Europa: la battaglia per la brevettabilità del software.


 Le istituzioni comunitarie sono alle prese negli ultimi tempi con una delicata questione, a sua volta al centro di aspri dibattiti internazionali e decise prese di posizione di ordine politico e ideologico.


Tale questione riguarda la proposta di modifica del regime attualmente applicabile in materia di tutela giuridica del software, che trova la sua tradizionale disciplina nella direttiva 91/250/CE sulla protezione dei programmi per computer, a sua volta basata sulla convenzione di Berna del 1971 sulla protezione delle opere letterarie e artistiche.  L’esigenza di modificare questa impostazione riposa su numerosi argomenti, tra i quali possono citarsi: il bisogno di tutelare ogni tipo di invenzione, tra cui il software; la possibilità di attirare e proteggere gli investimenti per la ricerca e sviluppo nel settore dell’ICT; l’alto numero di domande di brevetto depositate nei paesi in cui ciò è possibile; la funzione educativa che la descrizione dei software brevettati determinerebbe a favore dei tecnici dell’ICT; la natura industriale del software (al pari di ogni invenzione brevettabile); la compatibilità con trattati internazionali quali il TRIPs (art.27).


             Si tratta di una elencazione che, ovviamente, non rende giustizia della complessità sistematica di ognuna di tali argomentazioni. 


In Europa, dove è forte la tendenza ad attuare una piena armonizzazione dei diritti di proprietà intellettuale e industriale, la protezione brevettuale è gestita dall’Ufficio Europeo dei Brevetti (http://www.epo.org), istituito dalla Convenzione di Monaco del 1973.  Sebbene la disciplina del brevetto europeo sia diversa e “meno armonizzata” rispetto al marchio comunitario (R 40/94/CE),  l’art. 52 della convenzione di Monaco definisce i requisiti per la brevettabilità. La lett. c dello stesso articolo esclude dalla brevettabilità i computer programs “as such” (in quanto tali).


            Questa ambigua definizione finisce con l’allargare le maglie del divieto di cui all’art. 52 lett.c, per cui  di fatto è possibile ottenere dall’EPO (European Patent Office) un brevetto in materia di software, avendo cura di non presentare e basare la domanda unicamente sul computer program (che, in quanto tale, verrebbe escluso), ma come l’elemento caratterizzante di una invenzione i cui effetti innovativi vengono realizzati dal software. 


Chiaramente, anche per la difficoltà di definire con rigore tali “effetti”, è difficile filtrare, aldilà di ogni condizionamento politico o ideologico, le invenzioni che veramente posseggano i richiesti elementi in termini di industrialità e originalità.


            Tale situazione di incertezza, è stata oggetto di numerose critiche, che si polarizzano attorno alle posizioni di chi è favorevole ad una chiara apertura del brevetto al software (ed è questo l’obiettivo della proposta di direttiva), in contrapposizione a chi vede nel brevetto il peggior nemico per lo sviluppo dell’ICT.


Si tenga presente come negli USA, non esistendo limitazioni del tenore di quelle ex art. 52 lett. c della convenzione di Monaco, l’ufficio brevetti e marchi statunitense (USPTO) accorda normalmente protezione brevettuale al software : inoltre, lo stesso ufficio statunitense ha introdotto una nuova classe di brevetti, la classe “705”, relativa ai metodi commerciali basati sul software (cd. “business method patents”).


            Ciò, oltre a consentire il deposito di brevetti in campi estesissimi non solo dell’ICT pura, ma anche del commercio elettronico (es. il famoso brevetto “1-click” della Amazon.com Inc.), determina una spaccatura tra ambienti in cui una certa tecnologia è protetta industrialmente da altri dove non lo è (la tutela brevettuale è soggetta al generale principio della territorialità).


Da qui, dunque, la pressione per modificare la legislazione europea: introdurre una nuova direttiva che modificando l’art. 52 lett. c della convenzione di Monaco del 1973, apra le porte alla brevettabilità delle invenzioni basate sui programmi per computer. 


            Sempre con un enorme grado di semplificazione, si riportano le principali argomentazioni (tra le quali una ricerca condotta da Deutsche Bank) critiche verso un tale intervento:



  • lo sviluppo del software e dell’ICT non sono stati agevolati dalla protezione brevettuale, anzi in molti casi è vero l’esatto contrario;

  • il software consiste principalmente in sistemi di sviluppo piuttosto che in singole idee brevettabili;

  • moltissimi dei software brevettati sono banali e sprovvisti del requisito dell’originalità;

  • numerosi studi indicano come la funzione di stimolo economico dei brevetti sia tutta da dimostrare;

  • l’oscuro linguaggio delle domande di brevetto rende difficile reperire ed esaminare lo stato dell’arte del software (ad evitare domande già coperte da altri brevetti);

  • le azioni per contraffazione di software sono estremamente lente e costose;

  • i rischi posti dai brevetti disincentivano dagli investimenti, anziché attrarli.

Uno dei terreni più irti di difficoltà -e si tratta di uno snodo cruciale- in materia di brevettabilità del software, come dimostrano gli interminabili dibattiti in corso, è la definizione dei requisiti oggettivi del carattere industriale e tecnologico (“technical character”) dell’invenzione rappresentata dal software. 


Di fondamentale importanza, in materia di software e tutela legale, è la presenza (e soprattutto la sua crescente affermazione sul mercato) di modelli di software cd. “a codice aperto”, (trad. dell’ingl. “open source”). Sono sempre più numerose, su scala internazionale, le applicazioni di tale tipologia di software nell’ambito della pubblica amministrazione. Il Governo italiano ha dedicato grande attenzione al tema, conducendo una indagine conoscitiva dalla quale sono scaturite linee d’intervento che hanno reso in molti casi obbligatorio l’adozione dell’open source da parte della PA.


Per maggiori informazioni sull’argomento, si consiglia la visione dei seguenti siti/documenti:



Avv.  Roberto Manno – weblegal@tin.it