante la causazione di un vizio di consenso che, a sua volta, dia luogo ad una disposizione patrimoniale dannosa per la vittima e favorevole per l’agente. Ma non basta. Ed invero, il disinteresse dimostrato dal legislatore nei confronti di una tematica di danno intesa esclusivamente in termini di equilibrio di prestazioni dedotte nelle figure negoziali, l’accenno sintetico al danno, la possibilità, quindi, che l’aggressione patrimoniale provochi atti della vittima in nessun modo riconducibili nell’ambito delle prestazioni negoziali, ma, ciononostante, rilevanti ex art. 640 c.p., non può che indurre l’interprete ad allargare la prospettiva di indagine anche oltre i ristretti limiti della materia negoziale; e ciò, proprio in coerenza alla funzione svolta dalla norma in esame, di clausola generale di tutela dell’integrità patrimoniale da aggressioni condotte provocando la formazione di una volontà viziata nel titolare del patrimonio stesso.


§ 4.2
Frode civile e truffa.


Sempre nella prospettiva nella quale stiamo operando, occorre prendere nota di un altro grave problema ermeneutico: quello concernente i rapporti tra quest’ultima e la cosiddetta frode civile. Ed invero, oltre un’indiscutibile esigenza di individuare con sufficiente esattezza i criteri di tipicità della condotta di frode  alla base della questione sta anche la tendenza a vedere la truffa come un tipico fatto illecito sviluppante nell’ambito della patologia contrattuale; in altri termini, come un ulteriore e più grave grado di disvalore nell’ambito delle invalidità negoziali.
Ammessa, infatti, una figura di frode civile, operante nei settori tradizionalmente assegnatile dalla dottrina,  sembrerebbe  che il problema dei suoi rapporti con la truffa concerna solo un settore, sia pure rilevante, dell’ambito operativo proprio della figura delineata dall’art. 640 c.p.. In altri termini, più che di problema generalissimo  trattasi di questione, specifica, concernente la possibilità di cumulo o di esclusione di qualifiche di illiceità, proprie in diversi ordinamenti parziali, su un fatto talora costituente anche truffa, ma nel quale non si esaurisce la possibilità di quest’ultima di realizzarsi.
Le considerazioni or ora fatte, peraltro, non possono sminuire il valore storicamente attribuibile alla questione: e cioè, come si diceva, il valore di richiamo dell’attenzione dell’interprete sull’esigenza di superare difficoltà ed inconvenienti causati dalla difettosa tecnica legislativa che contraddistingueva i primi tentativi di delineare autonomamente la figura di truffa; esigenza che si traduceva, concretamente, in quella di porre un limite all’incriminabilità delle scorrettezze negoziali commesse dai soggetti nell’ambito della propria attività economica; limite costituito dalla necessità, subito avvertita, che il fatto truffaldino fosse caratterizzato da un certo grado di lesività e di disvalore, in altri termini, dal contenuto offensivo oggi esplicitamente richiesto, in diritto italiano dal combinato disposto degli artt. 49 e 43 c.p..
E ciò proprio perché una corretta interpretazione dell’art. 640 c.p., alla luce degli schemi generali di rilevanza fissati nella parte generale del Codice, è sufficiente a permettere di separare l’ambito del rilevante ex art. 640 c.p. dall’irrilevante per difetto di tipicità.
Nel caso di specie è evidente che l’induzione in errore dei consumatori avvenuta mediante la violazione degli obblighi di informazione, la incomprensibilità delle clausole contrattuali, la promessa anche implicita di guadagni sicuri, integrano una condotta oltre che civilisticamente anche penalmente rilevante in termini di tipicità ed offensività.


§ 4.3
I soggetti attivi e passivi del reato di  truffa.


Secondo quanto traspare dalla lettera dell’art. 640 c.p., il fatto di truffa può essere commesso da “chiunque” nei confronti di “chiunque”. La formulazione, propria dell’art. 640 c.p., e la mancanza di controindicazioni specifiche, pertanto, inducono autori  e giurisprudenza a ritenere che la figura in questione costituisce “reato comune”, in contrapposizione ai “reati propri”. Eventuali qualifiche dei soggetti, attivo e  passivo, potranno, pertanto, a prima vista, giocare esclusivamente secondo gli schemi descritti dagli artt. 61 ss. c.p..
Senonché, dopo avere enunciato, esattamente, quest’opinione di massima, dottrina e giurisprudenza tendono  a differenziare le singole posizioni, o nel senso di richiedere la presenza nell’agente o nella vittima di determinati requisiti psicofisici, o nel senso di ritenere il possesso parte dell’agente di determinate qualità incompatibili con la titolarità dell’obbligo discente dall’art. 640 c.p..
Iniziamo dalle discussioni insorte in tema di qualità ammissibili nel soggetto attivo del reato di truffa. Si dice, al riguardo che ogniqualvolta il fatto di truffa sia realizzato da un soggetto rivestito da qualità giuspubblicistiche  attive, lo stesso sarebbe sottratto alla previsione contenuta nell’art. 640 c.p., per ricadere, invece, nell’ambito della più grave ipotesi di concussione.
Dall’altra, è sostenibile con tranquillità che, essendo diversi e gli elementi costitutivi delle rispettive condotte e gli eventi naturalistici ad esse ricollegati e il modo di realizzarsi dei relativi nessi eziologici, un problema di specialità tra fattispecie di truffa e di concussione non può essere correttamente impostato. Ciò posto, è chiaro che la presenza nell’agente di una qualifica pubblicistica attiva non è sufficiente a negare la titolarità dell’obbligo discendente dal combinato disposto degli artt. 61, n. 9 e 640 c.p., né a ricondurre il fatto nell’ambito della previsione incriminatrice dell’art. 317 c.p.. Con tutte le conseguenze che da tale conclusione discendono.
Analogamente, un problema di distinzione tra figura di truffa ed altre ipotesi di reato, genericamente definibili “di frode”, delineate  nell’ambito dei delitti contro il patrimonio o altrove, non può correttamente impostarsi in termini di mere qualità proprie del soggetto attivo.
Ed invero, trattisi di ipotesi che colpiscono una condotta fraudolenta in momenti anche anteriori a quelli propri del limite minimo di punibilità del tentativo di truffa, o di figure particolarmente qualificate dal tipo di soggetto passivo postulato o per la specifica condotta fraudolenta tipicizzata, l’analisi dimostra che il relativo problema di distinzione va affrontato e risolto in base agli elementi di fattispecie tipicizzati dall’ordinamento.
 Identiche considerazioni devono farsi a proposito dei requisiti richiesti nel soggetto passivo del fatto di truffa in relazione alla caratteristica  propria della truffa  di risultare dalla cooperazione “spontanea” del destinatario della condotta fraudolenta.
Ciò premesso, deve subito dirsi che destinatario degli artifici o raggiri può solo essere una persona fisica, in quanto tale o in quanto titolare di un organo pubblico o privato (20).
Entrando nel merito del problema qui esaminato, dobbiamo ora chiederci se – ai fini della realizzabilità di un fatto di truffa – occorre, nel soggetto passivo della condotta, la capacità di intendere e di volere. Ci domandiamo, cioè, se sia proprio vero che – nei confronti di un soggetto incapace naturalisticamente – non è possibile commettere truffa. Salvo, naturalmente, a ricondurre, se consentito, il fatto dannoso medesimo nell’ambito di altre previsioni incriminatrici, prima fra tutte quella che delinea il furto.
La circostanza può essere rilevante in relazione alle miglia di vecchi pensionati che risultano firmatari dei contratti de quibus agitur.
Ebbene nessun elemento a sostegno di una soluzione del tipo accennato sia offerto dall’art. 640 c.p.. La stessa parrebbe frutto di una trasposizione, indimostrata, in materia di truffa di schemi di disciplina e di concetti delineati ad altro proposito dagli artt. 85 ss. c.p..
Talora, tuttavia, proprio a causa dello stato psichico del destinatario della condotta, può mancare ogni nesso causale tra condotta dell’agente ed eventi consumativi di truffa per carenza di comportamento dispositivo; quando ciò si verifichi, indubbiamente, il problema circa l’applicabilità di altre disposizioni potrebbe insorgere con una certa urgenza. E’ però chiaro che, così ridimensionata, la questione si riduce all’esigenza di accertare i requisiti voluti dall’art. 640 c.p., in punto elementi del fatto, senza postulare alcuna necessità di individuare note positive generali del substrato empirico del soggetto passivo della condotta di truffa.


§ 4.4
La condotta fraudolenta.


Il legislatore definisce la truffa come il fatto di “chiunque, con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto, con altrui danno”. Nell’ambito di questa formula, la dottrina, solitamente, individua la condotta o facendo perno direttamente sull’induzione in errore, o soffermandosi sugli artifici o raggiri, o loro volta strettamente collegati con la successiva induzione in errore. Ne consegue che la condotta di truffa deve essere individuata con riferimento esclusivo agli “artifici o raggiri”.
Ogni altra formula definitoria infatti, in quanto fondantesi, più o meno direttamente, sull’errore, può essere causa di equivoci non lievi, nei limiti in cui, accettandola, si può essere indotti a definire la condotta fraudolenta con esclusivo riferimento all’evento naturalistico-conseguenza della condotta stessa.
Aggiungiamo che, da una parte, il termine “inganno” può indicare tanto la condotta quanto la conseguenza di questa e che, dall’altra, l’induzione in errore è espressione tipicamente descrittiva del nesso eziologico tra condotta ed eventi naturalistici a questa ricollegati. Sembra, in conclusione, chiaro che  il problema di individuazione della condotta di truffa si incentra sull’accertamento del significato e del valore, assunti nel sistema, dalla formula “artifici o raggiri”.
Ciò premesso, va ricordato che  costituisce artificio “ogni simulazione o dissimulazione che operi sulla realtà esterna, creando nella vittima una falsa rappresentazione della realtà medesima” e raggiro “ogni attività diretta, senza vie intermedie, sull’altrui psiche, sì da creare nel destinatario un motivo all’agire fondato su una falsa convinzione o su analogo fatto motivante”.
Occorre dunque, chiedersi quale sia il significato dell’espressione “artifici o raggiri”.
In proposito, va ricordato che il legislatore, adottandola, ha voluto svincolarsi dall’onere di elencare analiticamente le singole condotte, tendendo a ricomprendere nell’ambito operativo dell’art. 640 c.p. ogni possibile comportamento dell’agente, diretto ad decipiendos alios, purché contraddistinto da un determinato disvalore.
Per tanto, sembra chiaro che l’espressione codicistica, più che tipicizzare, cristallizzandola, una determinata condotta positiva  fissa piuttosto delle note, necessarie, di disvalore riferibili ad una qualsiasi condotta avente significato dato ed idonea a produrre gli eventi naturalistici tipicizzati nell’art. 640 c.p.. In altri termini, nell’art. 640 c.p. il legislatore si è limitato ad indicare determinate note caratterizzanti, lasciando ogni libertà per ciò che concerneva l’individuazione delle singole condotte suscettibili di essere ricomprese nella sfera di operatività della disposizione medesima.
Occorre a questo punto determinare concretamente quali condotte siano suscettibili di rientrare nella previsione dell’art. 640 c.p., id est di ricevere quelle note di disvalore sinteticamente indicate come artifici o raggiri.
In proposito, un esame approfondito della fattispecie di truffa, con specifico riferimento al tipo di evento naturalistico che segue immediatamente alla condotta, ci consente di affermare che la condotta di truffa consiste, sostanzialmente, in un mendacio. L’attività punibile, realizzata dall’agente, deve, in conseguenza, potere qualificarsi alla stregua di un mendacio, anche se può non consistere in una dichiarazione o in una affermazione mendaci.
Quello che conta, ai fini della realizzazione della condotta di truffa, è il valore di mendacio proprio del comportamento dell’agente, in altri termini è la falsa rappresentazione della realtà, la consapevole alterazione del vero che gli è connaturata e che, come logica conseguenza, induce una falsa rappresentazione della realtà  nel destinatario della condotta stessa.
Le considerazioni che precedono  consentono di ritenere ampiamente superate le controversie insorte in dottrina in tema di rilevanza o di irrilevanza della cosiddetta nuda menzogna: e ciò perché, a nostro sommesso avviso, la menzogna è sempre costitutiva di uno schema di comportamento fraudolento, ma pur sempre bisognosa, ai fini della rilevanza ex art. 640 c.p., di un quid pluris costituito, per ciò che attiene alla truffa, dalle note modali caratterizzanti “artifici o raggiri”; analogamente, del resto, a quanto si richiede  per ogni altro comportamento mendace.
Ci chiediamo, in relazione ad una tematica più volte affrontata in dottrina, se i comportamenti mendaci, rilevanti ex art. 640 c.p., possano comprendere anche le “valutazioni”.


§ 5
Conclusioni.
Valutazione del rischio di mercato da parte della banca attraverso la previsione di un’operazione speculativa con rischio gravante esclusivamente sulla clientela – operazione di trasferimento del rischio.


Allo stato va evidenziato che molta della clientela non è ancora a conoscenza degli esiti pregiudizievoli dell’operazioni in questione. Infatti, svariate querele si sono susseguite dopo che la G.d.F. nell’acquisire le SIT rendeva edotto il cliente dei risultati possibili dell’operazione finanziaria a cui avevano aderito.
Da ciò si giustifica anche l’esigenza di bloccare tale rapporto in fieri standardizzato per tutta la clientela che nella maggior parte dei casi è assolutamente inconsapevole dell’entità del rischio a cui è stata artatamente sottoposta. Peraltro se alla data odierna dovesse verificare le risultanze dell’estratto conto, nulla emergerebbe a loro pregiudizio, né mai gli stessi sono stati avvisati ai sensi dell’art. 28 Reg. Consob 11522/98 delle perdite superiori al 50% del capitale investito (regola dettata con specifico riferimento agli strumenti finanziari derivati).
Al di fuori di qualsiasi tecnicismo, se solo ci fosse stata la volontà di informare i sottoscrittori del BTP-Tel e similari sui reali altissimi rischi legati alla tipologia di investimento, sarebbe bastato che chi rappresentava la Banca in sede di ciascuna sottoscrizione avesse fatto rilevare che: “A FRONTE DI UN RENDIMENTO IN INTERESSI DELL’8,5% ANNUO (che comunque il cliente avrebbe ricevuto anche se avesse acquistato il normale BTP in argomento) IN QUESTO TIPO DI CONTRATTO DERIVATO C’ERA IL RISCHIO DELLA PERDITA DELL’INTERO CAPITALE”. Però, chi dopo aver ricevuto tali dovute e comprensibilissime informazioni avrebbe investito in BTP-Tel e prodotti similari? E’ evidente quindi l’intento doloso di occultare la reale rischiosità del prodotto.   
Per quanto concerne il rischio di mercato, al fine di comprendere quali siano state le misure adottate dalla Banca 121 per neutralizzare i possibili effetti negativi derivanti da un andamento ad essa non favorevole dei prezzi delle azioni sottostante, il dott. P. ha ritenuto di dover interessare formalmente la Banca medesima. In particolare, con lettera raccomandata del 21 luglio 2003 è stato chiesto alla Banca 121 di fornire la documentazione attinente alle operazioni di copertura dalla stessa effettuate con riferimento ad alcune operazioni di commercializzazione di BTP-TEL e di altri prodotti similari .
Stante l’elevato grado di standardizzazione del prodotto, l’analisi svolta su un numero ridotto di transazioni è estendibile senza perdita di completezza, all’intero insieme di operazioni della stessa tipologia.
Sulla base della documentazione rassegnata in data 29.8.2003 emerge che la copertura del rischio di mercato da parte della Banca 121 è stata realizzata in tutti i casi esaminati attraverso la stipula con controparti istituzionali, nazionali ed estere, di contratti di vendita di opzioni put.
Gli ammontari nozionali ai quali i suddetti contratti di copertura fanno riferimento sono più elevati di quelli relativi alle singole operazioni in BTP-TEL per le quali sono state richieste informazioni, segno che la copertura – come è in effetti logico attendersi – veniva realizzata dalla Banca in blocco (si potrebbe dire “all’ingrosso”) per coprire un numero molto ampio di vendite di BTP-TEL alla clientela.
Analizzando più in dettaglio le operazioni di copertura si rileva che:






n  le opzioni put vendute dalla Banca hanno caratteristiche finanziarie per tipo di azioni sottostanti, prezzi strike, durata, modalità di regolamento uguali, o comunque molto simili a  quelle delle opzioni acquistate nei confronti della clientela investitrice nel BTP-TEL, sì da generare a scadenza un differenziale di prezzo eguale, o comunque molto simile nell’ammontare complessivo, ma, ovviamente, di segno opposto a quello prodotto dalle opzioni acquistate;
n  i premi incassati dalla Banca 121 a fronte della vendita delle suddette opzioni sono più elevati di quelli riconosciuti agli investitori (clienti della Banca 121) in BTP-TEL .


Quindi, attraverso la vendita dell’opzione put alle controparti istituzionali la Banca 121 realizzava di fatto un’operazione speculare a quella di acquisto dall’investitore in BTP-TEL a condizioni di prezzo che, peraltro, risultavano per essa vantaggioso.
In tal modo il rischio di mercato presente nell’operazione poteva essere adeguatamente neutralizzato (a meno di eventuali esigue differenze dovute alla non esatta coincidenza di alcuni termini contrattuali tra acquisto e vendita delle opzioni) e nello stesso tempo la Banca poteva conseguire da ciò un profitto netto.
L’operazione di copertura rende, di fatto, non più rilevante per la -Banca l’andamento futuro del corso delle azioni sottostanti le opzioni.
La quasi simultaneità dell’operazione di copertura posta in essere dalla banca che si è immediatamente cautelata da rischi di perdite collegate all’andamento del mercato finanziario ha fatto sì che in tali operazioni di natura evidentemente speculativa di fatto si è trasferito il rischio direttamente sull’ignaro investitore della banca stessa.
Le operazioni di copertura predette sono fisiologiche tra operatori qualificati ed esperti nel mondo finanziario ma nel caso di specie ad una cautela operata dalla banca 121 soggetto qualificato non corrisponde altrettanta cautela nei confronti del proprio cliente. A riprova del carattere speculativo e lucrativo della Banca che ha realizzato immediatamente il proprio vantaggio in danno del consumatore vi è in primis la rilevante differenza di premio fra l’ammontare riconosciuto al cliente e quello che la banca ha ricevuto a fronte della vendita dell’opzione ad altro operatore qualificato.
E cioè, se il cliente nel vendere l’opzione put  alla banca 121 riceve 100 la banca 121 dalla vendita dell’opzione (operazione di copertura) al soggetto qualificato riceve tra 143 e 152 (tra il 43 % ed il 52% in più). Tuttavia la stessa banca 121 (che ha già realizzato il lucro derivante dalla differenza di premio con il cliente) è esposta nei confronti degli operatori qualificati acquirenti dell’opzione dalla 121. A questo punto se la banca 121 alla data dell’1/1/2004 riuscirà ad esercitare l’opzione nei confronti del cliente, la stessa non avrà perduto nulla da tale operazione speculativa, atteso che avrà già lucrato  sulla differenza del premio ed era ciò l’obiettivo principale della Banca.
Tale ingiusto lucro ottenuto alle spalle dell’inconsapevole cliente che mai si sarebbe sognato di mettere a rischio il proprio capitale in un ingranaggio assolutamente invataggioso e sperequato nei suoi confronti  finiva per rappresentare un’enorme accumulo di liquidità della stessa Banca nelle proprie casse in epoca di poco successiva alla stipula e commercializzazione del prodotto finanziario.
E’ fatto notorio che nel 1999 e 2000 erano in corso le trattative di acquisizione della Banca 121 da parte del Monte dei Paschi di Siena  che poi ha fuso per incorporazione nel 2002 il detto istituto. A quella data la Banca, quindi, si è presentata al tavolo delle trattative con una ottima situazione finanziaria e con una clientela interessante perché altamente propensa all’investimento rischioso
Analizzando i dati di bilancio della Banca 121 era rilevabile una situazione di attivo di cassa notevole riveniente dalle operazioni di investimento strutturato che non si è realizzata soltanto con la vendita dei detti prodotti finanziari e loro similari ma anche dalla vendita del MY WAY e FOR YOU altri prodotti con competente  altamente aleatoria.
Vi è stato così un enorme rastrellamento dalla clientela di liquidità che la Banca mai avrebbe potuto ottenere altrimenti.
Dunque il maggiore soggetto ingannato è proprio il Monte dei Paschi di Siena, che facendo affidamento su tali dati artatamente ottenuti ha ritenuto del tutto conveniente l’operazione di fusione per incorporazione di una piccola banca che presentava una altissima propensione nella clientela all’investimento aleatorio e ad una cassa altrettanto appetibile in termini di liquidità. 


Capitolo IV
Sulle posizioni di garanzia ed il concorso mediante omissione nel reato commissivo


Innanzi di affrontare il tema della competenze e dei poteri ispettivi della Banca d’Italia e della Consob per verificare la fondatezza della primitiva ipotesi accusatoria, occorre soffermarsi primariamente sulla descrizione dei presupposti per la responsabilità penale ex art . 40 cpv c.p.
E’ di tutta evidenza, infatti, come di seguito verrà esposto, che le due istituzioni hanno nelle loro funzioni e scopi costitutivi anche quella di impedire che si verifichino truffe in danno dei consumatori ad opere delle banche e degli intermediari finanziari.
E’ evidente che il concorso che è ipotizzabile è quello costituito dalla mancato impedimento della condotta illecita altrui, cioè proprio ad opera di coloro che dovevano essere oggetto dell’attività ispettiva e di controllo.
Ne consegue che occorre scandagliare, alla luce della più recente giurisprudenza della Suprema Corte come si ponga la causalità omissiva “perché, in questo caso, il decorso degli avvenimenti non è, nella realtà fenomenica, influenzato dall’azione (che non esiste) di un soggetto; per cui la causalità omissiva – che, proprio per queste caratteristiche, parte della dottrina qualifica come “equivalente normativo della causalità” – si configura come una costruzione giuridica (art. 40 comma 2 cod. pen. che non a caso usa la locuzione “equivale”, secondo l’equazione: non impedire equivale a cagionare) che consente di ricostruire l’imputabilità oggettiva come violazione di un obbligo di agire, di impedire il verificarsi dell’evento (in violazione del c.d. obbligo di garanzia); omissione che provoca l’evento di pericolo o di danno (reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione; contrapposti ai reati omissivi propri nei quali il reato si perfeziona con la mera omissione della condotta dovuta) (21) .
La maggior complessità dei problemi in tema di causalità nei reati omissivi impropri non è ricollegata tanto alla necessità, in questo tipo di reati, di individuare se l’evento sia conseguenza dell’omissione accertata né dalla ricostruzione in via meramente ipotetica dell’efficacia della condotta omessa ma dalla necessità ulteriore di individuare la condotta positiva che, se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell’evento.
Ne consegue che, nella causalità omissiva, il procedimento logico che deve porre in essere il giudice è doppiamente ipotetico.
Se, invece,  l’evento fosse destinato a prodursi ugualmente anche nel caso in cui l’agente avesse attivato tutti gli interventi richiestigli, le conseguenze dell’omissione non potrebbero essere a lui addebitate.
La causalità omissiva, proprio per essere giustificata in base ad una ricostruzione logica e non in base ad una concatenazione di fatti materiali esistenti nella realtà ed empiricamente verificabili, costituisce una causalità costruita su ipotesi e non su certezze. Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale alla quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è normalmente (non sempre però) verificabile. In questo caso, si è detto, il rapporto si istituisce tra un’entità reale e un’entità immaginata mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.
Secondo un orientamento, ormai largamente diffuso e condiviso, per compiere questa ricostruzione devono essere utilizzate le leggi c.d. di copertura. Leggi di copertura, di origine scientifica, che possono avere un valore universale o un valore semplicemente statistico e la cui funzione è quella di attribuire un valore generalizzante a sequenze di accadimenti altrimenti tra di loro arbitrariamente collegate sulla base di presunzioni non fondate su leggi dotate di un pari grado di credibilità (22).
Indipendentemente dalla soluzione di questi problemi teorici va segnalato che il pluridecennale dibattito, giurisprudenziale e dottrinale, inteso ad individuare criteri soddisfacenti per ricollegare l’evento all’omissione in termini di ragionevolezza non si è ancora concluso e, ancora di recente, ha trovato nuovi sviluppi. L’interprete deve infatti constatare come, a seconda delle epoche, il problema della causalità omissiva si sia posto oscillando da impostazioni teoriche che tendevano a trasformare i reati omissivi in questione in reati di mera condotta – con grave lesione dei principi di legalità e di determinatezza per averli invece il legislatore indiscutibilmente configurati come reati di evento – ed altre che richiedevano, invece, l’impossibile prova della certezza dell’esistenza del rapporto eziologico non raggiungibile in questa materia non solo per le caratteristiche ipotetiche della causalità omissiva ma anche per la variabilità dei casi specifici, per la normale coesistenza di concause e per la frequentissima non assolutezza delle leggi scientifiche applicate.
Un’analisi maggiormente approfondita del tema, non consentita in questa sede, permetterebbe di affrontare anche le tematiche, di recente riportate all’attenzione da una parte della dottrina, che tendono a ricondurre il tema della causalità a quello della colpa. Alcuni autori hanno, infatti, evidenziato come in realtà il nesso di condizionamento materiale (causalità della condotta) spesso si risolva nell’accertamento dell’effetto condizionante della violazione della regola di diligenza commessa (causalità della colpa).
L’intreccio tra le due tematiche è del tutto evidente ed è altresì evidente come spesso sia avvenuto che i due termini siano stati sovrapposti ma non sembra condivisibile la trasposizione, che da alcuni autori viene fatta, dalla imputazione oggettiva a quella soggettiva facendo leva sul concetto di evitabilità dell’evento.
L’interprete deve, infatti, tenere ben presente che l’imputazione oggettiva dell’evento (l’evento è conseguenza di “quella” condotta del soggetto) è cosa distinta, non solo in astratto, dall’affermare che la violazione di “quella” regola di diligenza abbia avuto l’evento come conseguenza anche per le diverse modalità di conoscenza utilizzabili: mentre infatti l’indagine sulla colpa (riferita alla evitabilità) si fonda sulle conoscenze disponibili al momento della condotta, in base a criteri di generalizzazione, l’indagine sulla causa deve utilizzare tutte le conoscenze disponibili, per la ricostruzione del caso concreto, non solo al momento delle indagini ma addirittura della decisione.
Non è quindi sufficiente, per operare questa trasposizione, affermare che il rapporto di causalità si esprime anche nell’affermarne l’inesistenza ove non sia dimostrato che, anche con una condotta diligente, l’evento si sarebbe verificato ugualmente. In questi casi, infatti, è possibile affermare l’esistenza del rapporto di causalità materiale, pur in assenza di colpa, perché il comportamento alternativo lecito era privo di efficacia (problema che attiene all’evitabilità dell’evento e che non ha un rilievo esclusivamente teorico sia perché le diverse formule di assoluzione che conseguono all’accertamento dell’inesistenza dell’elemento oggettivo o soggettivo possono condizionare l’ammissibilità dell’azione civile sia per le conseguenze sul piano probatorio).
Negli ultimi due decenni, una linea che può definirsi di tipo “probabilistico” afferma che, per ritenere esistente il rapporto di causalità materiale, si debba accertare che la condotta  dovuta, se tempestivamente e correttamente posta in essere, avrebbe avuto “serie ed apprezzabili probabilità di successo”.
Spesso questo giudizio di natura probabilistica si è espresso in termini percentuali con margini di oscillazione, per la verità, eccessivamente ampi secondo un percorso interpretativo che si è spinto fino all’attribuzione di un evento a un soggetto sol perché, con la sua condotta, ha eliminato o diminuito le chances di salvezza del bene individuale protetto.
In queste ipotesi è palese che l’orientamento c.d. “probabilistico” si risolve in quello dell’aumento del rischio e a questo rischio non si sottraggono neppure i sostenitori di un’altra teoria, quella dell’imputazione oggettiva dell’evento, sorta peraltro per restringere l’ambito di applicazione della teoria condizionalistica.
A ben vedere l’impostazione accusatoria sostenuta dalla p.o. nella camera di consiglio, si fonda proprio su questa impostazione probabilistica secondo il seguente ragionamento: la truffa avrebbe potuto non consumarsi, o consumarsi con effetti meno traumatici per la clientela se la Banca d’Italia e la Consob avessero irrogato più celermente le sanzioni previste o effettuato più celermente e più frequentemente le attività di ispezione.
Anche in questo campo l’impostazione probabilistica trova il suo fondamento sulle medesime difficoltà ricostruttive: la natura ipotetica della ricostruzione a posteriori, le difficoltà di individuazione del trattamento omesso che avrebbe potuto salvare il bene o diminuire il rischio, la più frequente diversità delle condizioni soggettive e la compresenza di concause rende ancor più difficoltosa la ricostruzione del fatto sotto il profilo della causalità. Ma identico è il fondamento teorico-pratico che sta alla base della teoria probabilistica: la constatazione dell’impossibilità, nella causalità omissiva impropria, di individuare con certezza il fattore condizionante omesso che, se compiuto, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento.
Questo orientamento è stato sottoposto a vivace critica da parte di alcune sentenze (23) che, richiamando un autorevole orientamento dottrinario, ha capovolto l’impostazione tradizionale della giurisprudenza di legittimità fondata sul giudizio probabilistico giungendo ad affermare che “in tanto il giudice può affermare che un’azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che “enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento”.
I passaggi logici attraverso i quali questo orientamento è pervenuto alle conclusioni riportate possono così riassumersi: premesse le acquisizioni in precedenza riferite sulla natura del giudizio controfattuale da operarsi nel caso di reato omissivo improprio, al valore universale o semplicemente statistico – delle leggi di copertura, al dibattito dottrinale sulla diversa natura, o meno, della causalità omissiva rispetto a quella commissiva la sentenza citata afferma che il giudice non può non prendere atto dei migliori esiti della ricerca giuridico scientifica ed in particolare del fatto che tali orientamenti, pur divergendo sulla natura della causalità omissiva, purtuttavia convergono sulla necessità che, per ritenere esistente il rapporto di causalità, a conclusione del giudizio controfattuale, il giudice dovrà verificare che l’intervento omesso, se effettuato, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento con una probabilità vicino alla certezza.
A conferma della ricostruzione effettuata le sentenze citate richiamano le conclusioni contenute nel progetto di riforma del codice penale, elaborato dalla commissione ministeriale istituita con d.m. 1 ottobre 1998, che effettivamente, nella prima stesura, si esprimeva sul rapporto di causalità nei reati omissivi in termini di certezza.
Un ulteriore orientamento giurisprudenziale (24) dissente da entrambe le impostazioni il cui comune inconveniente è costituito, malgrado le diverse premesse teoriche e l’apparente contraddizione delle conclusioni, dalla ritenuta necessità di esprimere in termini percentuali l’esito del giudizio controfattuale in una materia nella quale questo tipo di valutazione non è razionalmente accettabile.
Questa tesi intermedia muove ad entrambi gli orientamenti la critica che, in realtà, il problema della causalità, impostato in termini di probabilità percentualistica si risolva in definitiva in un problema di tipo processuale concernente i criteri di valutazione della prova con la conseguenza di un’anomala commistione tra i problemi dell’esistenza degli elementi costitutivi del reato e quelli relativi alla prova della loro esistenza.
La teoria probabilistica, per i margini di discrezionalità che la caratterizzano, e al di là delle applicazioni specifiche che possono aver condotto a soluzioni accettabili nella stragrande maggioranza dei casi, ha l’evidente difetto di ricondurre l’accertamento di uno degli elementi costitutivi del reato ad un tipo di giudizio che può divenire incompatibile, nel caso concreto, con il principio di legalità.
Può infatti risolversi, se non in un giudizio di possibilità, in un giudizio di mera probabilità statistica che è comunque espressione di un risultato valutativo della prova, su un requisito della fattispecie, cui si perviene con criteri estranei a quelli normativi indicati nell’art. 192 commi 1 e 2 del codice di rito.
Ciò anche nelle espressioni più serie ed accettabili di questo orientamento che rifiutano il paradigma della possibilità per utilizzare quello della probabilità senza però procedere ad una marcata caratterizzazione di questo requisito che lo renda razionalmente credibile.
La teoria della certezza causale ha il  merito di aver ricondotto la ricerca in questione dal piano soggettivo del libero apprezzamento della causalità da parte del giudice alla necessità oggettiva dell’applicazione delle leggi scientifiche.
In particolare deve condividersi l’impostazione teorica diretta a privilegiare il ricorso a modelli di carattere generale e non individualizzanti  e diretta altresì a parificare la natura del giudizio sull’esistenza della causalità commissiva a quella sull’esistenza della causalità omissiva. Ciò non tanto perché questa parificazione contraddica alla natura asseritamente meno grave di quest’ultima quanto perché la natura ipotetica del giudizio controfattuale nella causalità omissiva è tale anche nella causalità commissiva e non può incidere sul livello della sua credibilità razionale in considerazione della natura reale dell’effetto condizionante in entrambe le specie di causalità.
Per contro l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che, per comodità dialettica, possiamo indicare come la teoria della “certezza” – che certamente risente dell’influenza neopositivistica laddove mostra di nutrire un’ottimistica se non totale fiducia nella scienza e nei risultati della ricerca scientifica – rischia di fatto di pervenire ad un disconoscimento della natura induttiva del giudizio sull’accertamento della causa che, nella nostra materia, non può che partire da un evento concreto che consenta di risalire al fenomeno che l’ha provocato.
Affermare un tale criterio di certezza significa infatti presumere – sempre e non solo nel caso di applicazione di leggi universali – l’esistenza di leggi dalle quali si può evincere con certezza la causa (o l’esclusione della causa) di un evento concreto, cioè trasformare la valutazione in esame in un giudizio di natura deduttiva per spiegare l’implicazione tra explanans ed explanandum e pretendere di ancorare ad un giudizio di asserita verità non confutabile un elemento del reato che, in base alle medesime premesse teoriche che la fondano, mai potrà essere accertato in termini di verità assoluta. E quando, questo orientamento, prende atto di questa impossibilità ricade nelle incongruenze del sistema percentualistico indicando, senza individuarla in modo preciso, una percentuale “prossima a cento”.
Non può poi omettersi ogni riferimento, nell’esame di questo problema, ai più recenti risultati della ricerca epistemologica che hanno rimesso in discussione i criteri che garantiscono la validità della conoscenza e autorizzano a qualificarla come “scienza”. Gli indirizzi che si sono formati, pur contrastanti sull’individuazione di questi criteri  hanno però consentito di porre in guardia da un’eccessiva fiducia nell’impostazione neopositivistica tenendo conto della circostanza che frequentemente leggi scientifiche, universali o semplicemente statistiche, idonee a risolvere il caso portato all’esame del giudice, non esistono e qualche volta, come le ricerche successive confermano, sono false; che pertanto il giudice è frequentemente costretto a fare ricorso a semplici regole di razionalità empirica, purché plausibili, o addirittura a massime di esperienza generalmente riconosciute; che frequentemente si verifica come leggi asseritamente universali non lo erano; che le leggi statistiche si risolvono spesso in un giudizio di frequenza probabilistica mutevole a seconda delle specifiche finalità della ricerca, delle tecniche di ricerca utilizzate, dei campioni esaminati, delle inferenze verificatesi.
Nè indicazioni ermeneutiche risolutive possono trarsi, per risolvere questo complesso problema, dai lavori della commissione di riforma del codice penale ovvio essendo il significato ambivalente di queste proposte: potrebbe, infatti, seriamente affermarsi che, lungi dal convalidare una tesi interpretativa del diritto vigente, la Commissione ha proposto la modifica proprio perché la norma in vigore non consentiva l’interpretazione proposta. D’altro canto, proprio sul punto della causalità omissiva, l’indicata commissione ha modificato il progetto iniziale sostituendo al criterio della “certezza”, nella causalità omissiva, previsto da una prima stesura, quello della “probabilità confinante con la certezza” adottato successivamente.
Conclusivamente, su questo punto, può affermarsi che entrambe le teorie criticate finiscono per applicare al giudizio valutativo della prova un criterio percentualistico che è, se non estraneo ai criteri di valutazione della prova previsti dalla legge, insufficiente per i fini indicati non essendo idoneo alla comprensione razionale di fenomeni complessi.
Non v’è giudice che condannerebbe una persona affermando che è probabile che la medesima abbia commesso il reato ma parimenti nessuna sentenza di assoluzione potrebbe fondarsi sull’affermazione che non si è raggiunta la prova della colpevolezza in termini di certezza assoluta. E ciò non solo per quanto riguarda gli elementi soggettivi del reato ma anche per quanto attiene agli elementi di natura oggettiva.
Non del tutto accettabili appaiono, infine, su questo punto, le conclusioni cui perviene l’orientamento cui si è fatto cenno in precedenza (che distingue l’accertamento sulla causalità della condotta da quello sulla causalità della colpa) che, sul tema della prova dell’esistenza del nesso di condizionamento, opta per il criterio della quasi certezza per quanto riguarda l’accertamento della causalità materiale (causalità della condotta) e per un criterio probabilistico in relazione all’accertamento della causalità della colpa (25).
Parte della dottrina (26)richiamandosi agli studi della dottrina tedesca (27), non pone il problema in termini di certezza ma, laddove ritiene di riassumere la tesi che intendeva dimostrare così lo fa: “l’evento può essere imputato all’agente solo quando l’asserzione relativa all’esistenza del nesso di condizionamento soddisfa il requisito dell’alto grado di “conferma” o di “credibilità”, e tale requisito può considerarsi soddisfatto in tutte le ipotesi in cui il giudice, dopo aver enunciato le leggi universali o statistiche pertinenti…….. abbia accertato che si sono verificate le “relative” condizioni iniziali, sempreché, sulla base della “evidenza” disponibile, risulti improbabile che l’evento si sia realizzato per l’intervento di “altri” processi causali (ai quali sia estraneo il comportamento dell’agente).”
Non sembra, quindi, che da questa impostazione derivi la necessità che, in base alle leggi statistiche o universali, la causalità debba essere oggetto di un giudizio di certezza, o prossimo alla certezza, essendo sufficiente che questo giudizio trovi un “alto” grado di conferma o di credibilità. Anzi,  la spiegazione “mediante leggi” dell’accadimento lesivo appare come “spiegazione a struttura probabilistica”, precisando poi come l’enunciato esplicativo debba apparire “razionalmente credibile; meglio ancora …. deve risultare provvisto di grado elevato di credibilità razionale” (28).
La spesso usata formula “probabilità confinante con la certezza” non consente di pervenire ad un giudizio razionalmente accettabile, cosa peraltro confermata dalla circostanza che esso viene sottoposto a critiche di segno contrario da parte di chi lo ritiene troppo rigido e da parte di chi invece auspica il ricorso a criteri di certezza senza alcuna limitazione. Il che costituisce una seria conferma, quanto meno, dell’ambiguità della formula.
La chiave di lettura che ci consente, nel giudizio probabilistico, di pervenire a risultati non arbitrari e rispettosi dei principi di legalità e determinatezza è costituita dai due diversi concetti di probabilità utilizzabili.
Ben diverso dal concetto di “probabilità statistica” è, infatti, il concetto di “probabilità logica” che involge un giudizio complessivo del quale la probabilità statistica è solo una componente e che – essendo caratterizzata, come si è affermato in dottrina, dalla “verifica aggiuntiva della credibilità dell’impiego della legge statistica nel caso concreto”, si risolve in un’affermazione di elevata credibilità razionale del risultato dell’operazione logica compiuta dal giudice.
 È corretto affermare che questo giudizio di probabilità si fonda sull’applicazione di leggi di copertura di carattere universale o di leggi semplicemente statistiche, ma anche su massime di esperienza comunemente condivise, purché si tenga conto che le stesse leggi ritenute di carattere universale presuppongono l’esistenza di determinate condizioni  in mancanza delle quali le regole da esse previste non valgono più: “poiché sono inevitabili l’uso di assunzioni tacite e il ricorso alla clausola coeteris paribus, il giudice non potrà dire che è “deduttivamente certa” la spiegazione ottenuta; ciò che potrà dire – se l’evidenza disponibile lo consente – è che questa spiegazione è probabile, e che quindi è probabile che il comportamento dell’agente sia una condizione contingentemente necessaria: dove la parola probabile sta appunto ad indicare la probabilità logica, o credibilità razionale, dell’enunciato che viene formulato(29).
Queste difficoltà, già presenti nell’utilizzazione di leggi di copertura di tipo universale, si accentuano a dismisura nel caso di leggi statistiche che, per loro natura, sono dirette a rendere omogenee situazioni che tali non sono. Affermare infatti – in caso di adeguata e tempestiva somministrazione del trattamento terapeutico ritenuto necessario – che sarebbe stata garantita, in base alle rilevazioni statistiche effettuate su base epidemiologica, una percentuale di sopravvivenza del 20, 50 o 99 per cento non è sufficiente a risolvere il problema della causalità materiale perché si tratta di elementi statistici che prescindono dalle caratteristiche  del caso concreto, da quelle  dei casi rilevati nell’indagine statistica, e da quelle ignote, ma condizionanti e normalmente esistenti, nel caso esaminato.
Per concludere, su questo punto, il giudice dovrà sempre fare ricorso, in esito al giudizio controfattuale compiuto in base alle leggi scientifiche di copertura, ad una valutazione di tipo probabilistico logico, e quindi non soltanto statistico o meramente probabilistico, pervenendo ad affermare l’esistenza del nesso di condizionamento non solo in caso di certezza, vera o presunta, ma altresì nei casi in cui questa conclusione sia assistita da un elevato grado di credibilità razionale. Ancora F. STELLA: “in definitiva, quel che il diritto penale richiede è che i giudizi contrafattuali, tesi a qualificare la condotta dell’agente come condizione necessaria, siano altamente plausibili alla stregua delle spiegazioni nomologiche, anche statistiche, enunciate.”
Il giudice deve, quindi, abbandonare l’illusione di poter ricavare deduttivamente la conclusione sull’esistenza del rapporto di causalità da una legge scientifica che riproduca in laboratorio la sua ipotesi di ricostruzione dell’evento e dovrà fare ricorso, sempre, alla ricerca induttiva verificando l’applicabilità delle leggi scientifiche eventualmente esistenti alle caratteristiche del caso concreto portato al suo esame; tenendo in considerazione tutti gli specifici fattori presenti e quelli interagenti e pervenendo quindi ad un giudizio di elevata credibilità razionale, secondo i criteri di valutazione della prova previsti per tutti gli elementi costitutivi del reato; utilizzando anche i criteri di probabilità statistica ma tenendo ben presente che si tratta di criteri strumentali al fine di pervenire ad un giudizio di probabilità logica la cui credibilità razionale si riassume, conclusivamente, nella formula che l’evento specifico, hic et nunc prodottosi, può essere causalmente ricollegato alla condotta dell’agente “al di là di ogni ragionevole dubbio(30).
Certamente si tratta di un compito che presenta aspetti di maggior complessità rispetto all’utilizzazione acritica delle leggi di copertura  ma il giudice non può ad esso sottrarsi, se vuole attribuire credibilità razionale e plausibilità alle sue decisioni, che non possono essere fondate su una mera operazione matematica, così come non deve cedere alla tentazione di ritenere che la certezza dei dati o delle generalizzazioni che costituiscono il punto di partenza della ricerca garantisca anche la certezza della conclusione: ciò può essere vero nelle scienze naturali, non in quelle sociali come la scienza giuridica.
Va ancora sottolineato che la mancanza di una legge di copertura non implica necessariamente l’impossibilità di un giudizio di accertamento della responsabilità sotto il profilo eziologico: in questo caso, peraltro, occorre che con ancora maggior rigore il giudice accerti, con l’aiuto di nozioni scientifiche, anche se in assenza di leggi scientifiche, che tutti i pensabili meccanismi di produzione dell’evento siano riconducibili alla condotta dell’agente (31).
Vi sono altri fondamentali problemi dei quali occorre tener conto per completare il quadro e che per un verso sminuiscono la validità delle teorie riferite mentre, per altro verso, obbligano il giudice di merito ad uno sforzo ancora maggiore per accertare l’esistenza del nesso di condizionamento.
Il primo di questi problemi è quello relativo all’esistenza di eventuali cause alternative o di concause dell’evento e in questo caso sia la teoria probabilistica che quella della certezza causale trovano i punti di maggior debolezza. L’accertamento dell’esistenza, o dell’inesistenza, di eventuali concause o di cause diverse o di cause alternative non semplicemente ipotetiche determinanti dell’evento influenza infatti sensibilmente, come già si è accennato in precedenza, il giudizio logico che consegue all’esito del giudizio controfattuale ed è idoneo a mutare radicalmente la valutazione di probabilità logica che ne consegue.
Gli esempi sono stati fatti in precedenza ma le conclusioni, sulle due forme di giudizio, sono agevolmente ricavabili: un giudizio probabilistico, o addirittura possibilistico, può diventare un giudizio di probabilità logica razionalmente accettabile ove possa escludersi con certezza l’ipotesi di diverse cause dell’evento mentre, al contrario, un giudizio prossimo alla certezza può essere messo nel nulla dall’esistenza di una concausa, o di una causa alternativa, avente pari o inferiore efficacia condizionante.
Infine non deve richiedersi al giudice di spiegare l’intero meccanismo dell’evento; il nesso di condizionamento deve infatti ritenersi provato non solo quando (caso assai improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all’evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative; e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici (32), che ha ritenuto irrilevante l’indicazione di una delle cause alternative dell’evento qualora le conseguenze dell’una o dell’altra soluzione siano identiche. Come è stato affermato in dottrina “non si può pretendere che il giudice spieghi l’intero meccanismo di produzione dell’evento, e non lo si può pretendere perché non è possibile conoscere esattamente tutte le “fasi intermedie” attraverso le quali la causa “produce” l’effetto finale”.


Capitolo VI
Sulle competenze ed i poteri ispettivi della Banca d’Italia.


A tal fine appare necessario ricapitolare quanto disposto dal Decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385.
L’art 2 di detta normativa individua nel CIRC l’organo preposto alla tutela del risparmio e del credito. E qui va svolta una prima riflessione. Quando si parla di risparmio si parla ovviamente di risparmiatori in quanto il risparmio non appartiene alle banche che lo semplicemente lo custodiscono, ma ai risparmiatori. Questa osservazione potrebbe apparire banale, ma sarebbe utilissimo che tutti i soggetti coinvolti nell’attività di raccolta del risparmio lo ricordassero come regola aurea.
Il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio ha l’alta vigilanza in materia di credito e di tutela del risparmio. Esso delibera nelle materie attribuite alla sua competenza dal presente decreto legislativo o da altre leggi. Il CICR è composto dal Ministro del tesoro, che lo presiede, dal Ministro del commercio con l’estero, dal Ministro per il coordinamento delle politiche agricole, alimentari e forestali, dal Ministro delle finanze, dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, dal Ministro dei lavori pubblici e dal Ministro per le politiche comunitarie. Alle sedute partecipa il Governatore della Banca d’Italia.
Il presidente può invitare altri ministri a intervenire a singole riunioni.
Il CICR è validamente costituito con la presenza della maggioranza dei suoi membri e delibera con il voto favorevole della maggioranza dei presenti.
Il direttore generale del tesoro svolge funzioni di segretario. Il CICR determina le norme concernenti la propria organizzazione e il proprio funzionamento. Per l’esercizio delle proprie funzioni il CICR si avvale della Banca d’Italia.
L’Articolo 4 regolamenta le funzioni della Banca d’Italia che vengono così  individuate:




  • a) La Banca d’Italia, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, formula le proposte per le deliberazioni di competenza del CICR previste nei titoli II e III e nell’art. 107.


  • b) emana regolamenti nei casi previsti dalla legge, impartisce istruzioni e adotta i provvedimenti di carattere particolare di sua competenza.


  • c) determina e rende pubblici previamente i principi e i criteri dell’attività di vigilanza.


  • d) Fermi restando i diversi termini fissati da disposizioni di legge, stabilisce i termini per provvedere, individua il responsabile del procedimento, indica i motivi delle decisioni e pubblica i provvedimenti aventi carattere generale.


  • e) Sono attribuiti al Governatore della Banca d’Italia i poteri per l’adozione degli atti amministrativi generali previsti.


  • f) La Banca d’Italia pubblica annualmente una relazione sull’attività di vigilanza.

L’ articolo 5 indica invece le finalità e i destinatari della vigilanza:
1.
Le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia.
2. La vigilanza si esercita nei confronti delle banche, dei gruppi bancari e degli intermediari finanziari.
3. Le autorità creditizie esercitano altresì gli altri poteri a esse attribuiti dalla legge.
Particolare importanza riveste l’articolo 7 relativo al segreto d’ufficio e collaborazione tra autorità che dispone che tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso della Banca d’Italia in ragione della sua attività di vigilanza sono coperti da segreto d’ufficio anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, a eccezione del Ministro del tesoro, Presidente del CICR. Il segreto non può essere opposto all’autorità giudiziaria quando le informazioni richieste siano necessarie per le indagini, o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente. 
I dipendenti della Banca d’Italia, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente al Governatore tutte le irregolarità constatate, anche quando assumano la veste di reati. Ciò, si badi bene, non significa che la Banca d’Italia non debba denunciare i reati all’Autorità Giudiziaria ma semplicemente che tale denuncia deve essere inoltrata dal Governatore direttamente e non dai funzionari che eseguono materialmente le ispezioni.
I dipendenti della Banca d’Italia sono vincolati dal segreto d’ufficio.
Le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici forniscono le informazioni e le altre forme di collaborazione richieste dalla Banca d’Italia, in conformità delle leggi disciplinanti i rispettivi ordinamenti.
La Banca d’Italia, la CONSOB, la COVIP, l’ISVAP e l’UIC collaborano tra loro, anche mediante scambio di informazioni, al fine di agevolare le rispettive funzioni. Detti organismi non possono reciprocamente opporsi il segreto d’ufficio.
La Banca d’Italia collabora, anche mediante scambio di informazioni, con le autorità competenti degli Stati comunitari, al fine di agevolare le rispettive funzioni. Le informazioni ricevute dalla Banca d’Italia possono essere trasmesse alle autorità italiane competenti, salvo diniego dell’autorità dello Stato comunitario che ha fornito le informazioni.
Nell’ambito di accordi di cooperazione e di equivalenti obblighi di riservatezza, la Banca d’Italia può scambiare informazioni preordinate all’esercizio delle funzioni di vigilanza con le autorità competenti degli Stati extracomunitari; le informazioni che la Banca d’Italia ha ricevuto da un altro Stato comunitario possono essere comunicate soltanto con l’assenso esplicito delle autorità che le hanno fornite.
La Banca d’Italia può scambiare informazioni con autorità amministrative o giudiziarie nell’ambito di procedimenti di liquidazione o di fallimento, in Italia o all’estero, relativi a banche, succursali di banche italiane all’estero o di banche comunitarie o extracomunitarie in Italia, nonché relativi a soggetti inclusi nell’ambito della vigilanza consolidata. Nei rapporti con le autorità extracomunitarie lo scambio di informazioni avviene con le modalità di cui al comma 7
La Banca d’Italia può comunicare ai sistemi di garanzia italiani e, a condizione che sia assicurata la riservatezza, a quelli esteri informazioni e dati in suo possesso necessari al funzionamento dei sistemi stessi .
Nel rispetto delle condizioni previste dalle direttive comunitarie applicabili alle banche, la Banca d’Italia può scambiare informazioni con altre autorità e soggetti esteri indicati dalle direttive medesime.
La Banca d’Italia pubblica un Bollettino contenente i provvedimenti di carattere generale emanati dalle autorità creditizie nonché altri provvedimenti rilevanti relativi ai soggetti sottoposti a vigilanza. I provvedimenti sono pubblicati entro il secondo mese successivo a quello della loro adozione.  Le delibere del CICR e i provvedimenti di carattere generale del Ministro del tesoro emanati ai sensi del presente decreto legislativo sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. I provvedimenti di carattere generale della Banca d’Italia sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana quando le disposizioni in essi contenute sono destinate anche a soggetti diversi da quelli sottoposti a vigilanza. La Banca d’Italia pubblica elaborazioni e dati statistici relativi ai soggetti sottoposti a vigilanza.
In base all’articolo 12 le banche, in qualunque forma costituite, possono emettere obbligazioni, anche convertibili, nominative o al portatore.
L’emissione delle obbligazioni non convertibili o convertibili in titoli di altre società è deliberata dall’organo amministrativo; non si applicano gli articoli 2410, 2411, 2412, 2413, primo comma, n. 3, 2414, 2415, 2416, 2417, 2418 e 2419 del codice civile.
Alle obbligazioni convertibili in azioni proprie si applicano le norme del codice civile, eccetto l’articolo 2410.
L’emissione delle obbligazioni non convertibili o convertibili in titoli di altre società è disciplinata dalla Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR.6. Le banche possono emettere titoli di deposito nominativi o al portatore. La Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, può disciplinarne le modalità di emissione.
La Banca d’Italia disciplina le emissioni da parte delle banche di prestiti subordinati, irredimibili ovvero rimborsabili previa autorizzazione della medesima Banca d’Italia. Tali emissioni possono avvenire anche sotto forma di obbligazioni o di titoli di deposito.
In base all’articolo 51 alla Banca d’Italia spetta la vigilanza informativa. A tal fine  Le banche inviano alla Banca d’Italia, con le modalità e nei termini da essa stabiliti, le segnalazioni periodiche nonché ogni altro dato e documento richiesto. Esse trasmettono anche i bilanci con le modalità e nei termini stabiliti dalla Banca d’Italia.
A tal proposito va ricordato che il collegio sindacale informa senza indugio la Banca d’Italia di tutti gli atti o i fatti, di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei propri compiti, che possano costituire una irregolarità nella gestione delle banche o una violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria.
Le società che esercitano attività di revisione contabile presso le banche comunicano senza indugio alla Banca d’Italia gli atti o i fatti, rilevati nello svolgimento dell’incarico, che possano costituire una grave violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria ovvero che possano pregiudicare la continuità dell’impresa o comportare un giudizio negativo, un giudizio con rilievi o una dichiarazione di impossibilità di esprimere un giudizio sul bilancio. Tali società inviano alla Banca d’Italia ogni altro dato o documento richiesto.
 I commi 1 e 2 si applicano anche ai soggetti che esercitano i compiti ivi previsti presso le società che controllano le banche o che sono da queste controllate ai sensi dell’articolo 23.
La Banca d’Italia stabilisce modalità e termini per la trasmissione delle informazioni previste dai commi 1 e 2
Vi è da domandarsi se il collegio sindacale della Banca 121 egli altri organismi che avevano la vigilanza come le società di revisione hanno assolto a piano il loro obbligo di segnalazione di ogni possibile irregolarità nella gestione dell’istituto di credito. In vero questo appare un filone di indagine che la Procura potrà successivamente aprofondire.
Alla  Banca d’Italia, spetta anche la vigilanza regolamentare. Infatti in conformità delle deliberazioni del CICR, emana disposizioni di carattere generale aventi a oggetto:
a) l’adeguatezza patrimoniale;
b) il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni;
c) le partecipazioni detenibili;
d) l’organizzazione amministrativa e contabile e i controlli interni.
Le disposizioni emanate ai sensi del comma 1 possono prevedere che determinate operazioni siano sottoposte ad autorizzazione della Banca d’Italia.  La Banca d’Italia può:
a) convocare gli amministratori, i sindaci e i dirigenti delle banche per esaminare la situazione delle stesse;
b) ordinare la convocazione degli organi collegiali delle banche, fissandone l’ordine del giorno, e proporre l’assunzione di determinate decisioni;
c) procedere direttamente alla convocazione degli organi collegiali delle banche quando gli organi competenti non abbiano ottemperato a quanto previsto dalla lettera b);
d) adottare, ove la situazione lo richieda, provvedimenti specifici nei confronti di singole banche per le materie indicate nel comma 1.
Le banche devono rispettare, per la concessione di credito in favore di soggetti a loro collegati o che in esse detengono una partecipazione rilevante al capitale, i limiti indicati dalla Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR. Tali limiti sono determinati con esclusivo riferimento al patrimonio della banca e alla partecipazione in essa detenuta dal soggetto richiedente il credito. Il CICR disciplina i conflitti di interesse tra le banche e i loro azionisti rilevanti, relativi alle altre attività bancarie.
Infine, ed è ciò che più interessa ai nostri fini, la Banca d’Italia ha anche la Vigilanza ispettiva.
Per l’esercizio di tale attività di vigilanza, la Banca d’Italia può effettuare ispezioni presso le banche e richiedere a esse l’esibizione di documenti e gli atti che ritenga necessari.
L’attività di vigilanza può comportare anche lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e di controllo delle banche che viene disposto con decreto dal Ministro del tesoro, su proposta della Banca d’Italia, quando:
a) risultino gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie che regolano l’attività della banca;
b) siano previste gravi perdite del patrimonio;
c) lo scioglimento sia richiesto con istanza motivata dagli organi amministrativi ovvero dall’assemblea straordinaria.
Ancora più importante è l’articolo 96 Ter che inserisce espressamente fra i compiti della  Banca d’Italia, la tutela dei risparmiatori e del sistema bancario. A tal fine è consentito alla Banca d’Italia:
a) riconoscere i sistemi di garanzia, approvandone gli statuti, a condizione che i sistemi stessi non presentino caratteristiche tali da comportare una ripartizione squilibrata dei rischi di insolvenza sul sistema bancario;
b) coordinare l’attività dei sistemi di garanzia con la disciplina delle crisi bancarie e con l’attività di vigilanza;
c) disciplinare le modalità di rimborso, anche con riferimento ai casi di cointestazione;
d) autorizza gli interventi dei sistemi di garanzia e le esclusioni delle banche dai sistemi stessi;
e) verificare che la tutela offerta dai sistemi di garanzia esteri cui aderiscono le succursali di banche extracomunitarie autorizzate in Italia sia equivalente a quella offerta dai sistemi di garanzia italiani;
f) disciplinare la pubblicità che le banche sono tenute ad attuare per informare i depositanti sul sistema di garanzia cui aderiscono e sull’inclusione nella garanzia medesima delle singole tipologie di crediti;
g) disciplinare le procedure di coordinamento con le autorità competenti degli altri Stati membri in ordine all’adesione delle succursali di banche comunitarie a un sistema di garanzia italiana e alla loro esclusione dallo stesso;
h) emanare disposizioni attuative delle norme contenute nella presente sezione.
Il sistema è completato dall’articolo 128 che consente alla Banca d’Italia di acquisire informazioni, atti e documenti ed eseguire ispezioni presso le banche e gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale previsto dall’articolo 107.
Nei confronti degli intermediari finanziari iscritti nel solo elenco generale previsto dall’articolo 106 e nei confronti dei soggetti indicati nell’articolo 155, comma 5, i controlli previsti dal comma 1 sono effettuati dall’UIC che, a tal fine, può chiedere la collaborazione di altre autorità.
Con riguardo ai soggetti indicati nell’art. 121, comma 2, lettera c), i controlli previsti dal comma 1 sono demandati al Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato al quale compete, inoltre, l’irrogazione delle sanzioni previste dagli articoli 144, commi 3 e 4, e 145, comma 3.
Con riguardo ai soggetti individuati ai sensi dell’articolo 115, comma 2, il CICR indica le autorità competenti a effettuare i controlli previsti dal comma 1 e a irrogare le sanzioni previste dagli articoli 144, commi 3 e 4, e 145, comma 3.
In caso di ripetute violazioni delle disposizioni concernenti gli obblighi di pubblicità, il Ministro del tesoro, su proposta della Banca d’Italia o dell’UIC o delle altre autorità indicate dal CICR ai sensi del comma 4, nell’ambito delle rispettive competenze, può disporre la sospensione dell’attività, anche di singole sedi secondarie per un periodo non superiore a trenta giorni.
Altre sanzioni sono previste dall’articolo 144 che dispone che:
1. Nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione, nonché dei dipendenti è applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni per l’inosservanza delle norme degli articoli 18, comma 4, 26, commi 2 e 3, 34, comma 2, 35, 49, 51, 53, 54, 55, 64, commi 2 e 4, 66, 67, 68, 106, commi 6 e 7, 107, 109, commi 2 e 3, 114-quater, 145, comma 3, 147 e 161, comma 5, o delle relative disposizioni generali o particolari impartite dalle autorità creditizie.
2. Le sanzioni previste nel comma 1 si applicano anche ai soggetti che svolgono funzioni di controllo per la violazione delle norme e delle disposizioni indicate nel medesimo comma o per non aver vigilato affinché le stesse fossero osservate da altri. Per la violazione degli articoli 52, 61, comma 5, e 112 è applicabile la sanzione prevista dal comma 1.
3. Nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione, dei dipendenti, nonché dei soggetti indicati nell’art. 121, comma 3, è applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria da lire due milioni a lire venticinque milioni per l’inosservanza delle norme contenute negli articoli 116 e 123 o delle relative disposizioni generali o particolari impartite dalle autorità creditizie.
4. Nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione, dei dipendenti, nonché dei soggetti indicati nell’art. 121, comma 3, è applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria fino a lire cento milioni per l’inosservanza delle norme contenute nell’art. 128, comma 1, ovvero nel caso di ostacolo all’esercizio delle funzioni di controllo previste dal medesimo art. 128. La stessa sanzione è applicabile nel caso di frazionamento artificioso di un unico contratto di credito al consumo in una pluralità di contratti dei quali almeno uno sia di importo inferiore al limite inferiore previsto dall’art. 121, comma 4, lettera a).
5. Le sanzioni amministrative pecuniarie previste per i dipendenti dai commi 1, 3 e 4 si applicano anche a coloro che operano sulla base di rapporti che ne determinano l’inserimento nell’organizzazione della banca, anche in forma diversa dal rapporto di lavoro subordinato
In definitiva ne esce un quadro normativo assolutamente desolante che evidenzia, al di là di ogni possibile dubbio, che in realtà la Banca d’Italia non possiede alcuna efficace capacità ispettiva nei confronti dei soggetti sottoposti alla sua vigilanza. L’ispezione amministrativa che si realizza mediante la semplice richiesta di documenti, senza la possibilità (non prevista espressamente) di poter procedere ad attività di sequestro amministrativo, la previsione di sanzioni assolutamente incongrue rispetto agli interessi in gioco consentono di affermare che allo Stato, la Banca d’Italia, è una struttura inutile allo scopo della vigilanza sul sistema bancario. Frutto di tale inadeguatezza normativa è la lunga serie di scandali finanziari che stiamo registrando negli ultimi anni in concomitanza con la chiusura della lunga bolla speculativa che si è registrata sui mercati internazionali negli anni novanta.
Una lunga scia di scandali nella quale si inserisce anche lo scandalo dei prodotti finanziari della “Banca 121”. Occorre che il Legislatore ponga immediatamente mano alla situazione ponendo in capo alla banca centrale effettivi poteri di vigilanza ispettiva, poteri reali di acquisizione e monitoraggio anche contro la volontà dei soggetti ispezionati, sanzioni pesanti e penetranti.
La posta in gioco è la credibilità del sistema finanziario italiano che qualora fosse definitivamente perduta presso il mercato interno ed internazionale comporterebbe la bancarotta dell’intero sistema economico italiano. Bancarotta fraudolenta.


Cap. VII
La Commissione nazionale per la società e la borsa


 Ai sensi dell’art. 1, 2° co., l. 216/1974,  la Consob è persona giuridica di diritto pubblico, che gode di piena autonomia. Ha autonomi poteri normativi e regolamentari nelle materie ad essa affidate dalla legge e funziona collegialmente, salvi casi di urgenza tassativamente previsti. Collabora con le altre autorità di vigilanza presenti sul mercato finanziario (come Banca d’Italia e Isvap) nonché, ai sensi dell’art. 4 t.u.f., con le autorità competenti dell’Unione Europea e di singoli Stati comunitari o extracomunitari. La Consob tiene informato il Ministro del Tesoro sulla propria attività e redige annualmente una relazione destinata al Parlamento. A seguito dell’introduzione del testo unico sulla finanza, è organo di controllo dell’intero mercato mobiliare. Essa è tenuta a vigilare su:



  • gli intermediari onde garantire la trasparenza e la correttezza dei loro comportamenti (art. 5 t.u.f.);

  • i mercati regolamentati di strumenti finanziari al fine di assicurare l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori (art. 74 t.u.f.);

  • le società di gestione dei mercati regolamentati (art. 73 t.u.f.);

  • tutti gli emittenti strumenti finanziari diffusi tra il pubblico (art. 91 t.u.f.).

A seguito della privatizzazione della Borsa la Consob ha ridotto le proprie competenze in tema di ammissione, sospensione e revoca delle azioni dalle negoziazioni su mercati regolamentati, essendo oggi queste demandate alla società di gestione del relativo mercato (Borsa Italiana S.p.a.).
L’organizzazione e la gestione di ciascun mercato regolamentato sono disciplinate da un regolamento deliberato dall’assemblea ordinaria delle società di gestione che determina, tra l’altro, le condizioni e le modalità di ammissione, di esclusione e di sospensione degli operatori e degli strumenti finanziari dalle negoziazioni (art. 62 t.u.f.). In materia vi è stato un progressivo ampliamento degli obblighi informativi nei confronti del pubblico. Oggi vi sono assoggettati tutti gli emittenti strumenti finanziari quotati e i soggetti che li controllano (art. 114, 1° co., t.u.f.); gli emittenti strumenti finanziari non quotati ma diffusi tra il pubblico in misura rilevante (art. 116, 1° co., t.u.f.). Tali soggetti devono informare la Consob di qualsiasi fatto che accade nella loro sfera o in quella delle società controllate non di pubblico dominio o idonei, se resi pubblici, ad influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziari. La Consob, inoltre, può richiedere notizie in qualsiasi momento, e pretendere che siano rese pubbliche e diffuse (art. 114, 3° co., t.u.f.).
In relazione ai compiti di controllo che spettano alla Consob in materia di sollecitazione all’investimento è stata affermata la responsabilità di tale organo di vigilanza. Con la sentenza Cass., 3-3-2001, n. 3132  è stata ammessa la configurabilità di una responsabilità della Consob per i danni subiti dagli investitori in caso di omissione dei controlli cui la stessa è tenuta. Con siffatta pronuncia i giudici di legittimità, cassando la sentenza del giudice d’appello hanno statuito che nella sua qualità di organo istituzionalmente preposto ad assicurare l’effettività di minimi standards informativi, la Consob ha il potere-dovere di accertare le evidenti falsità dei dati contenuti nel prospetto, intervenendo con iniziative istruttorie, integrative espressive su operazioni che non forniscano il richiesto livello di veridica informazione. In mancanza è civilmente responsabile nei confronti degli investitori che da tale omessa vigilanza abbiano patito un danno patrimoniale”.


Cap. VIII
Sul dolo omissivo


Ci certo la vicenda in esame dinanzi a questo Giudice, potrebbe trovare, in sede civile altro esito. Ma mentre la prova della culpa in vigilando è nella stessa verificazione dell’evento lesivo che doveva essere impedito, ben più complessa è la prova del dolo omissivo di partecipazione al reato di truffa.
A tal fine occorre infatti, non solo provare la conoscenza  dell’azione commissiva altrui e la consapevolezza della sua illiceità, ma anche la volontaria omissione dell’azione di controllo impeditivi che era possibile porre in essere.
Per accusare il vigilantes di concorso nella rapina di una banca, occorre provare che egli fosse in servizio, che avesse i poteri giuridici, le possibilità materiali di impedire l’azione criminale, che fosse consapevole dell’azione criminale in atto e che, infine abbia voluto con la sua omissione consentire o agevolare la commissione della rapina. Altrimenti non vi sarebbe differenza fra il dolo della omissione degli atti di ufficio e il dolo dell’omissione di concorso nel reato commissivo.
La necessità di imperniare la definizione del dolo (e del dolo eventuale in particolare) sul momento volitivo-deliberativo non trova, a nostro avviso, smentite o limitazioni in rapporto al reato omissivo.
Vero è che il reato omissivo presenta caratteristiche profondamente diverse da quelle del reato a condotta attiva, caratteristiche che non possono non riflettersi sul piano dell’elemento soggettivo, specie per quanto riguarda il contenuto rappresentativo del dolo. Sotto questo profilo, per comune riconoscimento  il soggetto deve avere cognizione della sussistenza dei presupposti del dovere di attivarsi; nonché della possibilità di agire nella direzione imposta dalla norma. E si tratta di rappresentazione che, secondo i criteri consueti, potrà, di per se stessa, assurgere a consapevolezza piena od assumere, nel caso concreto, i connotati del dubbio.
Discusso è, viceversa, se il dolo della omissione comporti la conoscenza dell’obbligo giuridico di attivarsi. La dottrina più recente tende ad esigere la rappresentazione del comando penale, in deroga al principio posto dall’art. 5 c.p., per le fattispecie omissive pure sfornite di radici naturalistiche o sociali immediatamente percepibili dal soggetto, in rapporto alle quali, in mancanza di rappresentazione del comando, il soggetto medesimo non avrebbe alcuna consapevolezza della propria condotta.
Quanto al reato omissivo improprio, il soggetto dovrebbe, di regola, essere a conoscenza dell’obbligo extrapenale di agire.
Evidente è, in ogni caso, la particolare ricchezza di presupposti che contraddistingue le fattispecie omissive, con conseguente moltiplicazione per l’agente delle concrete occasioni di dubbio e di incertezza. Scarso seguito ha ottenuto la tesi  secondo cui nei reati omissivi non sarebbe configurabile un dolo in senso proprio e si dovrebbe, pertanto, fare perno sulla mancata decisione, da parte dell’omittente, di intraprendere l’azione imposta dall’ordinamento, nonostante la conoscenza della situazione tipica. Tale totale trasposizione in termini normativi del problema del dolo lascia, invero, nell’ombra più assoluta la ricchezza e varietà di atteggiamenti psicologici con i quali il reo può porsi anche di fronte alla omissione.
Assai più diffuso è, viceversa, l’orientamento secondo il quale l’osservazione delle diverse sfumature psicologiche che sorreggono l’omissione dovrebbe condurre alla conclusione che non sempre il dolo della omissione si radica in una autentica risoluzione.
E’ vero che la omissione, a differenza dei contegni attivi  non richiedendo un impegno positivo, un effettivo dispendio di energie,  molto spesso si radica in uno stato di inerzia e di torpore della volontà, anche allorquando, sotto il profilo rappresentativo, il soggetto possiede una visione completa della situazione. Ciò significa, peraltro, solamente che, in rapporto alle fattispecie omissive, è particolarmente facile si configurino in concreto gli estremi della colpa con rappresentazione.
L’orientamento che svaluta la necessità del momento volitivo-deliberativo nel dolo della omissione, trasferendo di fatto nell’ambito del dolo contegni tipicamente colposi, appare, pertanto, espressione della generale tendenza alla compressione della colpa con rappresentazione; compressione alla quale il reato omissivo presta, da tale punto di vista, terreno particolarmente fertile.
E’ opportuno, poi, sottolineare che vi è comunque un momento in cui la inerzia protratta del soggetto giunge ad un bivio significativo: ed è l’ultimo momento utile per adempiere; momento significativo che potrà, eventualmente, retrocedere a quello nel quale il reo si ponga volontariamente nella impossibilità di adempiere, sia nel reato omissivo proprio sia nel reato commissivo mediante omissione.
Se nell’ipotesi di impossibilità ad adempiere volontariamente causata, la decisione del reo è evidente, una implicita ma autentica deliberazione deve riconoscersi anche allorquando il soggetto permanga consapevolmente nella sua inattività pur ritenendo certo l’evento lesivo.
Nel caso in cui la realizzazione del fatto tipico appaia al soggetto soltanto possibile, e, in se stessa, non sia da lui desiderata, si tratta di applicare il criterio in precedenza evidenziato, appurando se è stata compiuta una precisa, calcolata opzione, in vista di una finalità che il reo intende soddisfare, o se l’inerzia del reo trova origine in un “torpore” della volontà che escluda la presenza del dolo. In ogni caso, il mero temporeggiare, non può, da sé solo, essere ascritto al dolo.
La conclusione che pare di dover trarre è che nel reato omissivo  dal punto di vista della volizione non può discostarsi, al fondo, dai principi validi in linea generale.
Certo, dato che l’omissione consiste in un “non fare” e non comporta, in se stessa, alcun dispiegamento di forze da parte del reo, dal punto di vista statistico-effettuale è facile siano più frequenti i casi in cui vi è una minore adesione al fatto sotto il profilo della volontà, rispetto a quanto accade nei reati a condotta attiva. Ma non cambia il metro alla stregua del quale l’adesione della volontà va misurata: in particolare, essenziale risulta, come sempre, il riferimento all’evento normativamente inteso, elemento che, nel reato omissivo, proprio od improprio, acquista un rilievo ancor maggiore del solito, in forza della totale assenza o della minore presenza di fattori naturalistici cui ancorare, altrimenti, il nucleo essenziale del dolo.
Anche nel reato omissivo, infine, soltanto l’innervarsi della volontà attraverso una definitiva, consapevole scelta potrà determinare il passaggio dalla colpa (con rappresentazione) al dolo, in primo luogo al dolo eventuale.


Cap. IX
Sulle Circostanze fattuali.


La difesa della parte civile  ha eccepito nel merito l’inaccoglibilità della richiesta di archiviazione giacché l’art. 125 del testo definitivo della norma di attuazione, dispone che il Pubblico Ministero presenta al Giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato, perché gli elementi acquisiti delle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Secondo la difesa della p.o. tale disposizione, non vi è dubbio, consiste in una valutazione degli elementi acquisiti non più nella chiave dell’esito finale del processo, bensì nella chiave della loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio. Del resto, la sostituzione del termine idoneo a quello di sufficienti, designerebbe un quantum minore di elemento, anche se la loro valutazione diventa funzionale non nella condanna, bensì alla sostenibilità della cosa.
A tal proposito va osservato che Prima della modifica legislativa, quando cioè era richiesta la evidenza della prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, la giurisprudenza di questa Corte era concorde nell’affermare che il presupposto per la emissione della sentenza di non luogo a procedere sulla richiesta del P.M. di emissione del decreto di rinvio a giudizio era la esistenza della prova positiva della innocenza, alla quale andava equiparata la totale mancanza di prova sulla colpevolezza. Restava invece fuori della possibilità di applicazione dell’art. 425 c.p.p. l’ipotesi di insufficienza della prova, atteso che la prova si forma nel dibattimento ed è al giudice di tale fase che compete il giudizio sulla sufficienza degli elementi dai quale desumere la colpevolezza dell’imputato.
La diversa regola dettata dall’art. 125 disp. att., c.p.p., che prevede anche la ipotesi della insufficienza, o inidoneità della prova, doveva ritenersi riferita solo alla valutazione che il P.M. deve compiere per decidere se sia opportuno chiedere la archiviazione o il rinvio a giudizio.
Inoltre il compito di mero filtro attribuito al GIP non consentiva la utilizzazione, all’esito della udienza preliminare, del criterio di equiparazione della mancanza o insufficienza di prova alla prova positiva di innocenza, a sensi dell’art. 530 co. 2 c.p.p., perché il dubbio sulla responsabilità dell’imputato doveva essere affrontato e risolto dal giudice del dibattimento (33).
Veniva tuttavia precisato che l’evidenza probatoria si verifica non solo nell’ipotesi in cui vi sia la prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, ma anche nell’ipotesi in cui tale prova manchi totalmente (34).
La modifica legislativa, introdotta anche per superare le perplessità sollevate da più parti sulla regola della evidenza e costituita appunto dalla soppressione della parola “evidente”, ha condotto a un ribaltamento del precedente indirizzo, anche se in un primo tempo la dottrina ha escluso che dall’intervento legislativo fosse derivato un cambiamento della natura processuale della decisione che conclude l’udienza preliminare, atteso che la richiesta del P.M. non mira ad ottenere una pronuncia di merito sulla colpevolezza dell’imputato, bensì soltanto un decreto di rinvio a giudizio. Inoltre si è affermato che l’eliminazione del criterio dell’evidenza non comporta di per sè che il giudice debba pronunziare sentenza di non luogo a procedere anche quando la prova sia insufficiente o contraddittoria. La pronunzia sarebbe invece possibile nella ipotesi, già riconosciuta dalla precedente giurisprudenza, di totale mancanza della prova.
La dottrina prevalente ha affermato che la modifica legislativa comporta ora un giudizio pieno di merito, con il conseguente obbligo, per il giudice dell’udienza preliminare, di pronunziare sentenza di non luogo a procedere anche in situazioni di mancanza, contraddittorietà o insufficienza degli elementi probatori.
Inoltre è stato affermato che la modifica legislativa impone una lettura dell’art. 425 c.p.p. in modo coerente ai parametri stabiliti per l’archiviazione, assumendo quale punto di riferimento l’art. 125 disp. att. c.p.p., con la conseguenza che il G.I.P. deve operare una valutazione prognostica dello stesso tipo di quella che il P.M. deve effettuare nella scelta tra archiviazione ed esercizio dell’azione penale (35).
Ciò premesso non può condividersi la sostanza ed il merito dell’eccezione preliminare della difesa.
In punto di merito va osservato che, come messo in evidenza dalla p.o. è lo stesso Governatore Fazio che  afferma (36) che l’ordinamento assegna alla Banca di Italia, organo di vigilanza, il compito della difesa del risparmio e della difesa dei risparmiatori.
Dall’esame dei fatti è risultato, che l’ordinamento non prevede un perfetto coordinamento fra le attività di controllo e fra gli organismi di vigilanza, ed è persino evidente che la frammentazione delle funzioni di controllo fra Consob e Banca d’Italia sia una scelta discutile in quanto provoca inefficienza.
Ma quel poco di coordinamento previsto è stato disatteso nei fatti dall’atteggiamento scarsamente propenso alla collaborazione fra i due organismi di controllo, che si è evidenziato documentalmente nel corso dell’indagine più che completa svolta dal P.M. procedente. Va, comunque, ricordato che numerose norme prevedono l’obbligo di cooperazione e di informazione basti per  tutti citare l’art 10 comma 2° del TUB, che dispone che ciascuna Autorità comunica le ispezioni disposte alle altre Autorità la quale può chiedere accertamenti su profili di propria competenza.
Vale la pena ricordare quanto scrive l’organo di p.g. delegato dal P.M. (37): Non si comprende infatti come mai il problema piani finanziari –  My Way n.d.r.– interessi la Banca d’Italia in quel periodo, a fronte di tre soli esposti ricevuti nel 2001 e venticinque nel 2002, e non interessino gli strutturati – B.T.P.Tel n.d.r.- per cui oggi si indaga a fronte di un esposto ricevuto nel 2001 e venti nel 2002, o meglio si comprende tale scelta nell’ottica della Banca d’Italia, se si considera che i piani finanziari,  … sono ritenuti di suo interesse  mentre gli strutturati, essendo servizi di investimento derivati, sono ritenuti di competenza CONSOB”.
Ancora il maggiore R. relazione al P.M. procedente che : “Non risulta inoltre essere stata comunicata alla CONSOB da parte della Banca d’Italia dell’ispezione disposta dalla Banca d’Italia nei confronti della Monte dei Paschi di Siena Finance a giugno 2001 così come non risulta essere stata notiziata la CONSOB a seguito delle dette ispezioni dei rilievi verso dette banche, che comprendevano anche profili di suo interesse istituzionale”  (38).
Ancora a pag 11430 del fascicolo per le indagini preliminari, relazione della pg. al P.M. si legge: “Quando dunque si autorizza il Mieli ad ampliare l’ispezione per l’Area Finanza del gruppo Monte dei Paschi di Siena, accedendo dal 18 giugno 2001 al Monte dei Paschi di Siena Finance – perché viene svolto un secondo tratto della ispezione – si autorizza un controllo non completo nel settore voluto, che avrebbe dovuto ricomprendere anche la Banca 121”. …”Che tale ampliamento di ispezione non risulta, peraltro, comunicato alla CONSOB, nell’ambito della prassi di coordinamento tra le due unità di controllo, essendo stato comunicato solo il controllo di Monte dei Paschi di Siena, non Finance – che era più importante – impedendo così la Banca d’Italia che, ove si interessasse della CONSOB, questa avrebbe potuto chiedere di effettuare eventuali specifici controlli sul collocamento di prodotti. Né sono state inviate alla CONSOB comunicazioni di Banca d’Italia all’esito delle ispezioni, che diventano problematiche di competenza della CONSOB”.
Va, tuttavia, osservato che se pur non collaboranti in modo adeguato, le due istituzioni hanno svolto attività ispettiva e di controllo traendosi fuori dall’area dell’inerzia penalmente rilevante
Vale la pena ricordare che  la CONSOB, a seguito di propria ispezione ebbe il sospetto, avvalorato da notevoli anomalie (39),  che “gli interventi di vendite da parte di intermediari, siano avvenuti con l’obiettivo di spingere il prezzo al di sotto di quello minimo di ingresso, per il rimborso in contanti dell’obbligazione”.
E a  pagina 36 della relazione CONSOB prodotto dalla p.o. si legge che  “Tra l’agosto del 1998– e il gennaio scorso, circa il 37% delle emissioni scadute, hanno dato luogo a consegne di titoli anziché di contanti. In questi casi, il valore di titoli rimborsati è stato di norma sensibilmente inferiore al valore di sottoscrizione dell’obbligazione. Interventi  in vendita sui titoli sottostanti, da parte dell’intermediario, da parte del Monte dei Paschi di Siena, che so accolla il rischio, potrebbero infatti spingere il prezzo al di sotto del livello minimo richiesto per il rimborso in contanti. Da un’analisi del caso di rottura di prezzo, si rilevano a volte notevoli anomalie connesse ad operazioni di vendita di elevate dimensioni dell’ordine, consistenti in caduta di prezzo successivo al rimbalzo”. Ciò significa che alla scadenza di questi titoli, la Banca immetteva sul mercato altri titoli similari di modo ché fa scendere il valore di questi titoli e poi alla scadenza dei titoli dare il minimo o dare il nulla al cliente.
Tuttavia, non risulta, dalle indagini svolte, che tali conclusioni siano mai state portate a conoscenza della Banca d’Italia. Non risulta nemmeno che la Consob, che di fatto sospettava una attività criminale qualificabile come aggiotaggio, abbia effettuato una segnalazione alla Autorità Giudiziaria. Uguale rilievo va fatto per la Banca d’Italia.
Per quanto riguarda quest’ultima va osservato che a pagina 69 del resoconto stenotipico della seduta della commissione di inchiesta parlamentare del 27 gennaio 2004, il dr Fazio afferma che “Se avviene un delitto di tipo societario, la Banca d’Italia non ha nessun potere e nessun dovere” ed ancora  “Il servizio studi non tocca questi aspetti, sia chiaro”;  “La vigilanza  guarda i conti delle banche  non guarda più il risparmio come ha detto prima, o i risparmiatori  non è il nostro dovere, questo sia chiaro, bisogna rivolgersi a qualche altro”. V’è da osservare che non solo tale affermazione contrasta con l’attuale normativa in vigore, ma non spiega vieppiù la mancata comunicazione alla Consob (chiamata indirettamente in ballo) di quanto venuto in rilievo nel corso delle ispezioni della Banca d’Italia. Va fatta una doverosa chiosa sulla evidente qualifica di pubblici ufficiali degli ispettori della Banca d’Italia. In quanto tali hanno l’obbligo di denunciare (ma eccezionalmente non all’autorità giudiziaria ma al Governatore il quale a sua volta valuterà l’opportunità di inoltrare una denuncia alla Autorità giudiziaria) i reati di cui vengono a conoscenza nel corso e a causa delle funzioni pubbliche svolte.
La Banca d’Italia, nonostante il drastico ridimensionamento di competenze in materia monetaria causato dalla creazione della BCE, continua a conservare una natura eminentemente pubblica, perché persegue finalità eminentemente pubbliche. I suoi funzionari sono, dunque, pubblici ufficiali, nell’esercizio delle funzioni pubbliche loro delegate come recita l’art.7 della legge TUB 2°comma: “I dipendenti della Banca d’Italia nell’esercizio di funzioni di vigilanza  sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente al Governatore tutte le irregolarità constatate e addebitate, anche quando assumono le vesti di reato”.
Pessima capacità di coordinamento, mancanza di chiarezza sulle rispettive competenze, tendenza ad escludere l’autorità giudiziaria dall’attività di controllo, mancanza di circolarità delle informazioni, mancata previsione di specifici poteri istruttori e di acquisizione di informazioni da altre strutture di controllo e vigilanza: vi è ampia materia per il Legislatore della riforma.
Fortemente suggestiva risulta la citazione effettuata dal difensore della p.o. delle parole del dr Fazio: “l’etica è la parte costituente del buon funzionamento del mercato”, ed ancora “L’etica è la parte fondamentale di comportamenti economici” ( Bassano del Grappa 15 novembre 2003). “Le Banche – dice Fazio in questo discorso – non hanno commesso reati, hanno commesso qualcosa di poco etico”.
Le frasi sono estrapolate da un discorso più complessivo che non si conosce e che comunque non costituisce un fatto processualmente rilevante.
E’ però assolutamente condivisibile l’idea che l’etica debba essere il fondamento dell’attività economica. L’attività economica senza etica diviene violenta depredazione di risorse, mercato fine a se stesso dal quale il valore uomo viene espunto per fare posto unicamente al dio profitto.
Nel caso di specie risulta evidente che l’etica è stata bistratta, e ad essere violate appaiono anche le norme del codice penale.
Lo stesso Cardia, presidente della Consob dopo l’incarico di Spaventa, afferma: “Nel corso del periodo dal 1999 al 2002 la banca Monte dei Paschi di Siena, in assenza di procedure adeguate per lo sviluppo di nuovi prodotti, ha ideato, ha posto in essere una serie di operazioni ad investimento multiprodotti”… “In proposito le analisi condotte è emerso che il cliente, che decide di sottoscrivere il piano proposto dalla Banca 121 dovrebbe avere l’obiettivo di trarre profitto dal vantaggio rinveniente dall’investimento immediato e l’intero ammontare teso al prestito, piuttosto che dal versamento periodico di soldi costante. Il cliente conseguirà, infatti, un vantaggio economico solo qualora il differenziale di rendimento generato dalle maggiori somme investite all’inizio superi il costo di finanziamento necessario a procurarsi tali somme”.
Come spiega il difensore della p.o. questo significa in soldoni che quando si stipula un contratto tipo   My Way  la banca presta del denaro al sottoscrittore; il sottoscrittore sulla somma prestata paga il 7- 8% di interessi annuo, che vengono prelevati anticipatamente e capitalizzati per tutta la durata del contratto al momento della sottoscrizione del contratto stesso. Il cliente conseguirà un vantaggio economico solo qualora il differenziale di rendimento generale, dalle maggiori somme investite sin dall’inizio, superi il costo del finanziamento necessario a procurarsi tali somme.
In definitiva sulla somma data a mutuo viene subito sottratto l’ammontare degli interessi stipulati per tutti il periodo di durata del contratto; la somma residua viene impiegata nell’acquisito di titoli azionari; per poter ottenere indietro la somma (trascurando già l’idea improbabile di un guadagno) occorre che l’investimento azionario, al termine del contratto abbia reso quanto mento gli interessi pagati nell’ordine del 7- 8 % annuo, più la loro capitalizzazione.
Ma oltre agli interessi il contraente deve pagare anche il 2,70% annuo  a Spazio Finanza per la conservazione e la gestione dei titoli. Sicché alla fine i titoli devono rendere almeno il 10,70% annuo per tutti gli anni di durata del contratto  e ciò solo al fine di rientrare in possesso di una somma che al termine dell’investimento ha comunque subito l’erosione della svalutazione monetaria (!).
Ma il dr Cardia a foglio 20 della sua relazione rincara la dose affermando che:  “In  per alcune date di conclusione delle operazioni da parte di clienti, sono stati confrontati i prezzi di vendita di titoli di Stato sottostanti il B.T.P. On Line o il B.T.P. Tel. Da tale analisi sono emersi numerosi casi per i quali la compravendita risulta essere stata eseguita ad un prezzo superiore alla forchetta di prezzo formatosi alla medesima data sul mercato.  In particolare del B.T.P. On Line per le date del 5 maggio 1999, 17 maggio 1999, 18 maggio 1999, 19 maggio 1999, 9 giugno 1999, 10 giugno 1999, 11 giugno 1999, 16 giugno 1999 e 28 giugno 1999  il prezzo di vendita è risultato superiore al prezzo di massimo del mercato con uno scostamento massimo fatto registrare nella giornata del 28 pari a 216 Basis Point.  Per il B.T.P. Tel, per le date del 14.12.99, 15.12.99, 16.12.99, 23.12.99, il prezzo di vendita è risultato superiore ad un prezzo massimo del mercato, con uno scostamento massimo fatto registrare nella giornata del 16 dicembre. Ciò significa sostanzialmente che la banca ha acquistato ad un prezzo i titoli e li ha venduti a cliente contraente ad un prezzo superiore incamerando un’ulteriore somma percentuale che si somma a quelle già indicate precedentemente.
Va osservato che ancora il dr Cardia riferisce nella relazione che  “In proposito il direttore generale ha per iscritto attestato il mancato reperimento presso gli archivi societari di tutte le circolari relative alle seguenti operazioni: B.O.T. Reverse, B.O.T. Option, B.O.T. P.T. Index. La Banca non è stata in grado di reperire nei propri archivi un notevole numero di documenti”.
Ma il reperimento di dette circolari riesce alla G.d.F. mandata sapientemente dal P.M.: a foglio 10942 del fascicolo per le indagini preliminari risulta il sequestro di uno dei tanti documenti relativi ai contratti strutturati in cui è possibile leggere: “Resta inteso che, trattandosi di materiale altamente riservato, va trattato con estrema attenzione. È necessario provvedere alla sua distruzione a chiusura della campagna”. La firma è del direttore della Banca del Salento, ed è una circolare che manda ai promotori e ai direttori delle banche.
Dov’è finita l’etica quale fondamento dei rapporti economici? E’ evidente l’attività di  l’ostacolo all’attività di vigilanza.
Risulta documentalmente che sia la Banca d’Italia che la Consob abbiano posto in essere la loro attività di vigilanza.
E’ lo stesso Governatore della Banca d’Italia, nella lettera che porta la data del 14 maggio 2003 in risposta al Ministro dell’economia, che afferma che: “Già dall’estate dello scorso anno”, (estate del 2002 n.d.r.), la Banca d’Italia sulla base di alcuni esposti ha chiesto alla banca interessata, chiarimenti in merito agli episodi da lei ora richiamati, ha rappresentato l’esigenza, di verificare che sia stata fornita agli investitori una corretta e concreta informativa.
L’aspetto è particolarmente importante. La Banca d’Italia ha compreso ovviamente nella sue precedenti attività ispettive che i contratti strutturati venduti dalla Banca 121 prima e da MontePaschi successivamente consistono in strumenti finanzia particolarmente complessi (lo stesso P.M. ha dovuto nominare un consulente esperto per comprenderne il significato) ad alto rischio che non potevano essere venduti a gente avente una normale propensione al risparmio e al rischio. Questo aspetto fra l’altro, rientra pienamente nelle competenze della Banca d’Italia ai sensi dell’art. 96 Ter del TUB, 1993.
La Banca d’Italia ha posto in essere ben 4 ispezioni nei confronti del suddetto istituto di credito: la prima ispezione viene fatta sulla Banca del Salento e va dal 28 settembre 1998 al 24 febbraio ‘99. La seconda ispezione va dal 7 maggio 2001 al 12 ottobre 2002, e riguarda la Monte Paschi di Siena  e la  Monte Paschi di Siena Finance; e poi una terza ispezione, che si colloca tra l’una e l’altra, e riguarda 7-8 sedi del Monte Paschi di Siena sparse per tutta Italia. Vi è, infine, una quarta ispezione del dottor Sgrilletti del 2001, che dura fino all’agosto del 2002.
Non è, dunque, possibile affermare che non vi sia stata una attenzione della Banca d’Italia rispetto ai comportamenti finanziari disinvolti della banca salentina e della sua acquirente.
Già la prima ispezione  si conclude con l’irrogazione di una sanzione amministrativa alla Banca del Salento, perché c’erano state alcune manchevolezze o alcune anomalie nella produzioni del bilancio.
La Banca d’Italia (40) pone in evidenza nella relazione finale che “La forte asimmetria informativa fra sottoscrittori e intermediario (Banca del Salento) consentono a quest’ultimo, di lucrare elevati profitti”,… “il premio di rimborso delle obbligazioni strutturate riconosciuto ai clienti il premio di rimborso delle obbligazioni strutturate, costituito dalla percentuale di incremento in un dato arco temporale di uno o più indici di borsa, è in genere inferiore a quello che la Banca ha ottenuto dalla controparte di mercato. E tuttavia – continua sempre la Banca d’Italia – il costo di sottoscrizione, è per la clientela significativamente maggiore” Per tanto, concludeva (41) la Banca d’Italia: “Il giudizio complessivo è sfavorevole con le seguenti valutazioni di profilo: recuperità sfavorevole, mobilità sfavorevole”.
Non meno gravi i rilievi effettuati nel corso delle altre ispezioni.
Gravi le violazioni riscontrate (42) sui contratti esaminati a campione: il recesso dei contratti di natura continuativa, le modalità di calcolo degli interessi la raccolta in titoli il collocamento dei titoli di Stato, in relazione alle quali, la Banca d’Italia scrive alla filiale di Siena, “In relativa a ciò, si prega la direzione di Siena di richiamare la Banca Monte Paschi di Siena, ad una più scrupoloso osservanza della normativa della normativa del titolo VI del Tuf”.
Ed ancora (43) l’ispezione del 20 aprile 2001, alla filiale di P.di S., in provincia di S. consente di accertare manchevolezze riscontrate per un contratto privo di firme del clientePer il contratto esaminato non è sempre stato possibile riscontrare un’effettiva consegna alla clientela delle copie di sua spettanza”…”Sono state rilevate carenze informative  sulle condizioni praticate per i diversi contratti, vendita di obbligazioni proprie …. interessi non calcolati con riferimento all’anno commerciale, anziché a quello civile; le condizioni del contratto venivano comunicate al cliente per iscritto successivamente alla stipula del contratto, non risultava consegnata alla clientela copia del regolamento in quanto non più disponibile presso la dipendenza”.
Ispezione alla filiale di  C., N., 9 e 10 maggio 2001 (44): Sia gli avvisi sintetici esposti che i fogli informativi analitici a disposizione della clientela, non erano aggiornati. Per alcuni contratti di deposito, veniva sottoscritto dal cliente uno schema contrattuale non compilato”,: “L’avviso relativo all’emissione di B.O.T. e Titoli di Stato a medio lungo termine, previsto dal Decreto del ‘92, non era affisso nella sede bancaria”.
Ispezione del 15 e 16 maggio, S., collocamento dei Titoli di Stato: “L’avviso sintetico aggiornato in corso di ispezione – aggiornato in corso di ispezione – non risultava perfettamente allineato alle condizioni attive  mancava l’avviso sui tassi di cambio a causa di un guasto dell’apposito cartellone luminoso aggiornato in tempi reali”.
Ispezione alla filiale di R. C., 16 e 17 maggio 2001: “Non per tutte le tipologie di contratto si è ricorso alla forma scritta”, per il collocamento dei Titoli di Stato “non risultavano affissi gli avvisi relativi all’emissione dei B.O.T., dei Titoli di Stato a medio e a lungo termine” (!)
L’ispezione fatta dalla vigilanza della Banca d’Italia sulla Monte Paschi di Siena, viene effettuata fra il 7 maggio 2001, e il 18 ottobre 2001 (45) , condotta dall’ispettore capo dr Mieli rileva fra l’altro circa i contratti strutturati piazzati ormai da anni sul mercato dalla Banca 121 e dalla Monte Paschi: “In proposito non erano stati valutati a pieno le possibili ricadute sui rapporti di lungo periodo per la clientela, i pur generali riflessi reputazionali sul marchio e finanche i rischi legali impliciti del collocamento ai clienti retair dei complessi strumenti finanziari costruiti”.
Ed ancora:”Stante il carente sistema di controllo, tale attività che aveva fornito elevate contribuzioni alla redditività dei diversi soggetti del gruppo, che partecipavano alle operazioni, si era infatti svolta in presenza di discrepanze anche ampie tra il prezzo di collocamento delle strutture  e il loro valore ottenuto valutandone la componente opzionale, con uno scarto di circa 9 punti percentuali”
Inoltre: “ informazioni del tutto mancanti, incomplete e imprecise, nei fogli analitici riguardanti i prodotti collocati dalla rete, fra cui i revers convertibili”, …. “il Collegio sindacale è assente” .. “informazioni incomplete e inesatte sul valore dei derivati incorporati nei prodotti strutturali”.
La Banca d’Italia  conclude rilevando (46)Mentre i flussi che verranno incassati dalla banca sono sistematicamente ignorati  (dalla banca nei confronti del sottoscrittore n.d.r.) – ne deriva un valore intrinseco sistematicamente negativo, non rappresentativo di un effettivo rischio di controparte” .
“Sono risultate frequenti le strutture per le quali il prezzo della componente opzionale riportato nel foglio informativo analitico risulta diverso da quello ricalcolato utilizzando il medesimo dato di volatilità comunicato ai sottoscrittori”; “Per i revers convertibili, quelli di cui ho pregato di ricordarsi ora, si è riscontrata una sistematica sotto stima in media dello 0,7% del valore delle PUT comunicato al sottoscrittore, anche utilizzando i medesimi dati di volatilità e tasso indicati nel foglio informativo analitico”.
Siamo di fronte, dunque, ad una sistematica ed organizzata attività truffaldina a carico dei clienti più sprovveduti posta in essere scientificamente dall’istituto di credito.
Tutto questo la Banca d’Italia lo ha rilevato e lo ha scritto in atti ufficiali.
Ma il complessivo sistema di controllo e di sanzionamento previsto dall’attuale legislazione è un’arma spuntata in mano ad uno sparuto manipolo di funzionari
.
Il Governatore dr Fazio ottiene dal Ministro dell’economia solo in data 26 aprile 2001 (47) la sanzione amministrativa per la prima ispezione fatta alla Banca del Salento, nel ‘98/’99. Una sanzione economica infinitamente inferiore al valore dei profitti conseguiti.
Perché questi fatti non vengono denunciati dal dr Fazio alla magistratura? E’ evidente che siamo di fronte ad un errore di valutazione della natura delle condotte. Ma questo errore potrebbe essere giustificato dalla comprensibile cautela rispetto alla possibilità di allarmare l’opinione pubblica e gettare discredito sul complessivo sistema bancario. Cosa che, tuttavia,  è successa ugualmente e con maggiore gravità.
D’altra parte lo stesso capo ispettore della Banca d’Italia (48) arguisce l’importanza eccezionale del rischio reputazionale per la banca e l’intero sistema bancario: “In tali circostanze – le circostanze dell’ispezione potevano essere valutate nel complesso delle ispezioni, in termini di ricaduta del rischio reputazionale del marchio e le possibili ricadute sui rapporti di lungo periodo con la clientela” … “prima di procedere alla stesura della parte aperta del rapporto vi sono stati dei colloqui con la direzione generale e con la presidenza del Monte Paschi di Siena, nella quale (stesura n.d.r.) in ordine a tale contestazione si è assunto un atteggiamento tendente a sminuire il rilievo constatato e a non dare il giusto peso a tale circostanza, che invece per il sottoscritto ( M. n.d.r.) – rappresentava un indice di preoccupazione per la Banca”.
Per quanto riguarda l’attività della Consob va ricordato che l’art.5 del TUF 3°comma Decreto Legislativo 98 n.58 stabilisce che “La CONSOB è competente per quanto riguarda la trasparenza e la correttezza dei comportamenti degli Istituti bancari”. La Consob ha svolto attività  ispettiva nell’ambito di sua competenza (49) si veda l’ispezione svolta a Lecce il 31 luglio 2001, che si conclude con delle contestazioni da parte della CONSOB.
In seguito,  L. 14 maggio 2002 (50),  la CONSOB con un’altra comunicazione dove contesta tutte le violazioni riscontrate e che si conclude con una lunga dichiarazione di intendi della Banca sottoposta a controllo.
A seguito delle varie contestazioni della Consob la direttrice del Monte Paschi di Siena, dr C., riconosce che “I reclami nel complesso hanno riguardato prodotti strutturati scaduti e scadenti nei prossimi esercizi, l’istruttoria di tali reclami ha evidenziato nei casi di fondatezza una non corretta attività di collocamento…”. Vanno poi ricordati i rilievi effettuati nella relazione di Cardia e su menzionati.
Ma tutti i controlli posti in essere non sono serviti a nulla. La Banca 121 prima e la Montepaschi dopo hanno continuato a piazzare sul mercato a soggetti non adeguati per competenze professionali e forza economica, prodotti finanziari improbabili.
Vi è poi un importante aspetto dell’intera vicenda che riguarda l’esposizione della stessa banca 121 e della Montepaschi.
I contratti finanziari hanno comportato una esposizione della banca per circa due miliardi di euro, somme erogate per lo più senza alcuna garanzia (!).
La Banca d’Italia, direzione creditizia, invita perentoriamente la banca Monte Paschi di Siena a ricapitalizzare il patrimonio.
Questa ricapitalizzazione avviene mediante (51) una complessa operazione di cartolarizzazione dei prestiti: “la Banca d’Italia ha preso atto, ai sensi dell’art.129 del TUB, dell’operazione di cartolarizzazione di tali prestiti con nota del 23 luglio 2002 . La cartolarizzazione è stata ritenuta valida ai sensi del 129, 3°comma, del TUB. La comunicazione indica le quantità e le caratteristiche dei valori immobiliari, nonché le modalità e i tempi di svolgimento delle operazioni.  Entro 15 giorni dal ricevimento può essere data l’autorizzazione oppure può essere negata l’autorizzazione da parte della Banca d’Italia.
L’acquirente di detta cartolarizzazione di questi crediti risulta essere la Società Monte Paschi di Siena Assist Securit  – Società per Azioni” che compera dal Monte Paschi di Siena, cioè il Monte Paschi di Siena vende ad una sua società.
La vendita è avvenuta “prosoluto” per un importo complessivo di 1 miliardo 737 milioni 690 mila euro solo dei prodotti “For you”.
Ciò significa sostanzialmente che se un cliente che ha sottoscritto uno dei contratti in esame ricevendo una somma, senza rilasciare alcuna garanzia reale e senza rilasciare neanche titoli in pegno, impiegata dalla banca stessa per investimento azionario, smette di pagare mensilmente le somme concordate a rimborso del mutuo, l’acquirente del credito cartolarizzato, cioè la Società Monte Paschi di Siena Assist Securit  – Società per Azioni”,  non ha alcuna possibilità di recuperare le somme non versate. In definitiva la Monte Paschi incamera le somme relative ai contratti piazzati ai clienti scaricando il rischio d’impresa su una società controllata destinata, per ovvi motivi statistici (su un tot numero di creditori è fisiologico che alcuni non pagano), a conseguire una perdita anche di natura fiscale (e sarebbe interessante verificare, ma questo non rientra nella competenza territoriale del Tribunale di Trani, se questo non si sia trasformato anche in un illecito profitto fiscale mediante lo strumento del bilancio consolidato di gruppo).
E’ un aspetto quest’ultimo che non ha rilievo diretto sulla vicenda penale sottoposta all’esame di questo Giudice ma che serve a colorare meglio (se ve ne fosse ancora bisogno) la condotta degli istituti di credito in questione.


Conclusioni


L’attività posta in essere dalla Banca 121 in relazione alla vendita delle obbligazioni strutturate BTP TEL e di prodotti similari quali il BOT Reverse BOT Equity BTP-INDEX  BTP-ONLINE, ha avuto connotati sicuramente truffaldini sia perché la struttura dei contratti era tale da rendere improbabile che il sottoscrittore conseguisse un incremento patrimoniale, invece sicuro e certo per l’istituto di credito; sia perché sono stati venduti a soggetti non adeguati perché non aventi le caratteristiche richieste (alta propensione al rischi di investimento, e ottima disponibilità economica); sia, infine, per le modalità con cui è avvenuta la vendita (mancata consegna del foglio informazioni, mancata spiegazione del contenuto del contratto ecc.).
Dall’intero di questa vicenda e alla luce delle inchieste clamorose che contemporaneamente si stanno svolgendo nel Paese, si intuisce l’esistenza di un esteso e infiltrato potere invisibile costituito da gruppi di interesse finanziario i cui componenti vanno rintracciati in alcuni esponenti di settori bancari, finanziari  ed imprenditoriali, che non persegue né il pubblico interesse, né il proprio secondo leggi di mercato, ma solo ed unicamente il raggiungimento di un profitto illecito, perché conseguito calpestando ogni etica, ed in modo altrettanto illecito allontanato dal circuito della ricchezza nazionale.
Questo potere parallelo è sottratto ad ogni controllo democratico, elude ogni verifica politica e rimane immutato nonostante il cambiamento delle maggioranze parlamentari che governano il Paese.
Dunque, un potere illecito, non democratico, occulto ed usurpatore che mina in radice il patto sociale posto a fondamento dell’ordine costituzionale.
La repressione di tali condotte si impone non solo per dare fiducia ai cittadini nelle istituzioni democratiche, ma anche per garantire allo Stato e alla Repubblica la continuazione della tradizione di credibilità internazionale della nostra economia.
Tale attività truffaldina è stata rilevata dalla Banca d’Italia e dalla Consob che hanno avviato ispezioni, fatto prescrizioni e irrogato sanzioni.
E’, tuttavia, evidente che tale attività di vigilanza espletata è stata assolutamente inutile nei fatti perché non ha impedito che centinaia di migliaia di piccoli o piccolissimi risparmiatori venissero depredati.
L’inutilità fattuale di tale attività di vigilanza è riconducibile alla scarsità di mezzi e di uomini a disposizione di Banca d’Italia e di Consob; dalla inesistenza legislativa di strumenti istruttori reali; dalla irrisorietà delle sanzioni amministrative previste dalla normativa; dalla lungaggine procedurale per la irrogazione delle sanzioni; da una scarsissima capacità di coordinamento fra gli organismi di vigilanza; ed infine, ma non da ultimo, dalla sottovalutazione complessiva del fenomeno.
Se ne deve trarre la conclusione che non sono ravvisabili profili di responsabilità penale a titolo di concorso doloso, in qualsiasi forma ipotizzabile, a carico dei dott.ri Fazio e Spaventa, rispetto ad una attività truffaldina intuita troppo tardi dagli organismi di vigilanza.
Rimane, all’esito dell’indagine, l’amara certezza che se fenomeni patologici dovessero manifestarsi ancora nel sistema bancario italiano (come purtroppo sembra emergere dalla cronaca dei vari crac finanziari che si sono susseguiti negli ultimi anni) l’attuale configurazione normativa degli organismi di vigilanza, non consentirebbe, verosimilmente, di prevenirli e reprimerli adeguatamente.


P.q.m.


Visto l’art 411 c.p.p. ordina l’archiviazione del procedimento a carico dei dott.ri Fazio e Spaventa per non aver commesso il fatto.
Ordina la restituzione al P.M. della memoria presentata in udienza perché inammissibile.
Si comunichi alle parti secondo prescrizione codicistica.


Trani,  1.2.2005          


Il Giudice per le indagini preliminari
Dr Michele Nardi


Note



  1. D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 – art. 1 “Disposizioni comuni” – 3° comma che richiama, tra l’altro, la lettera i) del 2° comma, che fa rientrare fra gli strumenti finanziari derivati anche “i  contratti di opzione per acquistare o vendere gli strumenti indicati nelle precedenti lettere e i relativi indici, …omissis… anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti.

  2. Una delle decine di querele (omissis)

  3. L’art. 11 del D.Lgs. 385/93 (T.U.B.) “Raccolta del risparmio”, così dispone:  1.  Ai  fini  del  presente  decreto  legislativo  e’  raccolta del  risparmio  l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma. 2. La raccolta del risparmio tra il pubblico e’ vietata ai soggetti diversi dalle banche. … omissis….

  4. Per << strumenti finanziari derivati>> si intendono gli strumenti finanziari previsti dal comma 2, lettere f), g), h), i) [i contratti di opzione per acquistare o vendere gli strumenti indicati nelle precedenti lettere e i relativi indici, nonché i contratti di opzioni su valute, su tassi d’interesse, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti] e J) [le combinazioni di contratti o di titoli indicati nelle precedenti lettere (quindi anche le combinazioni tra i titoli di Stato – lettera b), e le opzioni – lettera i), del medesimo comma)].

  5. Si riportano esemplificativamente due delle decine di querele presenti in atti:( omissis)

  6. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati

  7. In una massima di allora si legge, ad esempio, che “il nesso economico che intercede tra due entità negoziali, formalmente separate, aventi in apparenza una propria autonomia causale, può esercitare anche riflessi di ordine giuridico, sì da importarne la modificazione tutte le volte in cui risulti che esse, in relazione allo scopo perseguito, furono riguardate dalle parti nel loro complesso, cioè come negozi giuridicamente collegati da un rapporto di interconnessione o di interdipendenza”.

  8. In questo senso si può ricordare Cass., 22 gennaio 1959, n. 144,  che accoglie la richiesta di garanzia nel caso di vendita di un motoscafo che risultava viziato in conseguenza della sproporzione esistente tra lo scafo ed il motore. I termini del problema appaiono già più nitidi in un caso relativo alla locazione di un impianto di registrazione ed alla licenza di produzione di madri sonore dove il primo non avrebbe avuto ragion d’essere se non fosse seguito il contratto di utilizzazione della licenza per la produzione, con tale impianto, delle madri sonore (Cass., 21 giugno 1955, n. 1912). In tal caso l’inadempimento del locatore (per mancanza di assistenza e mancata offerta dei miglioramenti tecnici realizzati) giustifica da parte del conduttore licenziatario la sospensione nel pagamento dei canoni della licenza, oltre che della locazione, sulla base del principio inademplenti non est adimplendum, che trova applicazione anche nell’ambito dei contratti collegati.

  9. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto; GALGANO, Diritto civile e commerciale2, Padova, 1993.

  10. Il principio di autonomia privata costituisce perciò il fondamento della rilevanza del collegamento tra contratti, come testimonia una rapida scorsa delle massime giurisprudenziali. Ne è un esempio Cass., 15 febbraio 1980, n. 1126, secondo cui «le parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale, possono dar vita, contestualmente o no, a diversi e distinti contratti, i quali, caratterizzandosi, ciascuno in funzione della propria causa e conservando l’individualità propria di ciascun tipo negoziale, vengono tuttavia concepiti e voluti come funzionalmente e teleologicamente collegati tra loro e posti in rapporto di reciproca interdipendenza, cosicché le vicende dell’uno debbano necessariamente ripercuotersi su quelle dell’altro, condizionandone la validità e l’efficacia» (Cass., 8 gennaio 1964, n. 24; Cass., 17 novembre 1983, n. 6868).

  11. Osserva Cass., 27 aprile 1995, n. 4645, che “il contratto collegato non è un tipo particolare di contratto, ma un fenomeno di regolamento di interessi economici delle parti, caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull’altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco ( … ) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio”

  12. Nella specie la Corte cassava per difetto di motivazione la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto sussistere il collegamento tra la compravendita di un immobile conclusa tra padre e figlio e la successiva assegnazione di denaro da parte del padre ai suoi tre figli, compreso l’acquirente, a tacitazione dei diritti sulla sua futura eredità. Dichiarato nullo il secondo atto, per violazione del divieto di patti successori (art. 458 c. c.), la Corte di merito dichiarava nulla anche la compravendita, ritenuta collegata al primo. L’affermata esistenza del nesso di collegamento si basava sul duplice rilievo che i due atti erano stati stipulati a breve distanza di tempo l’uno dall’altro e che nel secondo di essi si enunciava, in premessa, che la somma ripartita era stata ricavata dalla precedente vendita. La Corte di Cassazione non censura l’applicazione dell’art. 1419 ai contratti collegati, censura piuttosto i criteri adottati dal giudice di merito per accertare il collegamento. A sentire la Corte, infatti, le circostanze tenute presenti dal giudice di merito “pongono in luce una semplice connessione di carattere strumentale ed economico tra il primo e il secondo contratto, ma non un vincolo di subordinazione giuridica”, che presuppone invece l’accertamento di una positiva volontà dei contraenti: “salvo che nell’ipotesi di collegamento necessario, stabilito dalla legge o di accessorietà (pegno, ipoteca, fideiussione, ecc.) per poter stabilire se le vicende di un negozio si ripercuotono sull’altro deve indagarsi sulla volontà da cui ha tratto origine il collegamento”, volontà che sola può condurre al superamento del “principio della reciproca insensibilità dei contratti” e più precisamente occorreva accertare se il padre (venditore) ed il figlio (acquirente) avessero “inteso subordinare l’efficacia della compravendita alla conclusione del predetto accordo sulla divisione del prezzo ed alla contemporanea rinunzia dei fratelli… ad ogni ulteriore pretesa sulla futura eredità paterna”

  13. Nel caso di specie, un medico si obbligava a comperare, per un prezzo notevolmente superiore al loro valore nominale, alcune quote di capitale di una società che gestiva una casa di cura, mentre la società si obbligava a mettere a sua disposizione alcuni locali e attrezzature. Risolto quest’ultimo contratto, per inadempimento della società, il medico chiedeva anche la risoluzione del primo, che veniva negata dalla Corte di merito. La Cassazione censura su questo punto la sentenza d’appello, risultando carente l’analisi del nesso di collegamento

  14. Nel caso di un mutuo collegato con il contratto di gioco o scommessa si è precisato che l’estensione al mutuo della disciplina riguardante i contratti di gioco (art. 1933 c. c.) «si giustifica solo in quanto la dazione di denaro o di fiches… costituiscono mezzi funzionalmente connessi all’attuazione del gioco o della scommessa e siano, quindi, tali da realizzare tra i giocatori le stesse finalità pratiche del rapporto di gioco». In altri termini «deve concorrere un interesse diretto del mutuante a favorire la partecipazione del mutuatario al gioco e per la rivincita che il primo si augura di realizzare a danno del secondo, partecipando egli stesso al gioco, ovvero per il guadagno connesso a quella partecipazione nell’ipotesi che il mutuo si accordato dalla casa organizzatrice di quest’attività, moralmente e socialmente disapprovata». Se ciò non si verifica, la sola consapevolezza del mutuante che la somma sarà impiegata dal ricevente nel gioco non basta a rendere illecito il mutuo stesso (Cass., 16 giugno 1986, n. 400).
    Nel caso di un contratto preliminare di società (nullo per difetto di forma) avente lo scopo di realizzare lo sfruttamento industriale di un prototipo di imbarcazione, il collegamento tra contratto preliminare di società e contratto di concessione del prototipo viene desunto dal fatto che «la disponibilità del prototipo e la possibilità di riprodurlo su scala industriale costituiva un precedente logico ed economico, nel senso che, ovviamente, alla costituzione della società non si sarebbe pensato se non in funzione di tale finalità e per poter offrire alla società alienante le dovute garanzie di efficienza e di organizzazione industriale». Mentre la concedente non avrebbe ceduto il prototipo se non in quanto fosse stata costituita la società destinata ad onorare gli impegni delle parti e che offrisse garanzia di capacità di realizzazione industriale dell’imbarcazione ceduta (Cass., 18 gennaio 1988, n. 321)

  15. Il principio viene affermato chiaramente dalla Corte di Cassazione  in relazione al caso seguente: A cede a B una farmacia di cui era titolare e che gestiva in due locali di cui però era proprietaria la madre di A (C) e contestualmente cede in locazione a B tali locali adibiti farmacia e un sovrastante appartamento ad uso abitazione, anch’esso di proprietà di C, per una durata di cinque anni e per un corrispettivo globale. La farmacia veniva consegnata, ma non l’appartamento sovrastante. La condanna alla consegna dell’immobile da parte del Tribunale interveniva tuttavia dopo la scadenza del primo quinquennio. Di qui problemi di adempimento parziale (art. 1181 c. c.) e di indivisibilità della prestazione (art. 1316 c. c.) per risolvere i quali diventa rilevante il collegamento tra i diversi contratti. Il giudizio contenuto nella sentenza di merito sulla esistenza di un tale collegamento appare corretto alla Suprema Corte secondo la quale il collegamento può sussistere tra «contratti anche se stipulati tra soggetti diversi giacché questi, nell’esercizio dell’autonomia contrattuale, hanno la capacità di porre in essere negozi i quali… possono essere variamente collegati fra loro in quanto concepiti e voluti come funzionalmente connessi e messi in rapporto di reciproca interdipendenza in vista di un equilibrato regolamento d’interessi» (Cass., 21 ottobre 1983, n. 6193).

  16. Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione era anteriore alla legge sul credito al consumo. Questa legge disciplina ora espressamente i rapporti tra i diversi soggetti e i diversi contratti che danno vita all’operazione. L’art. 125 T. U., al 4° co., prevede che “nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi, il consumatore che abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora ha diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore l’esclusiva per la concessione del credito ai clienti del fornitore”. Questa disposizione mira a ricomporre ad unità l’operazione complessiva formalmente strutturata nei due distinti contratti di mutuo e di compravendita, rendendo possibile al consumatore l’azione nei confronti del finanziatore nel caso di inadempimento del venditore. Questa possibilità è peraltro subordinata ad alcune condizioni: a) l’essere l’acquirente un consumatore; b) l’esistenza di un’esclusiva a favore del finanziatore per la concessione del credito; c) la preventiva messa in mora del venditore da parte del consumatore.

  17. Il principio si trova già affermato in Cass., 22 luglio 1971, n. 2404 relativa ad un caso di vendita di un appartamento dal padre a uno dei suoi figli con contestuale divisione del ricavato tra tutti i figli a tacitazione dei loro diritti sull’eredità. Sentenza che, come si è visto, ribadisce l’applicabilità dell’art. 1419 c. c. ai contratti collegati, ma cassa poi la sentenza di merito per non aver in modo convincente accertato l’esistenza del collegamento nella fattispecie concreta

  18. In discussione era l’intesa raggiunta tra Carlo De Benedetti e Roberto Calvi, che agiva quale legale rappresentante del Banco Ambrosiano, intesa che contemplava, da un lato, le dimissioni del primo dalla carica di amministratore delegato del Banco Ambrosiano e, come contropartita, la «retrocessione» delle azioni, da lui acquistate quando aveva assunto la carica di amministratore di tale società, e la cessione di tratte spiccate da una società del gruppo De Benedetti (TEMSA) su una società del gruppo Pesenti (SOGEA), che ne aveva autorizzato l’emissione, e quindi girate alla CIR, appartenente al gruppo De Benedetti. Le azioni furono trasferite alla società Italmobiliare che provvide a pagare il prezzo usufruendo di un finanziamento del Banco Ambrosiano. La somma pattuita per la cessione delle tratte che la Centrale si era impegnata a rilevare fu invece corrisposto dalla società SOGEA, che a sua volta poté usufruire, almeno in parte, di finanziamenti concessi, ancora una volta dal Banco Ambrosiano.
    Assumeva il Banco Ambrosiano che questa complessa pattuizione si poneva in contrasto con il divieto posto agli amministratori dall’art. 38 della legge bancaria di contrarre obbligazioni e di compiere atti di compravendita, direttamente o indirettamente, con l’azienda che amministrano senza l’autorizzazione del consiglio di amministrazione. La domanda viene respinta sia in primo grado che in appello tra l’altro per il fatto che, a sentire i giudici di merito, se pure risultava accertato in fatto che i finanziamenti erano stati erogati dal Banco Ambrosiano “in vista dell’operazione tra il Banco e De Benedetti», si doveva però escludere che tali contribuzioni fossero poi rilevanti ai fini dell’art. 38 della I. banc., per il fatto che Carlo De Benedetti era rimasto estraneo alla loro negoziazione.

  19. In dottrina si giunge a conclusioni sostanzialmente non dissimili qualificando i contratti collegati come elementi di un unico contratto: SACCO, in Sacco e De Nova, Il contratto, cit., 465 ss

  20. Il problema dell’ammissibilità della cosiddetta truffa realizzata “ingannando” gli apparecchi automatici, pertanto, deve essere risolto  negativamente. La soluzione così prospettata, a suo tempo controversa in dottrina, è oggi da ritenersi confermata dall’avvenuta introduzione nel sistema del codice di una specifica disposizione, l’art. 640 ter, dedicata alla “frode informatica

  21. Cass. 23.1.2002 n 22568

  22. Va ancora precisato che la riferita conclusione teorica sulla diversità della causalità omissiva rispetto a quella commissiva, pur prevalente, è peraltro posta in discussione da una corrente dottrinaria che invece motivatamente sostiene che, anche nella causalità omissiva, “l’effetto condizionante è dunque reale: il tasso di ipoteticità del sillogismo che così si imposta non è maggiore nè diverso da quello di un sillogismo relativo alla causalità attiva”

  23. Cass., sez. IV, 28 settembre 2000 n. 1688; sez. IV, 25 settembre 2001 n. 1652

  24. Cass 23.1.2003 n 22568

  25. Cass. pen., 2000,  pag. 1183

  26. Stella,  Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975

  27. K. Engish.

  28. Stella, op.cit.

  29. Stella, op.cit.

  30. Cass. 22568, del 2003

  31. Cass. 22568, del 2003

  32. In questo senso cons. Cass., sez. IV, 15 marzo 1995 n. 2650

  33. Cass. Sent del 12-1-1993 e del  24-9-1992.

  34. Cass. 12-6-1991

  35. Fra le altre Cass  n 1490/98.

  36. Pagina 34, della sua audizione di fronte alle commissioni  parlamentari,  27 gennaio 2003

  37. Pag. 11436, relazione R., maggiore G.d.F.

  38. Pag. 11418 del fascicolo per le indagini preliminari.

  39. Pag. 8624 del fascicolo per le indagini preliminari.

  40. Foglio 8779 del fascicolo per le indagini preliminari.

  41. Foglio 9156 del fascicolo per le indagini preliminari.

  42. Foglio 8452 del fascicolo per le indagini preliminari.

  43. Foglio 8454 del fascicolo per le indagini preliminari.

  44. Pag. 8455 del fascicolo per le indagini preliminari.

  45. Vedi pag. 8781 del fascicolo per le indagini preliminari.

  46. Pag. 8786 del fascicolo per le indagini preliminari.

  47. Foglio 9264 del fascicolo per le indagini preliminari.

  48. Pag. 8444 del fascicolo per le indagini preliminari.

  49. Foglio 11546 del fascicolo per le indagini preliminari.

  50. Foglio 11636 del fascicolo per le indagini preliminari.

  51. Vedasi foglio 9093 del fascicolo per le indagini preliminari.