REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
SEZIONE DI ANDRIA
In Persona del Giudice Unico, dott. Paolo Rizzi, ha pronunziato la presente
SENTENZA
nella cause civili riunite iscritte ai numeri 1835 e 2063 del registro generale per gli affari contenzioni dell’anno 1996 poste in deliberazione all’udienza del 18 giugno 2002, con contestuale assegnazione dei termini di 60 giorni per il deposito di comparse conclusionali e di successivi 30 giorni per memorie di replica scaduto il 2 novembre 2002 e vertente
TRA
M. Q. e L. P., elett.te domiciliati in Andria, via R. “omissis”, presso lo studio dell’avv. G. T. che li rappresenta e difende, come da mandato a margine dell’atto di citazione;attori
E
A. C., elett.te domiciliato in Andria, via “omissis”, presso lo studio dell’avv. L. d. B. che lo rappresenta e difende, come da procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTO
NONCHE’
V. D. C. e R. L., elett.te domiciliati in Andria, via “omissis”, presso lo studio dell’avv. S. D. T., che li rappresenta e difende, come da procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTI
OGGETTO:risarcimento danni.
CONCLUSIONI
All’udienza del 18 giugno 2002 così i procuratori delle parti hanno precisato le rispettive conclusioni:
per gli attori: “dichiarare la responsabilità del convenuto C. A. ex art.1669 c.c. ovvero, in subordine, ex art.2043 c.c., in ordine ai fenomeni dannosi lamentati dagli attori; per l’effetto condannare il medesimo C. A. al risarcimento dei danni nella misura di £ 17.698.979, come determinata dal C.T.U., ovvero in quell’altra eventualmente minore ritenuta di giustizia; condannare, inoltre, il convenuto al risarcimento dell’ulteriore danno per il minore e/o più disagevole utilizzo dell’immobile nel tempo occorrente per le riparazioni, da liquidarsi secondo equità; con rivalutazione monetaria del credito risarcitorio e con gli interessi legali sulle somme rivalutate, a decorrere dal dì della domanda; condannare, infine, il convenuto alla rifusione delle spese e competenze del giudizio con distrazione in favore del procuratore degli attori”;
per il convenuto A. C.: “rigettare la domanda proposta dai sigg. Q. M. e P. L. con atto del 27/5/96. In subordine, in caso di accoglimento anche solo parziale della stessa, si dichiarino i sigg. D. C. V. e L. R., già soci e contitolari della ditta D. C. e L.-termoidraulici, del/dei fatto/fatti causativi del danno lamentato dai sigg. Q. e P. e li si condanni alla rifusione, a titolo di garanzia dei danni che il Carbone fosse eventualmente tenuto a risarcire ai sigg. Q. e P.. Si rigetti ogni ulteriore domanda, deduzione, eccezione e richiesta. Con vittoria di spese”;
per i convenuti D. C. e L.: “precisa le proprie conclusioni riportandosi integralmente a quelle rassegnate nella comparsa di costituzione e risposta del 10/1/97, così come ulteriormente esplicate in corso di causa”.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 27 maggio 1996 M. Q. e L. P., come generalizzati in epigrafe, hanno convenuto in giudizio A. C., quale titolare dell’omonima impresa edile, esponendo che: nel 1991 acquistarono da S. Z. e C. D. E. un appartamento ubicato in Andria, alla via “omissis”, che i venditori avevano a loro volta acquistato dal costruttore A. C. Nel gennaio del 1996 notarono alcune perdite dall’impianto di riscaldamento e acqua calda con rigonfiamento dell’intonaco e rottura conseguente di alcune piastrelle del pavimento. Il tecnico di fiducia constatò che la causa del fenomeno era da attribuirsi a microfessure formatesi nelle saldature dei tubi non realizzate a regola d’arte con conseguente perdita della tenuta idrica dell’impianto. In alcuni punti, inoltre, si era verificata la rottura di alcune giunzioni.
Tutto ciò premesso hanno concluso chiedendo “accertata e dichiarata la responsabilità del convenuto in ordine ai danni lamentati, condannare il sig. C. A. al pagamento, in favore degli istanti, della somma di lire 35.000.000, o a quell’altra eventualmente minore che verrà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione dalla domanda, nonché delle spese e competenze del giudizio”.
Si è costituito in giudizio A. C., contestando la domanda, in fatto ed in diritto, e chiedendone il rigetto con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite.
Ha eccepito, preliminarmente, l’improponibilità della domanda per non essere lo stesso responsabile dei danni lamentati dagli attori.
Quindi, ha soggiunto che la responsabilità di quanto dedotto in citazione deve essere ascritta alla ditta appaltatrice dei lavori termoidraulici.
Inoltre, ha specificato che i difetti indicati dagli attori non giustificano l’applicabilità al caso di specie dell’istituto disciplinato dall’art.1669 c.c., essendo dovuti alla normale usura ovvero alla mancata manutenzione delle opere.
Infine, ha contestato la quantificazione dei danni effettuata dagli istanti.
Ha concluso chiedendo “il rigetto della domanda attrice per quanto in premessa dedotto, con vittoria di spese ed onorario del giudizio”.
Al presente giudizio è stata riunita la causa R.G. 2063/96 introdotta da A. C. con citazione notificata il 25 ottobre 1996 nei confronti di V. D. C. e R. L., diretta a far valere la responsabilità degli stessi, quali appaltatori dei lavori relativi agli impianti idrici, termici e fognanti, dell’edificio ubicato in Andria, via (omissis), per i danni subiti da Q. e P. In detto giudizio il C. ha chiesto: “in via preliminare si chiede che il presente giudizio sia riunito all’altro pendente tra C. A. ed i sigg. Q. M. e P. L. per motivi di connessione oggettiva. Nel merito si dichiarino D. C. V. e L. R., come sopra domiciliati, soci e contitolari della ditta D. C. & L. – Termoidraulici responsabili del fatto causativo del danno e li si condanni alla rifusione, a titolo di garanzia, dei danni che il Carbone fosse eventualmente condannato a risarcire ai sig. Q. M. e P. L. Con vittoria di spese e di onorario del giudizio”.
Si sono costituiti V. D. C. e R. L. eccependo l’improponibilità dell’azione risarcitoria ex art.1669 c.c. essendo decorso il termine decennale dal compimento dell’opera. Altresì decorso è il termine biennale di cui all’art.1667 c.c. che risulterebbe applicabile alla fattispecie per cui è causa, avuto riguardo alla natura dei vizi denunciati.
Hanno, inoltre, dedotto il proprio difetto di legittimazione passiva in quanto in data 9 ottobre 1991 è stata presentata domanda di cancellazione della ditta collettiva a causa della trasformazione della stessa in ditte individuali.
Nel merito hanno contestato i danni lamentati, rilevando anche che nel corso del tempo possono esservi state manipolazioni agli impianti originari.
Hanno così concluso: “1) preliminarmente ed in via principale: accogliere le eccezioni preliminari così come articolate ai n.1 e 2 della premessa in atto con conseguente rigetto della domanda; 2) nel merito ed in via subordinata: rigettare l’avversa domanda perché del tutto infondata e non provata sia in fatto che in diritto. Con vittoria di spese ed onorari di giudizio”.
La causa è stata istruita mediante produzioni documentali, prova per testi e interrogatorio formale di R. L., mentre V. D. C. ha omesso di comparire all’udienza per l’assunzione della prova per interpello deferitagli senza addurre alcun legittimo impedimento.
È stata disposta C.T.U. e, all’udienza del 18 giugno 2002, omessa ogni altra attività istruttoria, la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti, con contestuale assegnazione di termini di 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali e di 30 per il deposito delle memorie di replica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è fondata solo in parte e deve accolta nei limiti di seguito esposti.
Occorre premettere che “In tema di appalto, la norma di cui all’art. 1669 cod. civ. ha, nonostante la relativa “sedes materiae”, natura indiscutibilmente extracontrattuale (essendo diretta a tutelare l’interesse, di carattere generale, alla conservazione ed alla funzionalità degli edifici e degli altri immobili destinati, per loro natura, ad una lunga durata), e trascende il rapporto negoziale (di appalto, di opera, di vendita) in base al quale il bene sia pervenuto, dal costruttore, nella sfera di dominio di un soggetto che, dalla “rovina”, dall'”evidente pericolo di rovina” o dai “gravi difetti” dell’opera, abbia subito un pregiudizio” (Cass. civ., sez. II, 20 novembre 1998, n.12106).
La particolare natura di tale responsabilità, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, comporta che “è invocabile nei confronti del venditore” sia pure “soltanto nell’ipotesi in cui questi abbia provveduto alla costruzione dell’immobile con propria gestione diretta, ovvero abbia progettato l’opera e diretto i lavori, oppure abbia nominato un direttore dei lavori o sorvegliato personalmente l’esecuzione dell’opera impartendo precise e continue disposizioni all’appaltatore sui materiali da adoperare, sul modo di procedere e sulle tecniche operative per i singoli elementi edilizi, sì da rendere l’appaltatore un “nudus minister”” (Cass. civ., sez. II, 2 ottobre 2000, n.13003).
Naturalmente, perché l’appaltatore ovvero il costruttore venditore debba rispondere ai sensi della norma richiamata è necessario che sussistano in concreto “dei vizi costruttivi che incidono negativamente in maniera profonda sugli elementi essenziali di struttura e di funzionalità dell’opera, influendo sulla sua solidità, efficienza e durata” (Cass. civ., sez. II, 1 marzo 2001, n.3002).
La giurisprudenza, di merito e legittimità, ha interpretato la disposizione di cui all’art.1669 c.c. abbandonando le rigidità iniziali che avevano portato a ritenere la sua applicazione solo ai casi in cui dalle deficienze costruttive fosse derivata una apprezzabile menomazione del bene, tale da comprometterne la statica ovvero la stessa conservazione. Nel corso del tempo, invero, si è affermata una diversa esegesi della fattispecie normativa in esame sintetizzata nella seguente massima: “I gravi difetti di costruzione che a norma dell’art. 1669 cod. civ. possono dare luogo all’azione di responsabilità del committente nei confronti dell’appaltatore non si identificano soltanto con i fenomeni che incidono sulla stabilità dell’edificio, ma possono consistere in alterazioni che pur riguardando direttamente una parte dell’opera, incidono in modo globale sulla sua struttura e funzionalità e ne menomano apprezzabilmente il godimento” (Cass. civ., sez. III, 12 maggio 1999, n.4692).
Orbene, nel caso di specie, alla luce delle risultanze dell’elaborato del C.T.U. ing. F. A., esauriente e condiviso dal Tribunale in quanto immune da vizi logici e scientifici, deve escludersi che l’immobile attoreo sia stato interessato da fenomeni dannosi tali da integrare la fattispecie in commento.
Il consulente tecnico di ufficio ha individuato, anche sulla scorta dell’atto di citazione e della perizia di parte redatta dall’ing. M., quattro fenomeni dannosi e cioè: “A.1) sfaldamento della vernice sulle pareti perimetrali che contornano la soletta del balcone lato EST…le lesioni si estendono per 20 cm al disopra del battiscopa…A.2) sulla parete perimetrale EST, sottostante la caldaia…erano evidenti gli stessi danni alla vernice della parete già descritti e alcune macchie, residuo di una precedente umidità manifestatasi sulla faccia interna della parete. A.3) sfaldamento della vernice alla base della parete Sud, prospiciente il “presunto giunto di dilatazione” e confinante con altro appartamento…A.4) incurvatura e lesione di n°5 piastrelle di pavimentazione addossate al muro lato pozzo luce”.
Nelle fotografie allegate alla relazione è possibile percepire visivamente il tipo e l’entità delle lesioni riscontrate all’interno dell’immobile di proprietà degli attori Q. e P.
La causa dei fenomeni di cui sub A.1) e A.2) è “da addebitare alla mancata sigillatura delle fughe tra i blocchi di conglomerato cementizio “facciavista”, mentre l’incurvatura e lesione delle piastrelle è dovuta, a giudizio del C.T.U., alla “mancata coibentazione della tubazione dell’acqua calda per uso sanitario” e, infine, lo sfaldamento delle vernice descritto al punto A.3 è giudicato “del tutto accidentale e non addebitabile con certezza ad un difetto di costruzione”.
Orbene, i danni così come fedelmente riferiti dall’ing. A. e desumibili dalla documentazione fotografica in atti, non contestati dalle parti, consentono tranquillamente di escludere che gli stessi siano tali da rientrare nell’ambito della previsione dell’art.1669 c.c., atteso che per la loro natura intrinseca e, soprattutto per la portata delle conseguenze sull’immobile, non risultano idonei a diminuirne in modo apprezzabile il godimento o, a maggior ragione, ad incidere strutturalmente sullo stesso.
In modo particolare l’esame del menzionato corredo fotografico allegato alla C.T.U. consente di ridimensionare l’esatta estensione dei fenomeni lesivi riconducendoli ad indubbi disagi abitativi ma che comunque non compromettono la possibilità stessa di abitare l’appartamento e di utilizzarlo e goderne in pieno.
Infatti l’appartamento degli attori ha subito solo alcuni danni alla pitturazione delle pareti, invero circoscritti e limitati, nonché la lesione di cinque piastrelle che non può certo cagionare particolare pregiudizio alla serena abitabilità dello stesso.
D’altra parte gli stessi attori non hanno provato che a causa dei difetti rilevati hanno subito una significativa riduzione del godimento dell’immobile.
La stessa giurisprudenza della Suprema Corte, allorché ammette la riconducibilità di taluni fenomeni ovvero di taluni vizi costruttivi alla specifica e peculiare prescrizione normativa di cui all’art.1669 c.c., specifica che detti fenomeni o vizi devono in concreto presentare carattere di estensione ed invasività all’interno del bene tale da comprometterne seriamente ed in profondità la fruibilità (ad esempio, per ciò che attiene ad infiltrazioni di acqua piovana, cfr. Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 1999, n.13112: “In proposito, giova premettere che appare senz’altro corretta, perché conforme ad un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’affermazione di principio posta dalla corte d’appello a fondamento della sua contestata pronuncia, e cioè quella secondo la quale i gravi difetti dell’edificio, o di altro immobile, che possono dar luogo a responsabilità del costruttore nei confronti del committente o dell’acquirente à sensi dell’art. 1669 cod. civ. sono ravvisabili, oltre che nell’ipotesi di rovina e di evidente pericolo di rovina, anche in presenza di fatti che, senza influire sulla stabilità, pregiudicano in modo grave la funzione cui l’immobile è destinato e non può dubitarsi che fra i gravi difetti, rilevanti sotto il profilo considerato, debbano essere fatti rientrare anche quelli inerenti alla realizzazione della copertura di un fabbricato – terrazza o tetto – che determinino non esigue e non contenute infiltrazioni d’acqua e di umidità negli alloggi sottostanti (cfr., in proposito, Cass. Sez. II civ., sent. n. 2431 dell’8.4.1986)”).
La non applicabilità, al caso di specie, dell’art.1669 c.c. non comporta, tuttavia, l’integrale rigetto della domanda che ben può essere esaminata sotto altro aspetto e, cioè, sotto il profilo dell’applicabilità del generale principio codificato dall’art.2043 c.c. Né tale indagine è preclusa dalla circostanza che nell’atto di citazione gli attori hanno espressamente richiamato l’art.1669 c.c. ovvero che hanno indicato la causa dei danni al proprio immobile in vizi delle condotte idriche. Infatti, per un verso il Giudice non può ritenersi vincolato dalla qualificazione giuridica della pretesa fatta valere in giudizio così come effettuata dall’attore e, per altro verso, non può ritenersi che l’individuazione di una causa efficiente del danno precluda al danneggiato di ottenere il ristoro del pregiudizio subito se, all’esito del giudizio ed in particolare degli accertamenti tecnici disposti nel corso dello stesso, emerge un diverso fattore causativo di quello stesso danno di cui si chiede il risarcimento, sempre che ciò non determini rilevanti riflessi sulla disciplina processuale e sostanziale della fattispecie dedotta in giudizio.
Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, non vi è astratta incompatibilità tra l’ipotesi speciale di responsabilità di cui all’art.1669 c.c. e quella più generale prevista dall’art.2043 c.c. : “La giurisprudenza di questa Corte ha ravvisato nella responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c., nonostante la collocazione di questa disposizione normativa nell’ambito del contratto di appalto, una ipotesi di responsabilità extracontrattuale, essendo tale norma diretta a tutelare l’interesse, di carattere generale, alla conservazione e alla funzionalità degli edifici e degli altri immobili destinati, per loro natura, ad una lunga durata (in tal senso v., da ultimo, la sentenza 28 novembre 1998 n. 12106). Tale azione di responsabilità è stata, pertanto, estesa anche al di fuori del contratto di appalto ed è stata riconosciuta anche a favore dell’acquirente dell’immobile nei confronti del venditore-costruttore (V., di recente, Cass. 5 ottobre 1998 n.9853). L’esistenza di questa ipotesi speciale di responsabilità non fa, però, venire meno l’applicabilità della norma generale dell’art.2043 c.c. rispetto agli eventi indicati nell’art. 1669, almeno nei casi in cui non ricorrano le condizioni previste da quest’ultima norma. La natura di norma speciale dell’art. 1669 rispetto all’art.2043 (qualche volta affermata da questa Corte: v. la sentenza 9 gennaio 1990 n. 8) presuppone l’astratta possibilità di applicazione delle due norme, onde, una volta che la norma speciale non possa essere in concreto applicata, permane l’applicabilità della norma generale” (Cass. civ., sez. III, 7 aprile 1999, n.3338).
È necessario, poi, che nel caso concreto, ritenuta l’astratta applicabilità della previsione generale in materia di illecito extracontrattuale, ne sussistano tutti i presupposti. In particolare, il danneggiato non potrà fruire della presunzione iuris tantum di responsabilità dell’appaltatore-venditore (Cass. civ., sez. I, 6 dicembre 2000, n.15488), ma dovrà provare rigorosamente il nesso eziologico tra i danni e la condotta dell’asserito danneggiante e la sussistenza, in capo a questo, del requisito soggettivo del dolo ovvero della colpa.
Orbene, nel caso di specie non vi è dubbio che sia ascrivibile alla condotta colposa del convenuto C. il fatto generatore dei danni riportati in C.T.U. sub A.1) e A.2), in quanto il consulente di ufficio ing. A. ha evidenziato che le infiltrazioni di acqua all’interno dell’appartamento attoreo sono state causate dalla assoluta assenza di chiusura delle fughe tra i blocchi di conglomerato cementizio facciavista. Tale omissione è senz’altro attribuibile alla condotta colposa del costruttore dell’immobile, atteso che non si è verificato il meno di un elemento costruttivo in origine esistente ma la sua omessa collocazione, sicché l’acqua piovana ha potuto penetrare all’interno dell’abitazione e, nel tempo, produrre i danni di cui alla relazione di consulenza. A conforto di tale assunto vi è che il C.T.U. ha riscontrato la descritta deficienza in più punti dell’abitazione e proprio in posizione esposta all’azione degli agenti atmosferici.
A conclusioni diverse deve giungersi con riguardo ai fenomeni descritti sub A.3), in quanto giudicati accidentali, e a quelli di cui alla lettera A.4).
Per ciò che attiene a questi ultimi, dagli atti del giudizio è emerso che la realizzazione delle tubazioni idriche è stata realizzata dai convenuti D. C. e L. (cfr. fatture versate in atti dal C.), cui il C. aveva appaltato i lavori relativi, ciò che non è stato oggetto di contestazione tra le parti.
Tale circostanza era stata portata a conoscenza degli attori prima della instaurazione del presente giudizio (cfr. missiva inviata all’avv. T. dal procuratore del convenuto) i quali, tuttavia, hanno omesso di spiegare alcuna domanda nei loro confronti.
Per pacifica giurisprudenza, nel caso di danni cagionati a terzi dall’appaltatore non può essere chiamato a rispondere il committente, se non in presenza di particolari circostanze: “l’appaltatore è di regola l’unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione delle opere appaltate. A connotare l’operato dell’appaltatore è l’autonomia gestionale del rischio con riferimento all’assetto organizzativo dell’impresa, alla scelta ed all’utilizzo dei mezzi ritenuti necessari ed alle modalità di esecuzione dell’opera commissionata. L’autonomia e la libertà di gestione dell’appaltatore – che si obbliga verso il committente a fornirgli il risultato della sua opera – comportano che il rischio inerente alla cosa oggetto delle opere appaltate si sposta dal committente all’assuntore dell’esecuzione dell'”opus”, con inapplicabilità della responsabilità del committente ex articolo 2049 c.c. Inoltre, durante tutto il tempo dell’esecuzione dell’opera e fino alla consegna all’appaltante, il dovere di custodia e di vigilanza sulla cosa da consegnare passa dal committente all’appaltatore il quale è tenuto sia ad impedire che la cosa sia distrutta o si deteriori, sia a rispettare il principio del “neminem laedere”, ossia evitare di arrecare danni a terzi a causa dell’esecuzione dell’opera commissionata. È pertanto da escludere, in relazione ai danni arrecati a terzi nel corso ed a causa dell’esecuzione dei lavori, una responsabilità anche del committente non potendo questi controllare le modalità dell’organizzazione che si è data l’impresa appaltatrice. Il potere di vigilanza e controllo che, all’interno del contratto di appalto, il committente può esercitare nel proprio interesse, è irrilevante sul piano della “responsabilità extracontrattuale derivante dall’esecuzione delle opere commissionate. Men che meno, avuto riguardo alla ripetuta autonomia della posizione dell’appaltatore, è ipotizzabile un dovere del committente di cooperare materialmente all’esecuzione del lavoro dato in appalto. L’appaltatore deve quindi di regola ritenersi l’unico responsabile dei danni derivanti a terzi dalla esecuzione dell’opera, salva la corresponsabilità del committente in caso di specifiche violazioni di regole di cautela nascenti ex articolo 2043 c.c. ovvero in caso di una riferibilità dell’evento al committente stesso per “culpa in eligendo” per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea, ovvero quando l’appaltatore, in base ai patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente ed abbia agito quale “nudus minister” del committente medesimo attuandone specifiche direttive, ovvero ancora quando il committente si sia fattualmente ingerito nell’esecuzione del lavoro materialmente cooperando all’impresa appaltatrice palesemente priva delle necessarie capacità e dei mezzi tecnici, indispensabili per eseguire la prestazione, senza il pericolo di arrecare danni a terzi. La corresponsabilità del committente verso i terzi non può essere fatta discendere dalla mancata sorveglianza dell’attività dell’appaltatore risultata dannosa e dalla negligenza consistita nel non aver impedito le conseguenze pregiudizievoli dalla stessa derivabili: l’appaltatore, infatti, è ed agisce come imprenditore autonomo (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 20/11/1997 n. 11566; 29/10/1997 n. 10652; 12/2/1997 n. 1284; 30/5/1996 n. 5007)” (Cass. civ., sez. II, 26 giugno 2000, n.8686). Più recentemente, la Suprema Corte ha ribadito che “la responsabilità propria dell’appaltatore, in relazione allo speciale contenuto delle obbligazioni nascenti a suo carico dal contratto di appalto, sussiste anche nell’ipotesi in cui la sua sfera di autonomia e discrezionalità venga limitata dal controllo e dall’ingerenza del committente e dalle istruzioni dal medesimo impartite, direttamente o tramite il direttore dei lavori, tale sfera di autonomia dovendosi ritenere esclusa solo nel caso in cui ingerenza e istruzioni abbiano una continuità ed analicità tali da elidere, nell’esecutore, ogni facoltà di vaglio, di guisa che il rapporto di appalto si trasforma, ipso facto, in un rapporto di lavoro subordinato. Pertanto l’autonomia e la responsabilità dell’appaltatore nell’esecuzione dell’opera non vengono meno per il solo fatto che egli abbia ottemperato a specifiche richieste o a direttive del committente, sia perché tale circostanza non è idonea a trasformarlo in nudus minister di quest’ultimo, sia perché egli, comunque, non è tenuto a seguire supinamente direttive, che importino lesione di diritti assoluti dei terzi, ai quali non può opporre di aver cagionato il danno nell’esecuzione degli obblighi contrattuali assunti verso il committente” (Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2002 n.1154).
Nel caso di specie non è stata offerta alcuna prova circa l’ingerenza spiegata dal C. nell’attività svolta da D. C. e L., tale da trasferire sullo stesso le conseguenze pregiudievoli dei comportamenti tenuti da questi ultimi.
Neppure può ritenersi che in virtù dell’applicazione al caso di specie della norma generale di cui all’art.2043 c.c. possa trovare applicazione il principio sancito dall’art.1669 c.c. nella sua interpretazione giurisprudenziale, che consente l’azione diretta nei confronti del venditore-costruttore, proprio perché la norma in oggetto, avendo natura speciale ed essendo circoscritta a particolari vizi dell’opera, non enuclea un principio generale in grado di derogare al principio in base al quale del danno deve rispondere colui che lo ha commesso.
Quanto alla determinazione dell’ammontare dei danni, si può procedere dalla quantificazione effettuata dal C.T.U. escludendo le voci risarcitorie relative alle piastrelle ed alla parete A.3).
Poiché il consulente ha, poi, unitariamente considerato i danni alle tre pareti, mentre deve essere risarcito solo quello a due di esse, dall’ammontare relativo dovrà essere detratto un terzo dell’importo, sicché il convenuto C. dovrà pagare in favore degli attori la somma di € 2.217,631.
Costituendo espressione di un debito di valore, le suddette somme devono essere rivalutate all’attualità – con decorrenza dalla data di espletamento della consulenza tecnica d’ufficio (27 gennaio 1999) – sulla base dell’indice I.S.T.A.T. relativo ai prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2000, n.6682).
Oltre alla rivalutazione del credito, già riconosciuta, è stato chiesto anche il riconoscimento degli interessi sul credito, con decorrenza dalla data della domanda.
Tale questione deve essere valutata alla luce dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza, a Sezioni Unite, n.1712 del 17.2.1995.
Tale sentenza, infatti, da un lato, richiamando il combinato disposto degli artt. 2056 e 1223 c.c., riconosce in caso di ristoro per equivalente del danno da fatto illecito la risarcibilità del danno derivante da ritardo e dunque dal mancato godimento dell’equivalente monetario del bene perduto (lucro cessante) “per tutto il tempo che intercorre fra il fatto e la sua liquidazione”, danno liquidabile anche con l’attribuzione di interessi, e, dall’altro, esclude che si possa assumere a base del calcolo di tale danno la somma liquidata come capitale nella misura rivalutata definitivamente al momento della pronuncia, dovendo calcolarsi gli interessi sulla somma rivalutata di anno in anno ovvero calcolando indici medi di rivalutazione.
In conformità al combinato disposto degli artt.2056, 1223, 1226 e 1227 c.c., il danno da ritardo in materia di responsabilità da fatto illecito non è presunto ex lege (non essendo applicabile, come precisato dalla Suprema Corte nella citata sentenza, l’art. 1224 I comma c.c.), ma deve essere allegato e provato facendo ricorso anche e soltanto a presunzioni semplici ed al criterio equitativo di cui all’art. 2056, comma 2, c.c.
Orbene, per la esiguità delle somme dovute ed in relazione alla mancata allegazione di elementi di fatto da cui desumere un impiego delle somme de quo diverso da quello diretto alla riparazione dell’immobile di cui gli attori sono proprietari non ritiene il Tribunale di riconoscere l’interesse richiesto.
Per quanto attiene, poi, al periodo intercorrente tra la data della presente sentenza e la data dell’effettivo pagamento, sul totale delle somme sopra liquidate dovranno essere corrisposti, per effetto della pronuncia di liquidazione del danno che attribuisce al quantum dovuto natura di debito di valuta, in applicazione dell’art. 1282 c.c., gli interessi annui al tasso legale.
Le somme così liquidate dovranno gravare per intero su A. C. poiché, in relazione alla specifica natura della causa dei danni, alcuna responsabilità esclusiva o concorrente può ravvisarsi in capo ai convenuti che hanno solo provveduto alla realizzazione dei lavori relativi alle tubazione e nei confronti dei quali non è stata spiegata alcuna domanda dagli attori danneggiati.
Sussistono giusti motivi e d’equità per compensare le spese di lite nella misura di due terzi tra gli attori e il convenuto C., mentre per ciò che attiene alle altre parti, le spese medesime verranno interamente compensate.
P.Q.M.
Il Giudice unico di Trani, sezione di Andria, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta da M. Q. e L. P., con atto di citazione notificato in data 27 maggio 1996 nei confronti di A. C., nonché sulla domanda proposta da Antonio Carbone con citazione notificata il 25 ottobre 1996 nei confronti di V. D. C. e R. L., rigettata ogni altra istanza, così dispone:
Accoglie parzialmente la domanda e per l’effetto condanna A. C. al pagamento in favore di M. Q. e L. P. della somma complessiva di € 2.217,631 da rivalutarsi all’attualità con decorrenza dal 27 gennaio 1999 , sulla base dell’indice I.S.T.A.T. relativo ai prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo soddisfo;
Compensa le spese di lite tra A. C. e M. Q. e L. P. nella misura dei due terzi, ivi comprese le spese di C.T.U.; condanna A. C. al pagamento in favore di M. Q. e L. P. delle spese residue che liquida in complessivi € 1.208,67, di cui € 292,67 per spese, € 416,00 per diritti ed € 500,00 per onorari di avvocato, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore anticipatario.
Dichiara interamente compensate le spese tra le altre parti.
così deciso in Andria, addì 20 dicembre 2002.
Il Giudice
Dott. Paolo RIZZI