REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI TRANI
SEZIONE DI ANDRIA


In Persona del Giudice Unico, dott. Paolo Rizzi, ha pronunziato la presente


SENTENZA


 nella cause civili riunite iscritte ai numeri 1835 e 2063 del registro generale per gli affari contenzioni dell’anno 1996 poste in deliberazione all’udienza del 18 giugno 2002, con contestuale assegnazione dei termini di 60 giorni per il deposito di comparse conclusionali e di successivi 30 giorni per memorie di replica scaduto il 2 novembre 2002 e vertente


TRA


M. Q. e L. P., elett.te domiciliati in Andria, via R. “omissis”, presso lo studio dell’avv. G. T. che li rappresenta e difende, come da mandato a margine dell’atto di citazione;attori


E


A. C., elett.te domiciliato in Andria, via “omissis”, presso lo studio dell’avv. L. d. B. che lo rappresenta e difende, come da procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTO


NONCHE’


V. D. C. e R. L., elett.te domiciliati in Andria, via “omissis”, presso lo studio dell’avv. S. D. T., che li rappresenta e difende, come da procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTI


OGGETTO:risarcimento danni.


CONCLUSIONI
 All’udienza del 18 giugno 2002 così i procuratori delle parti hanno precisato le rispettive conclusioni:
per gli attori: “dichiarare la responsabilità del convenuto C. A. ex art.1669 c.c. ovvero, in subordine, ex art.2043 c.c., in ordine ai fenomeni dannosi lamentati dagli attori; per l’effetto condannare il medesimo C. A. al risarcimento dei danni nella misura di £ 17.698.979, come determinata dal C.T.U., ovvero in quell’altra eventualmente minore ritenuta di giustizia; condannare, inoltre, il convenuto al risarcimento dell’ulteriore danno per il minore e/o più disagevole utilizzo dell’immobile nel tempo occorrente per le riparazioni, da liquidarsi secondo equità; con rivalutazione monetaria del credito risarcitorio e con gli interessi legali sulle somme rivalutate, a decorrere dal dì della domanda; condannare, infine, il convenuto alla rifusione delle spese e competenze del giudizio con distrazione in favore del procuratore degli attori”;
per il convenuto A. C.: “rigettare la domanda proposta dai sigg. Q. M. e P. L. con atto del 27/5/96. In subordine, in caso di accoglimento anche solo parziale della stessa, si dichiarino i sigg. D. C. V. e L. R., già soci e contitolari della ditta D. C. e L.-termoidraulici, del/dei fatto/fatti causativi del danno lamentato dai sigg. Q. e P. e li si condanni alla rifusione, a titolo di garanzia dei danni che il Carbone fosse eventualmente tenuto a risarcire ai sigg. Q. e P.. Si rigetti ogni ulteriore domanda, deduzione, eccezione e richiesta. Con vittoria di spese”;
per i convenuti D. C. e L.: “precisa le proprie conclusioni riportandosi integralmente a quelle rassegnate nella comparsa di costituzione e risposta del 10/1/97, così come ulteriormente esplicate in corso di causa”.


SVOLGIMENTO  DEL  PROCESSO


Con citazione notificata il 27 maggio 1996 M. Q. e L. P., come generalizzati in epigrafe, hanno convenuto in giudizio A. C., quale titolare dell’omonima impresa edile, esponendo che: nel 1991 acquistarono da S. Z. e C. D. E. un appartamento ubicato in Andria, alla via “omissis”, che i venditori avevano a loro volta acquistato dal costruttore A. C. Nel gennaio del 1996 notarono alcune perdite dall’impianto di riscaldamento e acqua calda con rigonfiamento dell’intonaco e rottura conseguente di alcune piastrelle del pavimento. Il tecnico di fiducia constatò che la causa del fenomeno era da attribuirsi a microfessure formatesi nelle saldature dei tubi non realizzate a regola d’arte con conseguente perdita della tenuta idrica dell’impianto. In alcuni punti, inoltre, si era verificata la rottura di alcune giunzioni.
Tutto ciò premesso hanno concluso chiedendo “accertata e dichiarata la responsabilità del convenuto in ordine ai danni lamentati, condannare il sig. C. A. al pagamento, in favore degli istanti, della somma di lire 35.000.000, o a quell’altra eventualmente minore che verrà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione dalla domanda, nonché delle spese e competenze del giudizio”. 
Si è costituito in giudizio A. C., contestando la domanda, in fatto ed in diritto, e chiedendone il rigetto con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite.
Ha eccepito, preliminarmente, l’improponibilità della domanda per non essere lo stesso responsabile dei danni lamentati dagli attori.
Quindi, ha soggiunto che la responsabilità di quanto dedotto in citazione deve essere ascritta alla ditta appaltatrice dei lavori termoidraulici.
Inoltre, ha specificato che i difetti indicati dagli attori non giustificano l’applicabilità al caso di specie dell’istituto disciplinato dall’art.1669 c.c., essendo dovuti alla normale usura ovvero alla mancata manutenzione delle opere.
Infine, ha contestato la quantificazione dei danni effettuata dagli istanti.
Ha concluso chiedendo “il rigetto della domanda attrice per quanto in premessa dedotto, con vittoria di spese ed onorario del giudizio”.
Al presente giudizio è stata riunita la causa R.G. 2063/96 introdotta da A. C. con citazione notificata il 25 ottobre 1996 nei confronti di V. D. C. e R. L., diretta a far valere la responsabilità degli stessi, quali appaltatori dei lavori relativi agli impianti idrici, termici e fognanti, dell’edificio ubicato in Andria, via (omissis), per i danni subiti da Q. e P. In detto giudizio il C. ha chiesto: “in via preliminare si chiede che il presente giudizio sia riunito all’altro pendente tra C. A. ed i sigg. Q. M. e P. L. per motivi di connessione oggettiva. Nel merito si dichiarino D. C. V. e L. R., come sopra domiciliati, soci e contitolari della ditta D. C. & L. – Termoidraulici responsabili del fatto causativo del danno e li si condanni alla rifusione, a titolo di garanzia, dei danni che il Carbone fosse eventualmente condannato a risarcire ai sig. Q. M. e P. L. Con vittoria di spese e di onorario del giudizio”.
Si sono costituiti V. D. C. e R. L. eccependo l’improponibilità dell’azione risarcitoria ex art.1669 c.c. essendo decorso il termine decennale dal compimento dell’opera. Altresì decorso è il termine biennale di cui all’art.1667 c.c. che risulterebbe applicabile alla fattispecie per cui è causa, avuto riguardo alla natura dei vizi denunciati.
Hanno, inoltre, dedotto il proprio difetto di legittimazione passiva in quanto in data 9 ottobre 1991 è stata presentata domanda di cancellazione della ditta collettiva a causa della trasformazione della stessa in ditte individuali.
Nel merito hanno contestato i danni lamentati, rilevando anche che nel corso del tempo possono esservi state manipolazioni agli impianti originari.
Hanno così concluso: “1) preliminarmente ed in via principale: accogliere le eccezioni preliminari così come articolate ai n.1 e 2 della premessa in atto con conseguente rigetto della domanda; 2) nel merito ed in via subordinata: rigettare l’avversa domanda perché del tutto infondata e non provata sia in fatto che in diritto. Con vittoria di spese ed onorari di giudizio”.
La causa è stata istruita mediante produzioni documentali, prova per testi e interrogatorio formale di R. L., mentre V. D. C. ha omesso di comparire all’udienza per l’assunzione della prova per interpello deferitagli senza addurre alcun legittimo impedimento.
È stata disposta C.T.U. e, all’udienza del 18 giugno 2002, omessa ogni altra attività istruttoria, la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti, con contestuale assegnazione di termini di 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali e di 30 per il deposito delle memorie di replica.


MOTIVI DELLA DECISIONE


La domanda è fondata solo in parte e deve accolta nei limiti di seguito esposti.
Occorre premettere che “In  tema  di  appalto,  la  norma  di cui all’art. 1669 cod. civ. ha, nonostante  la  relativa  “sedes  materiae”, natura indiscutibilmente extracontrattuale    (essendo  diretta  a  tutelare  l’interesse,  di carattere  generale,  alla  conservazione ed alla funzionalità degli edifici  e  degli  altri  immobili destinati, per loro natura, ad una lunga  durata),  e  trascende  il  rapporto negoziale (di appalto, di opera,  di  vendita)  in  base  al  quale  il bene sia pervenuto, dal costruttore,  nella  sfera  di  dominio  di  un  soggetto  che, dalla “rovina”,  dall'”evidente  pericolo  di rovina” o dai “gravi difetti” dell’opera,  abbia  subito  un  pregiudizio” (Cass. civ., sez. II, 20 novembre 1998, n.12106).
La particolare natura di tale responsabilità, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, comporta che “è  invocabile  nei  confronti del venditore” sia pure “soltanto nell’ipotesi in cui  questi  abbia  provveduto  alla  costruzione  dell’immobile  con propria  gestione  diretta, ovvero abbia progettato l’opera e diretto i lavori, oppure  abbia  nominato  un  direttore  dei  lavori  o sorvegliato  personalmente l’esecuzione dell’opera impartendo precise e continue  disposizioni all’appaltatore sui materiali da adoperare, sul  modo  di  procedere  e  sulle  tecniche  operative per i singoli elementi edilizi, sì da rendere l’appaltatore un “nudus minister”” (Cass. civ., sez. II, 2 ottobre 2000, n.13003).
Naturalmente, perché l’appaltatore ovvero il costruttore venditore debba rispondere ai sensi della norma richiamata è necessario che sussistano in concreto “dei vizi costruttivi che incidono negativamente in  maniera  profonda  sugli  elementi  essenziali  di struttura e di funzionalità  dell’opera,  influendo sulla sua solidità, efficienza e durata” (Cass. civ., sez. II, 1 marzo 2001, n.3002).
La giurisprudenza, di merito e legittimità, ha interpretato la disposizione di cui all’art.1669 c.c. abbandonando le rigidità iniziali che avevano portato a ritenere la sua applicazione solo ai casi in cui dalle deficienze costruttive fosse derivata una apprezzabile menomazione del bene, tale da comprometterne la statica ovvero la stessa conservazione. Nel corso del tempo, invero, si è affermata una diversa esegesi della fattispecie normativa in esame sintetizzata nella seguente massima: “I  gravi  difetti di costruzione che a norma dell’art. 1669 cod. civ. possono  dare luogo all’azione di responsabilità del committente nei confronti   dell’appaltatore  non  si  identificano  soltanto  con  i fenomeni  che  incidono  sulla  stabilità  dell’edificio, ma possono consistere  in alterazioni che pur riguardando direttamente una parte dell’opera,    incidono   in  modo  globale  sulla  sua  struttura  e funzionalità    e    ne   menomano  apprezzabilmente  il  godimento” (Cass. civ., sez. III, 12 maggio 1999, n.4692).
Orbene, nel caso di specie, alla luce delle risultanze dell’elaborato del C.T.U. ing. F. A., esauriente e condiviso dal Tribunale in quanto immune da vizi logici e scientifici, deve escludersi che l’immobile attoreo sia stato interessato da fenomeni dannosi tali da integrare la fattispecie in commento.
Il consulente tecnico di ufficio ha individuato, anche sulla scorta dell’atto di citazione e della perizia di parte redatta dall’ing. M., quattro fenomeni dannosi e cioè: “A.1) sfaldamento della vernice sulle pareti perimetrali che contornano la soletta del balcone lato EST…le lesioni si estendono per 20 cm al disopra del battiscopa…A.2) sulla parete perimetrale EST, sottostante la caldaia…erano evidenti gli stessi danni alla vernice della parete già descritti e alcune macchie, residuo di una precedente umidità manifestatasi sulla faccia interna della parete. A.3) sfaldamento della vernice alla base della parete Sud, prospiciente il “presunto giunto di dilatazione” e confinante con altro appartamento…A.4) incurvatura e lesione di n°5 piastrelle di pavimentazione addossate al muro lato pozzo luce”.
Nelle fotografie allegate alla relazione è possibile percepire visivamente il tipo e l’entità delle lesioni riscontrate all’interno dell’immobile di proprietà degli attori Q. e P.
La causa dei fenomeni di cui sub A.1) e A.2) è “da addebitare alla mancata sigillatura delle fughe tra i blocchi di conglomerato cementizio “facciavista”, mentre l’incurvatura e lesione delle piastrelle è dovuta, a giudizio del C.T.U., alla “mancata coibentazione della tubazione dell’acqua calda per uso sanitario” e, infine, lo sfaldamento delle vernice descritto al punto A.3 è giudicato “del tutto accidentale e non addebitabile con certezza ad un difetto di costruzione”.
Orbene, i danni così come fedelmente riferiti dall’ing. A. e desumibili dalla documentazione fotografica in atti, non contestati dalle parti, consentono tranquillamente di escludere che gli stessi siano tali da rientrare nell’ambito della previsione dell’art.1669 c.c., atteso che per la loro natura intrinseca e, soprattutto per la portata delle conseguenze sull’immobile, non risultano idonei a diminuirne in modo apprezzabile il godimento o, a maggior ragione, ad incidere strutturalmente sullo stesso.
In modo particolare l’esame del menzionato corredo fotografico allegato alla C.T.U. consente di ridimensionare l’esatta estensione dei fenomeni lesivi riconducendoli ad indubbi disagi abitativi ma che comunque non compromettono la possibilità stessa di abitare l’appartamento e di utilizzarlo e goderne in pieno.
Infatti l’appartamento degli attori ha subito solo alcuni danni alla pitturazione delle pareti, invero circoscritti e limitati, nonché la lesione di cinque piastrelle che non può certo cagionare particolare pregiudizio alla serena abitabilità dello stesso.
D’altra parte gli stessi attori non hanno provato che a causa dei difetti rilevati hanno subito una significativa riduzione del godimento dell’immobile.
La stessa giurisprudenza della Suprema Corte, allorché ammette la riconducibilità di taluni fenomeni ovvero di taluni vizi costruttivi alla specifica e peculiare prescrizione normativa di cui all’art.1669 c.c., specifica che detti fenomeni o vizi devono in concreto presentare carattere di estensione ed invasività all’interno del bene tale da comprometterne seriamente ed in profondità la fruibilità (ad esempio, per ciò che attiene ad infiltrazioni di acqua piovana, cfr. Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 1999, n.13112: “In  proposito,  giova  premettere  che  appare  senz’altro corretta, perché  conforme ad un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità,  l’affermazione  di  principio  posta  dalla  corte d’appello a fondamento della sua contestata pronuncia, e cioè quella secondo  la quale i gravi difetti dell’edificio, o di altro immobile, che possono dar luogo a responsabilità del costruttore nei confronti del  committente  o dell’acquirente à sensi dell’art. 1669 cod. civ. sono  ravvisabili,  oltre  che  nell’ipotesi  di rovina e di evidente pericolo  di  rovina,  anche in presenza di fatti che, senza influire sulla   stabilità,  pregiudicano  in  modo  grave  la  funzione  cui l’immobile è destinato e non può dubitarsi che fra i gravi difetti, rilevanti    sotto  il  profilo  considerato,  debbano  essere  fatti rientrare anche quelli inerenti alla realizzazione della copertura di un  fabbricato  – terrazza o tetto – che determinino non esigue e non contenute    infiltrazioni   d’acqua  e  di  umidità  negli  alloggi sottostanti  (cfr.,  in  proposito, Cass. Sez. II civ., sent. n. 2431 dell’8.4.1986)”).
La non applicabilità, al caso di specie, dell’art.1669 c.c. non comporta, tuttavia, l’integrale rigetto della domanda che ben può essere esaminata sotto altro aspetto e, cioè, sotto il profilo dell’applicabilità del generale principio codificato dall’art.2043 c.c. Né tale indagine è preclusa dalla circostanza che nell’atto di citazione gli attori hanno espressamente richiamato l’art.1669 c.c. ovvero che hanno indicato la causa dei danni al proprio immobile in vizi delle condotte idriche. Infatti, per un verso il Giudice non può ritenersi vincolato dalla qualificazione giuridica della pretesa fatta valere in giudizio così come effettuata dall’attore e, per altro verso, non può ritenersi che l’individuazione di una causa efficiente del danno precluda al danneggiato di ottenere il ristoro del pregiudizio subito se, all’esito del giudizio ed in particolare degli accertamenti tecnici disposti nel corso dello stesso, emerge un diverso fattore causativo di quello stesso danno di cui si chiede il risarcimento, sempre che ciò non determini rilevanti riflessi sulla disciplina processuale e sostanziale della fattispecie dedotta in giudizio.
Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, non vi è astratta incompatibilità tra l’ipotesi speciale di responsabilità di cui all’art.1669 c.c. e quella più generale prevista dall’art.2043 c.c. : “La    giurisprudenza   di  questa  Corte  ha   ravvisato   nella responsabilità   prevista  dall’art.  1669   c.c.,   nonostante   la collocazione   di  questa  disposizione  normativa  nell’ambito   del contratto    di    appalto,    una   ipotesi    di    responsabilità extracontrattuale, essendo tale norma diretta a tutelare l’interesse, di  carattere generale, alla conservazione e alla funzionalità degli edifici  e  degli altri immobili destinati, per loro natura,  ad  una lunga  durata  (in tal senso v., da ultimo, la sentenza  28  novembre 1998  n.  12106). Tale azione di responsabilità è stata,  pertanto, estesa  anche  al  di  fuori del contratto di  appalto  ed  è  stata riconosciuta   anche  a  favore  dell’acquirente  dell’immobile   nei confronti del venditore-costruttore (V., di recente, Cass. 5  ottobre 1998 n.9853). L’esistenza   di questa ipotesi speciale di responsabilità  non fa,   però,  venire  meno  l’applicabilità  della  norma   generale dell’art.2043  c.c.  rispetto agli eventi  indicati  nell’art.  1669, almeno  nei  casi  in  cui  non ricorrano le condizioni  previste  da quest’ultima  norma.  La  natura  di norma  speciale  dell’art.  1669 rispetto all’art.2043 (qualche volta affermata da questa Corte: v. la sentenza  9 gennaio 1990 n. 8) presuppone l’astratta possibilità  di applicazione  delle due norme, onde, una volta che la norma  speciale non  possa  essere  in  concreto applicata, permane  l’applicabilità della norma generale” (Cass. civ., sez. III, 7 aprile 1999, n.3338).
È necessario, poi, che nel caso concreto, ritenuta l’astratta applicabilità della previsione generale in materia di illecito extracontrattuale, ne sussistano tutti i presupposti. In particolare, il danneggiato non potrà fruire della presunzione iuris tantum di responsabilità dell’appaltatore-venditore (Cass. civ., sez. I, 6 dicembre 2000, n.15488), ma dovrà provare rigorosamente il nesso eziologico tra i danni e la condotta dell’asserito danneggiante e la sussistenza, in capo a questo, del requisito soggettivo del dolo ovvero della colpa.
Orbene, nel caso di specie non vi è dubbio che sia ascrivibile alla condotta colposa del convenuto C. il fatto generatore dei danni riportati in C.T.U. sub A.1) e A.2), in quanto il consulente di ufficio ing. A. ha evidenziato che le infiltrazioni di acqua all’interno dell’appartamento attoreo sono state causate dalla assoluta assenza di chiusura delle fughe tra i blocchi di conglomerato cementizio facciavista. Tale omissione è senz’altro attribuibile alla condotta colposa del costruttore dell’immobile, atteso che non si è verificato il meno di un elemento costruttivo in origine esistente ma la sua omessa collocazione, sicché l’acqua piovana ha potuto penetrare all’interno dell’abitazione e, nel tempo, produrre i danni di cui alla relazione di consulenza. A conforto di tale assunto vi è che il C.T.U. ha riscontrato la descritta deficienza in più punti dell’abitazione e proprio in posizione esposta all’azione degli agenti atmosferici.
A conclusioni diverse deve giungersi con riguardo ai fenomeni descritti sub A.3), in quanto giudicati accidentali, e a quelli di cui alla lettera A.4).
Per ciò che attiene a questi ultimi, dagli atti del giudizio è emerso che la realizzazione delle tubazioni idriche è stata realizzata dai convenuti D. C. e L. (cfr. fatture versate in atti dal C.), cui il C. aveva appaltato i lavori relativi, ciò che non è stato oggetto di contestazione tra le parti.
Tale circostanza era stata portata a conoscenza degli attori prima della instaurazione del presente giudizio (cfr. missiva inviata all’avv. T. dal procuratore del convenuto) i quali, tuttavia, hanno omesso di spiegare alcuna domanda nei loro confronti.
Per pacifica giurisprudenza, nel caso di danni cagionati a terzi dall’appaltatore non può essere chiamato a rispondere il committente, se non in presenza di particolari circostanze: “l’appaltatore è di regola l’unico responsabile dei danni derivati  a terzi  dall’esecuzione delle opere appaltate. A  connotare  l’operato dell’appaltatore   è   l’autonomia  gestionale   del   rischio   con riferimento  all’assetto organizzativo dell’impresa, alla  scelta  ed all’utilizzo  dei  mezzi  ritenuti necessari  ed  alle  modalità  di esecuzione  dell’opera commissionata. L’autonomia e  la  libertà  di gestione  dell’appaltatore – che si obbliga verso  il  committente  a fornirgli  il risultato della sua opera – comportano che  il  rischio inerente  alla  cosa  oggetto delle opere  appaltate  si  sposta  dal committente all’assuntore dell’esecuzione dell'”opus”, con inapplicabilità  della responsabilità del committente  ex  articolo 2049  c.c. Inoltre, durante tutto il tempo dell’esecuzione dell’opera e  fino  alla  consegna all’appaltante, il dovere di  custodia  e  di vigilanza   sulla   cosa   da  consegnare   passa   dal   committente all’appaltatore il quale è tenuto sia ad impedire che  la  cosa  sia distrutta o si deteriori, sia a rispettare il principio del  “neminem laedere”,   ossia  evitare  di  arrecare  danni  a  terzi   a   causa dell’esecuzione dell’opera commissionata. È pertanto  da  escludere, in  relazione  ai  danni  arrecati a  terzi  nel  corso  ed  a  causa dell’esecuzione dei lavori, una responsabilità anche del committente non  potendo questi controllare le modalità dell’organizzazione  che si è data l’impresa appaltatrice. Il potere di vigilanza e controllo che,  all’interno  del  contratto di  appalto,  il  committente  può esercitare  nel  proprio interesse, è irrilevante  sul  piano  della “responsabilità  extracontrattuale derivante  dall’esecuzione  delle opere  commissionate.  Men  che meno, avuto  riguardo  alla  ripetuta autonomia della posizione dell’appaltatore, è ipotizzabile un dovere del  committente di cooperare materialmente all’esecuzione del lavoro dato  in  appalto.  L’appaltatore deve  quindi  di  regola  ritenersi l’unico  responsabile  dei danni derivanti a terzi  dalla  esecuzione dell’opera, salva la corresponsabilità del committente  in  caso  di specifiche violazioni di regole di cautela nascenti ex articolo  2043 c.c.  ovvero  in caso di una riferibilità dell’evento al committente stesso  per “culpa in eligendo” per essere stata affidata l’opera  ad un’impresa  assolutamente inidonea, ovvero quando  l’appaltatore,  in base  ai  patti  contrattuali, sia stato un semplice esecutore  degli ordini  del  committente ed abbia agito quale  “nudus  minister”  del committente  medesimo attuandone specifiche direttive, ovvero  ancora quando  il  committente si sia fattualmente ingerito  nell’esecuzione del   lavoro   materialmente   cooperando  all’impresa   appaltatrice palesemente  priva  delle necessarie capacità e dei  mezzi  tecnici, indispensabili  per  eseguire la prestazione, senza  il  pericolo  di arrecare danni a terzi. La corresponsabilità del committente verso i terzi  non  può  essere fatta discendere dalla mancata  sorveglianza dell’attività dell’appaltatore risultata dannosa e dalla  negligenza consistita nel non aver impedito le conseguenze pregiudizievoli dalla stessa   derivabili:  l’appaltatore,  infatti,  è  ed  agisce   come imprenditore  autonomo (nei sensi suddetti, tra  le  tante,  sentenze 20/11/1997  n.  11566;  29/10/1997  n.  10652;  12/2/1997  n.   1284; 30/5/1996 n. 5007)” (Cass. civ., sez. II, 26 giugno 2000, n.8686). Più recentemente, la Suprema Corte ha ribadito che “la responsabilità propria dell’appaltatore, in relazione allo speciale contenuto delle obbligazioni nascenti a suo carico dal contratto di appalto, sussiste anche nell’ipotesi in cui la sua sfera di autonomia e discrezionalità venga limitata dal controllo e dall’ingerenza del committente e dalle istruzioni dal medesimo impartite, direttamente o tramite il direttore dei lavori, tale sfera di autonomia dovendosi ritenere esclusa solo nel caso in cui ingerenza e istruzioni abbiano una continuità ed analicità tali da elidere, nell’esecutore, ogni facoltà di vaglio, di guisa che il rapporto di appalto si trasforma, ipso facto, in un rapporto di lavoro subordinato. Pertanto l’autonomia e la responsabilità dell’appaltatore nell’esecuzione dell’opera non vengono meno per il solo fatto che egli abbia ottemperato a specifiche richieste o a direttive del committente, sia perché tale circostanza non è idonea a trasformarlo in nudus minister di quest’ultimo, sia perché egli, comunque, non è tenuto a seguire supinamente direttive, che importino lesione di diritti assoluti dei terzi, ai quali non può opporre di aver cagionato il danno nell’esecuzione degli obblighi contrattuali assunti verso il committente” (Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2002 n.1154).
Nel caso di specie non è stata offerta alcuna prova circa l’ingerenza spiegata dal C. nell’attività svolta da D. C. e L., tale da trasferire sullo stesso le conseguenze pregiudievoli dei comportamenti tenuti da questi ultimi.
Neppure può ritenersi che in virtù dell’applicazione al caso di specie della norma generale di cui all’art.2043 c.c. possa trovare applicazione il principio sancito dall’art.1669 c.c. nella sua interpretazione giurisprudenziale, che consente l’azione diretta nei confronti del venditore-costruttore, proprio perché la norma in oggetto, avendo natura speciale ed essendo circoscritta a particolari vizi dell’opera, non enuclea un principio generale in grado di derogare al principio in base al quale del danno deve rispondere colui che lo ha commesso.
Quanto alla determinazione dell’ammontare dei danni, si può procedere dalla quantificazione effettuata dal C.T.U. escludendo le voci risarcitorie relative alle piastrelle ed alla parete A.3).
Poiché il consulente ha, poi, unitariamente considerato i danni alle tre pareti, mentre deve essere risarcito solo quello a due di esse, dall’ammontare relativo dovrà essere detratto un terzo dell’importo, sicché  il convenuto C. dovrà pagare in favore degli attori la somma di € 2.217,631.
Costituendo espressione di un debito di valore, le suddette somme devono essere rivalutate all’attualità – con decorrenza dalla data di espletamento della consulenza tecnica d’ufficio (27 gennaio 1999) – sulla base dell’indice I.S.T.A.T. relativo ai prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2000, n.6682).
Oltre alla rivalutazione del credito, già riconosciuta, è stato chiesto anche il riconoscimento degli interessi sul credito, con decorrenza dalla data della domanda.
Tale questione deve essere valutata alla luce dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza, a Sezioni Unite, n.1712 del 17.2.1995.
Tale sentenza, infatti, da un lato, richiamando il combinato disposto degli artt. 2056 e 1223 c.c., riconosce in caso di ristoro per equivalente del danno da fatto illecito la risarcibilità del danno derivante da ritardo e dunque dal mancato godimento dell’equivalente monetario del bene perduto (lucro cessante) “per tutto il tempo che intercorre fra il fatto e la sua liquidazione”, danno liquidabile anche con l’attribuzione di interessi, e, dall’altro, esclude che si possa assumere a base del calcolo di tale danno la somma liquidata come capitale nella misura rivalutata definitivamente al momento della pronuncia, dovendo calcolarsi gli interessi sulla somma rivalutata di anno in anno ovvero calcolando indici medi di rivalutazione.
In conformità al combinato disposto degli artt.2056, 1223, 1226 e 1227 c.c., il danno da ritardo in materia di responsabilità da fatto illecito non è presunto ex lege (non essendo applicabile, come precisato dalla Suprema Corte nella citata sentenza, l’art. 1224 I comma c.c.), ma deve essere allegato e provato facendo ricorso anche e soltanto a presunzioni semplici ed al criterio equitativo di cui all’art. 2056, comma 2, c.c.
Orbene, per la esiguità delle somme dovute ed in relazione alla mancata allegazione di elementi di fatto da cui desumere un impiego delle somme de quo diverso da quello diretto alla riparazione dell’immobile di cui gli attori sono proprietari non ritiene il Tribunale di riconoscere l’interesse richiesto.
Per quanto attiene, poi, al periodo intercorrente tra la data della presente sentenza e la data dell’effettivo pagamento, sul totale delle somme sopra liquidate dovranno essere corrisposti, per effetto della pronuncia di liquidazione del danno che attribuisce al quantum dovuto natura di debito di valuta, in applicazione dell’art. 1282 c.c.,  gli interessi annui al tasso legale.
Le somme così liquidate dovranno gravare per intero su A. C. poiché, in relazione alla specifica natura della causa dei danni, alcuna responsabilità esclusiva o concorrente può ravvisarsi in capo ai convenuti che hanno solo provveduto alla realizzazione dei lavori relativi alle tubazione e nei confronti dei quali non è stata spiegata alcuna domanda dagli attori danneggiati.
Sussistono giusti motivi e d’equità per compensare le spese di lite nella misura di due terzi tra gli attori e il convenuto C., mentre per ciò che attiene alle altre parti, le spese medesime verranno interamente compensate.


P.Q.M.


Il Giudice unico di Trani, sezione di Andria, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta da M. Q. e L. P., con atto di citazione notificato in data 27 maggio 1996 nei confronti di A. C., nonché sulla domanda proposta da Antonio Carbone con citazione notificata il 25 ottobre 1996 nei confronti di V. D. C. e R. L., rigettata ogni altra istanza, così dispone:
Accoglie parzialmente la domanda e per l’effetto condanna A. C. al pagamento in favore di M. Q. e L. P. della somma complessiva di € 2.217,631 da rivalutarsi all’attualità con decorrenza dal 27 gennaio 1999 , sulla base dell’indice I.S.T.A.T. relativo ai prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo soddisfo;
Compensa le spese di lite tra A. C. e M. Q. e L. P. nella misura dei due terzi, ivi comprese le spese di C.T.U.; condanna A. C. al pagamento in favore di M. Q. e L. P. delle spese residue che liquida in complessivi € 1.208,67, di cui € 292,67 per spese, € 416,00 per diritti ed € 500,00 per onorari di avvocato, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore anticipatario.
Dichiara interamente compensate le spese tra le altre parti.
così deciso in Andria, addì 20 dicembre  2002.


   Il Giudice
       Dott. Paolo RIZZI