REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 IL TRIBUNALE DI TRANI
SEZIONE DI ANDRIA


In Persona del Giudice Unico, dr Paolo Rizzi, ha pronunziato la presente


SENTENZA


 nella causa civile iscritta al numero 10187 del registro generale per gli affari contenziosi dell’anno 2000 posta in deliberazione all’udienza del 9 luglio 2004, con contestuale concessione alle parti dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica scaduti l’11 novembre 2004 e vertente


TRA


A. G., elett.te domiciliato in Andria, via “omissis”, presso lo studio dell’avv. G. D. R. che lo rappresenta e difende, come da procura a margine dell’atto di citazione;attore


E


S. R. M. A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elett.te domiciliato in Andria, via “omissis”, presso lo studio dell’avv. A. C. , rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Spina come da procura in calce alla copia notificata dell’atto di citazione;CONVENUTA


OGGETTO: indennizzo da furto.


CONCLUSIONI
 All’udienza del 9 luglio 2004 così i procuratori delle parti hanno precisato le rispettive conclusioni:
per l’attore “precisa le proprie conclusioni richiamando quelle già rassegnate nell’atto di citazione, condannando la R. M. A. S.p.A. al risarcimento dei danni nella misura richiesta in citazione o in quell’altra che l’ill.mo Giudice adito riterrà di giustizia oltre le spese, competenze legali ed interessi sulla somma liquidanda nonché svalutazione monetaria”;
per la convenuta “previa revoca dell’ordinanza resa in data 1.10.2002 e conseguente dichiarazione di nullità dell’attività istruttoria svolta all’udienza del 7/3/03, ribadita ogni disattesa richiesta ed eccezione istruttoria formulata nel corso del giudizio ed, in particolare, dopo l’ordinanza dell’1.10.02 nella memoria del 20/2/03, disattesa ogni eventuale ulteriore richiesta istruttoria formulata da controparte, dichiarare nullo il contratto assicurativo de quo, per inesistenza del rischio; in subordine, riconoscere all’attore esclusivamente le somme ritenute di giustizia, sulla scorta dell’effettivo valore commerciale del veicolo alla data del sinistro, al netto delle franchigie e scoperti previsti in polizza; condannare l’attore al pagamento delle spese del giudizio”.


SVOLGIMENTO  DEL  PROCESSO


Con citazione notificata a mezzo posta il 24 marzo 2000 A. G. ha convenuto in giudizio la R. M. A. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, esponendo che: esso istante ha assicurato presso la convenuta la propria autovettura Honda Civic tg. (omissis) per il valore di lire 10.000.000, con scoperto del 10%, contro il rischio di furto ed incendio; in data 29 dicembre 1998 l’auto è stata rubata e non più ritrovata e la convenuta, benché richiesta, non ha provveduto alla corresponsione di quanto dovuto all’assicurato secondo la polizza richiamata né ha provveduto alla nomina di un proprio perito per l’esperimento dell’arbitrato irrituale previsto.
Tutto ciò premesso ha concluso chiedendo: “dichiarare essa compagnia di A. R. M. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, inadempiente nei confronti dell’attore, relativamente al contratto di assicurazione tra gli stessi stipulato e specificatamente alla parte relativa al risarcimento danni da furto. 2) Condannare essa Compagnia R. M. A. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, al risarcimento dei danni, in virtù della summenzionata polizza di Ass.ni, in pro dell’attore, nella misura di lire 9.000.000 e/o in quell’altra minore di giustizia, oltre gli interessi legali dal dì del furto all’effettivo soddisfo ed alla svalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT. 3) Con vittoria di spese e competenze di causa, in favore del sottoscritto Procuratore anticipatario”.
Si è costituita in giudizio depositando rituale comparsa la R. M. A. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, contestano la domanda attrice e chiedendone il rigetto.
Ha dedotto che la vettura per cui è causa, immatricolata per la prima volta nel 1992, il 20 marzo 1998 rimase coinvolta in un sinistro riportando danni materiali per complessive lire 16.526.784, iva compresa, tanto che la proprietaria I. S.r.L. cedette il relitto ad un commerciante di Pesaro che, a sua volta, lo rivendette a tale A. D. F. il quale lo trasferì al G.
Ha soggiunto che l’attore non ha provveduto a trasmetterle la documentazione comprovante l’avvenuta riparazione del mezzo, pur richiesta, sicché il contratto di assicurazione deve ritenersi nullo per l’inesistenza del rischio al momento della sua assunzione.
Quindi, ha eccepito che l’auto de quo al momento del furto aveva un valore commerciale di lire 9.700.000 e che a causa del sinistro in cui era rimasta coinvolta aveva un valore certamente inferiore a quello proprio di veicoli non sinistrati ed in medie condizioni di uso e manutenzione.
Ha chiesto: “dichiarare nullo il contratto di assicurazione de quo intercorso inter partes in data 9/11/98 stante l’inesistenza del rischio assicurato; in subordine, con salvezza del diritto di impugnazione per il mancato accoglimento dell’istanza principale, dichiarare dovuta all’attore soltanto la somma inferiore, rispetto al valore commerciale di quel tipo di autoveicolo a fine dicembre 98, ritenuta di giustizia e detrarre da detta somma la franchigia contrattuale del 10% con un minimo di £. 500.000; regolare il pagamento delle spese processuali secondo il principio della soccombenza”.
La causa è stata istruita con l’interrogatorio formale dell’attore, prova testimoniale e produzioni documentali.
È stata disposta ex officio l’assunzione del teste A. D. F. e, all’udienza del 9 luglio 2004, la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti con contestuale assegnazione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.


MOTIVI DELLA DECISIONE


Preliminarmente deve essere revocata l’ordinanza depositata in data 2 ottobre 2002, ammissiva ex artt. 257 e 281 ter c.p.c. della prova testimoniale di A. D. F. quale persona a conoscenza dei fatti di causa indicata dal teste D. G. e dall’attore nel corso del proprio interrogatorio formale. 
L’esercizio del potere ufficioso in oggetto, infatti, pur avendo natura discrezionale non può che essere esercitato in coerenza con i principi che innervano il processo civile e che ne costituiscono l’impianto, offrendosi quale mezzo di interpretazione delle varie disposizioni in cui esso si articola.
In effetti, non può sfuggire all’interprete che vige nel nostro sistema, quale principio cardine, il principio della disponibilità delle prove, codificato dall’art. 115 c.p.c., in forza del quale “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero. Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.
Ciò sta a significare che il legislatore ha inteso stabilire, coerentemente con l’impostazione di fondo del processo civile come processo di parti, che le prove sulla cui scorta il Giudice dovrà decidere sono acquisite al giudizio su iniziativa delle parti, al fine di salvaguardare la terzietà del giudice rispetto ad esse di recente solennemente ribadite dalla recente riformulazione dell’art. 111 Cost., ad eccezione di casi espressamente contemplati dalle disposizioni del codice di rito in cui anche il Giudice può intervenire nell’acquisizione delle prove, nell’esercizio di un potere discrezionale.
Questo potere è espressamente previsto e tipizzato, mediante una elencazione tassativa (cfr. Cass. Civ., sez. II, 5 aprile 1993, n. 4071) dagli artt. 257, 281 ter (recentemente introdotto dall’art. 68 d. lg. n. 51/1998, riproduttivo del testo dell’abrogato art. 317), e 421 c.p.c.
È evidente che perché possa ritenersi correttamente utilizzato il potere di cui alle disposizioni in esame questo deve risultare coerente con il menzionato principio cardine della disponibilità delle prove, di cui costituisce deroga, al fine di non snaturare il senso stesso del processo civile mediante l’introduzione di elementi di carattere inquisitorio che attribuirebbero al Giudice un potere autonomo di iniziativa nella ricerca delle fonti materiali di prova.
Questi principi rinvengono anche dall’interpretazione del disposto di cui all’art. 281 ter c.p.c. offerta autorevolmente dalla Corte Costituzionale, secondo cui il corretto esercizio da parte del Giudice del potere officioso di cui all’art. 281 ter c.p.c. non può mai tradursi nel superamento delle decadenze istruttorie in cui siano incorse le parti e, pertanto, deve essere esercitato non oltre i limiti della fase istruttoria al fine di non incorrere nella censura di costituzionalità (Corte Costituzionale, ordinanza 12-14 marzo 2003 n. 69, in Guida al diritto del Sole 24 Ore, 12 aprile 2003, n. 14, pagg. 64 ss.).
La ratio dell’intervento dei Giudici della Consulta risiede nella considerazione che la norma in esame si “risolve pur sempre in una eccezione al principio della disponibilità delle prove” e che la sua applicabilità dopo il maturarsi delle preclusioni istruttorie “vulnererebbe il principio di parità delle armi in causa, mai potendo il potere officioso del giudice risolversi in un mezzo per aggirare, in favore di una parte ed in danno dell’altra, gli effetti del maturarsi delle preclusioni” (ordinanza citata).
Conseguentemente, poiché il provvedimento che ha disposto la prova a mezzo del teste D. F. è stato pronunciato nel corso dell’attività istruttoria, allorché erano già maturate le preclusioni istruttorie ed in relazione ad una persona ed a fatti che la parte attrice ben conosceva prima della formulazione dei mezzi istruttori, esso provvedimento deve essere revocato sicché non dovrà tenersi conto della deposizione resa dal teste in oggetto.
Per le medesime ragioni deve essere confermato il rigetto dell’istanza di assunzione quale teste di tale V. L., indicato dall’attore in sede di interrogatorio formale quale persona informata sul furto dell’auto.
Considerazioni del tutto analoghe devono essere svolte anche con riferimento al disposto di cui all’art. 257 c.p.c. che aveva comunque giustificato il provvedimento di ammissione della prova de quo.
Infatti, al fine di non vulnerare il principio della disponibilità delle prove l’ammissione del teste di riferimento può essere coerentemente disposta dal Giudice in un contesto probatorio composto dagli elementi di giudizio già ritualmente offerti dalle parti, sicché il teste di riferimento verrebbe ad integrare il materiale probatorio già raccolto e non già ad introdurre fatti del tutto nuovi.
Qualora così non fosse sarebbe il Giudice a contribuire alla formazione della prova di un fatto costitutivo del diritto azionato in giudizio – ovvero di una eccezione del convenuto – sostituendosi del tutto alla parte al cui impulso il legislatore ha inteso rimettere l’attività diretta ad introdurre gli elementi del giudizio.
L’esattezza di tale ricostruzione sistematica dell’istituto in oggetto può trarsi dalla giurisprudenza (Cass. Civ., 24 aprile 1964, n. 1004) e dalla dottrina che ritengono che la testimonianza di riferimento non può esorbitare dai limiti del riferimento stesso, e cioè non può estendersi a fatti diversi da quelli che, su riferimento del teste già ammesso, abbiano determinato l’assunzione di nuovi testimoni, sicché è necessario che la parte che ha interesse alla dimostrazione di un determinato fatto abbia già richiesto l’ammissione di una prova testimoniale su di esso e che il teste, nel corso dell’escussione, ha indicato anche terze persone a conoscenza di tale medesimo e specifico fatto.
Nel caso di specie, osserva il Tribunale che detta corrispondenza non vi è in realtà stata.
Infatti, il teste D. G., alla cui escussione è stato delegato il Tribunale di Urbino, si è limitato a riferire che l’autovettura assicurata dalla R. M., ceduta in un primo momento “ad un commerciante di auto, tale L. S.” è stata poi trasferita ad A. D. F.
Di talché l’unica circostanza su cui il teste di riferimento avrebbe dovuto essere chiamato a deporre ai sensi dell’art. 257 c.p.c. era quella del passaggio di proprietà del veicolo e non già anche quella dell’avvenuta riparazione dello stesso e della cessione per l’importo di lire 10.000.000 in favore dell’attore, a cui il cennato teste G. non ha fatto alcun riferimento.
Ciò posto, nel merito la domanda è infondata e deve essere rigettata.
Infatti, l’attore, soprattutto a fronte delle eccezioni sollevate dalla convenuta sin dalla comparsa di costituzione e risposta, non ha compiutamente provato l’avvenuto furto della vettura assicurata, integra e funzionante.
Al contrario, è pacifico che il G. ha provveduto ad assicurare un relitto, ovvero un veicolo gravemente incidentato, dichirandone tuttavia il valore commerciale di lire 10.000.000, asseritamene corrispondente al prezzo di acquisito dello stesso.
Tanto, in particolare, emerge dalle dichiarazioni, di valore confessorio, rese dallo stesso in sede di interrogatorio formale assunto all’udienza del 1 ottobre 2002: “ho assicurato l’autovettura prima ancora che venisse riparata da A. D. F.”.
Inoltre, che l’auto fosse incidentata emerge dalla deposizione testimoniale di D. G. – che ha confermato la relativa circostanza di prova articolata dalla R. M. – nonché dalla dichiarazione di vendita del mezzo dalla I. S.r.L. ad A. D. F. per l’importo di lire 1.000.000, ovvero di un valore grandemente inferiore a quello di mercato della vettura usata ma in normale stato d’uso e manutenzione (che può essere rilevato dalla copia della rivista “Quattroruote” allegata dalla convenuta al proprio fascicolo di parte come documento n. 4), nonché dalla documentazione inerente il sinistro in cui la Honda Civic dell’attore era rimasta coinvolta in data 20 marzo 1998, riportando notevoli danni (cfr. fascicolo di parte convenuta, allegati nn. 5 e ss.).
Ne consegue che, indipendentemente dall’avvenuta riparazione del bene assicurato, legittimamente la compagnia di assicurazioni ha rifiutato il pagamento dell’indennizzo, a prescindere dalla eccezione ex art. 1892 c.c., pure per la assoluta incertezza circa l’effettiva sussistenza e consistenza del bene assicurato.
A fronte di tale eccezione, l’attore ha omesso di provare compiutamente di avere provveduto a ripristinare la vettura, pur gravando su di esso il relativo onere ex art. 2697 c.c. e non ha allegato alcun apprezzabile elemento di giudizio al fine di stabilire all’esito di tale riparazione quale era il suo valore.
Detta lacuna probatoria – che rende la domanda indimostrata – a ben vedere non può essere colmata neppure a volere ritenere utilizzabili le dichiarazioni rese dal teste D. F.,  atteso che costui si è genericamente limitato a riferire di avere riparato il mezzo “in economia”, comprando i pezzi dove capitava, ciò che in assenza di ulteriori elementi non consente di stabilire, neppure in via equitativa, il valore commerciale della vettura oggetto del contratto di assicurazione.
È di tutta evidenza che la evidenziata lacuna neppure avrebbe potuto essere colmata attraverso la C.T.U., pure invocata dall’attore, la cui funzione è solo quella di valutare, sul piano tecnico, gli elementi ritualmente introdotti in giudizio dalle parti e non già nel sostituirsi ad esse nella ricerca di essi (Cass. Civ., sez. III, 6 giugno 2003, n. 9060).
Per quanto concerne la domanda di nullità del contratto assicurativo formulata dalla R. M., essa se qualificata come vera e propria domanda riconvenzionale deve essere dichiarata inammissibile atteso che la comparsa di costituzione e risposta che la contiene è stata depositata in Cancelleria in data 24 maggio 2000, ovvero oltre il termine decadenziale stabilito dal combinato disposto degli artt. 166 e 167, comma 2 c.p.c., in considerazione del fatto che l’udienza di comparizione delle parti si è celebrata in data 9 giugno 2000.
Qualora, invece, debba essere qualificata come eccezione riconvenzionale, diretta cioè a contrastare la pretesa attorea (Cass. Civ., sez. I, 16 luglio 2004, n. 13159), essa è stata valutata con riferimento alla disamina della domanda attrice.
le particolarità di talune questioni giuridiche trattate integra i giusti motivi per compensare le spese tra le parti nella misura di un terzo, mentre le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.


P.Q.M.


Il Giudice unico di Trani, sezione di Andria, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta da A. G. con atto di citazione notificato a mezzo posta il 24 marzo 2000 nei confronti della R. M. A. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rigettata ogni diversa istanza, così provvede:
Rigetta la domanda;
Compensa le spese di lite nella misura di un terzo e condanna A. G. alla rifusione delle spese residue in favore della R. M. A. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, che liquida in complessivi € 1.980,00 di cui € 130,00 per spese, € 750,00 per diritti ed € 1.100,00 per onorari di avvocato, oltre accessori di legge;
così deciso in Andria, addì 10 dicembre 2004.


                  Il Giudice
Dr Paolo RIZZI