Complessità e sistema penale
1. Una «parte della parte speciale» può costituire una frazione del codice ovvero dell’immenso universo delle «leggi penali speciali» (DONINI, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato “costituente” per la riforma del codice, in La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, a cura di Id., Padova, 2000, p. 3). Se una «parte della parte speciale» è pensata come frammento del codice prevarrà la prospettiva della codificazione; altrimenti quella della decodificazione.
In ogni caso, «è la visione dell’unità che sorregge il tutto e che permette una conoscenza del particolare. Di questo non si può avere conoscenza se si prescinde dal significato dell’intero» (TROMBETTA, La semplicità della legge tra codice e sistema, Bari, 2003, p. 89). Le «leggi penali speciali», infatti, non sono concepibili «se non come un settore dell’ordinamento penale complessivo in tutto e per tutto soggetto ai suoi principi generali» (Problemi di tecnica legislativa, in Comportamenti economici e diritto penale, Atti del Convegno di Milano, 17 marzo 1978, a cura di Id., Milano, 1979, 23).
Per tale ragione la scelta tra codificazione e decodificazione richiede una «presa di posizione» sul ruolo che il codice e le leggi penali speciali possono/devono occupare nel sistema penale. Se il codice fosse l’unica sede possibile della razionalità penalistica, proseguire la ricerca in una direzione diversa sarebbe un esercizio sterile. Se l’unica via del ritorno alla «coerenza assiologica» fosse il ritorno al codice sarebbe improduttivo cercare risultati battendo un sentiero diverso; ma davvero – occorre domandarsi – esistono insuperabili argomenti che impongono di identificare tutto il diritto penale con il codice ?
E’ pressoché inutile avvertire che un tema così vasto e complesso in questa sede non può essere adeguatamente sviluppato; meglio, quindi, dare subito spazio all’opzione che condurrà la ricerca, assumendo come già acquisito il dibattito dal quale essa sgorga e nel quale si inserisce (Rinvio per approfondimenti a LOSAPPIO, La riforma del diritto penale. Codice e leggi penali speciali. «Critica rimozionale» «Codificazione» «Policentrismo», in Ind. pen., 2003, pp. 109 – 145; ID. Riforma e codificazione del diritto penale dell’economia, in www.trani-ius.it; ID., Il sottosistema nel diritto penale. Definizioni e ridefinizione, in corso di pubblicazione su Ind. pen., 2/2004).
2. «Pensare il molteplice» è «una massima e un imperativo che si vanno rivelando col tempo sempre più chiaramente dotati di un insostituibile valore euristico» (DE FRANCESCO G.A., Internazionalizzazione del diritto penale: verso un equilibrio di molteplici sistemi penali, in Dir. pen. proc., 2003, p. 9); anche nel diritto penale la moltiplicazione delle modalità d’intervento settoriali tende a moltiplicare le situazioni ritagliate sulle caratteristiche dei singoli problemi. Nella contemporaneità – scrivono i filosofi – le differenze si accumulano; si incrina la pretesa, cara all’illuminismo, di ordinare la realtà secondo una razionalità unitaria. Le «logiche si pluralizzano» (RESTA, L’osservazione del diritto, in Diritto giurisprudenziale, a cura di Bessone, Torino, 1996, pp. 49 e 72); i codici si relativizzano aprendosi al reciproco confronto o sovrapponendosi (VAN DE KERCHOVE, OST, Le droit ou le paradoxes du jeu, 1992, trad. it., Milano, 1994, p. 3). La legge – ivi compresa la legge per eccellenza, il codice – «un tempo misura esclusiva di tutte le cose nel campo del diritto» – cede il passo alla Costituzione e diventa esso stesso «oggetto di misurazione»; ma anche la «misura» della Costituzione non assicura più la forza unificante che era espressa dalla legge. L’unico valore «semplice» è dunque quello del contemperamento necessario; l’unico contenuto che non si presta ad essere «integrato» in altri e più comprensivi significati «è quello della necessaria coesistenza dei contenuti» stessi. Per il resto, la «coesistenza di valori e principî», sulla quale, necessariamente, una Costituzione oggi si deve fondare per non rendersi rinunciataria rispetto alle sue prestazioni di unità e integrazione e, al contempo, non incompatibile con la sua base materiale pluralista, «richiede che ciascuno di tali valori e tali principî sia assunto in una valenza non assoluta, compatibile con quelli con i quali deve convivere»; oggi, infatti, ciascun «grande tema» del diritto costituzionale «è caratterizzato strutturalmente dalla presenza di elementi costitutivi che, per poter coesistere, devono essere relativizzati». Ciò posto, dato che il problema dei limiti del diritto penale è «un grande tema» del diritto costituzionale, anche il nucleo «intrinseco» del «sistema» penale, nonostante la pregnanza delle prestazioni che dovrebbe soddisfare, non può non essere relativamente debole; anche i principi e i valori del sistema penale «devono essere tenuti sotto controllo per evitare che assolutizzandosi diventino tiranni» (G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge. Diritti. Giustizia, Torino, 1992, pp. 48, 37, 11, 16, 171. Il legislatore, il giudice, la dottrina devono conciliare «principi» ancora «forti» con «criteri» deboli; «valori» «deboli» e «valori» «forti» (che oggi sono concordi e domani magari saranno disnomici) in lotta con altri «principi»/«criteri»; anche i problemi, nei quali il problema penale si articola, hanno a che fare, dunque, con «bilanciamenti fra interessi importanti, in tensione fra loro, alla ricerca di punti d’equilibrio problematici, instabili soggetti alla verifica d’esperienza e a diverse concezioni dei valori in gioco» (PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del codice penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 5).
Si tratta di ammettere, cioè, che «l’assetto della futura parte speciale del codice, nonché il rapporto tra codificazione e legislazione speciale, dovrebbero essere complessivamente guidati non già dal consueto “catalogo” di principi costituzionali in materia penale, ma dalla ferma consapevolezza di un ordine di priorità tra tali principi. E’ l’ordinamento di questi ultimi, la loro reciproca gerarchia, non il piatto ossequio tributato a tutti e ciascuno a imprimere, al contempo, forma e sostanza a un progetto di riforma, a rispecchiarne l’identità giuridica e culturale» (FORTI, La riforma del codice penale nella spirale dell’insicurezza: i difficili equilibri tra parte generale e parte speciale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 68): un sistema «policentrico» in luogo del classico sistema «monocentrico» (IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1979, p. 24).
3. In questo contesto codificazione e decodificazione cessano di rappresentare i «naturali controlimiti» l’una dell’altra; «leggi penali speciali» e decodificazione diventano manifestazioni complementari del passaggio dal semplice al complesso. Le «leggi penali speciali», infatti, non possono essere considerate più gli «effimeri episodi» di una storia destinata a concludersi con il ritorno al diritto penale del codice; nè la decodificazione può essere trattata come un fenomeno transeunte, una febbre passeggera del sistema; la decodificazione non è più il controcanto stonato di un codice che non interpreta più il ruolo di solista ma resta pur sempre protagonista del sistema.
Se così è il ritorno al codice solo in astratto resta la «soluzione ottimale»; in concreto, può non essere la strategia più efficace per dare voce alle ragioni della sistematicità impresse nel logos del diritto penale.
«Nella complessità dell’odierna società civile, unitarietà di funzioni e monolitismo di modelli di tutela – è stato incisivamente osservato – non sembrano essere i mezzi migliori per assicurare al diritto penale un’esistenza al riparo da acute contraddizioni, se non da vere e proprie crisi di legittimazione» (PALAZZO, Riflettendo su trasformazioni e proiezioni nel diritto penale degli anni novanta, in Il diritto penale alla svolta di fine millennio, Atti del convegno in ricordo di Franco Bricola, Bologna, 18 – 20 maggio 1995, a cura di Canestrari, Torino, 1998, p. 115; ID., A proposito di codice penale e leggi speciali, in Quest. Giust., 1991, p. 310)).
4. Il «diritto penale – e non un ramo diverso dell’ordinamento – …deve bere sino in fondo il calice della modernità, senza rinchiudersi a riccio per respingere ogni sfida che ponga in crisi vecchi e nuovi “ontologismi” penali» (MILITELLO, Dogmatica penale e politica criminale in prospettiva europea, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 432)
E’ forse l’unico percorso possibile del penalista che voglia condividere il «disagio della modernità», affrontando quel che in essa «c’è di grande…e insieme…di vacuo o di pericoloso» (TAYLOR, The malaise of Modernity, 1991, trad. it., Bari, Roma, 1994, p. 140); ma il «vecchio» che declina, se rende più forte l’esigenza di una «nuova» e «precisa» «metodologia», «capace di persuadere interiormente, grazie a teorie pensate sino in fondo, senza farsi forti della risolutezza autoritaria con cui se ne è enunciata la verità» (WÜRTENBERGER, Die geistige Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, 1959, trad. it., Milano, 1965, p. 13), evoca al tempo stesso le lusinghe dell’«infondatamente moderno» (K. ENGISCH, Einfürung in das juristische Denken, 1968, trad. it., Milano, 1970, p. 255 (ma l’espressione citata è di K. Jaspers)): «…una caratteristica , e talvolta un difetto, delle scienze della cultura è quella di sforzarsi continuamente di “aggiornare il linguaggio”, dimenticandosi del vecchio che ritorna e non saperlo cogliere sotto le vesti dell’apparente novità». Eppure non bisogna dimenticare, i vizi dell’«infondatamente antico», spesso legati al condizionamento che il principio di autorità esercita nella scienza penalistica (come in tutte le scienze fondate sulla tra – ditio).
L’autorevolezza è certezza – una condizione essenziale del logos penalistico – per la quale i cultori della materia si dispongono ad importanti sacrifici. Il «nuovo» mette in crisi il «vecchio», ma il «vecchio» resiste perché il «nuovo» è costitutivamente fragile, propone una «verità» «debole», che non fonda risposte rassicuranti. La verità «forte» ma falsificata del vecchio resiste tenacemente al «nuovo». Il sistema «forte» si pensa coerente, giusto, utile: giusto/coerente, utile è solo il modello classico; ingiusto/incoerente è un sistema che pretende di forzare il modello classico pur di accedere alla «tutela delle vittime dello sviluppo economico e tecnologico – scientifico» (F. STELLA,Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2001, p. 9). «Vero» è solo il «vecchio» «diritto penale classico»; il «nuovo», in realtà, non è diritto penale; è perversione del diritto penale
Esiste come legge, ma come diritto è ingiusto; è solo un’immagine distorta dell’essere che lungi dal falsificare il «vecchio» lo convalida.
Negare i contraccolpi sulla struttura dell’illecito dei passaggi dalla «genealogia dei concetti» alla giurisprudenza degli interessi e da questa alle Costituzioni dei valori significa – è stato replicato – coltivare «un’ottica fondamentalmente idealistica ed astratta», «autorassicurante»; cedere alla «tentazione…di limitarsi ad esprimere critiche radicali nei confronti di quelle innovazioni legislative…che sembrano più sconvolgere o sovvertire assunti teorici o di valore che si vorrebbero definitivamente acquisiti»; rinunciare ad un «atteggiamento concretamente e realisticamente propositivo» (FIANDACA, Il sistema penale tra utopia e disincanto, in Il diritto penale alla svolta di fine millennio, p. 53)
Un esempio di questo atteggiamento è appunto rappresentato dall’identificazione del kernstrafrecht con il diritto penale liberale, basata sulla identificazione, storicamente inconsistente, con il modello classico, ovvero, con la contrapposizione dialettica tra la codificazione, quale deposito dei delitti naturali, e leggi penali extracodicistiche (WELZEL, Der Verbotsirrtum im Nebenstrafrecht, in JZ, 1956, p. 240).
5. Così sospesa tra i rischi della tradizione e dell’innovazione, nel breve periodo, la via per recuperare una certa funzionalità al diritto penale può essere «lo sforzo teso a ridurre le incompatibilità più stridenti»: una prospettiva «non unitaria, ma policentrica» per uscire, con una mappa di settori o sotto – sistemi tra loro comunicanti, dai «sentieri interrotti» che attraversano la «bidonville» delle «leggi penali speciali» (FIANDACA, Relazione introduttiva, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Atti del Convegno di Firenze, 19 – 20 Novembre 1993, Padova, 1995, p. 38; ID., Controllo di razionalità e legislazione penale, in Diritto penale, controllo di razionalità e garanzie del cittadino, Atti del XX Congresso nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Verona, 3 – 5 ottobre 1996, a cura di Basciu, Padova, 1998, p. 173; PADOVANI, Il progetto Grosso lungo il cammino della riforma del codice penale, in Un nuovo progetto di codice penale: dagli auspici alla realizzazione ?, p. 49).
«Un sistema complesso, percorso da politiche sanzionatorie così disomogenee, ben difficilmente riesce a preservare, sempre e comunque, la propria armonia d’insieme, rivelandosi cedevole a variabili, anche politiche, contingenti, emergenziali, in guisa da rendere la coerenza epistemologica come una aspirazione, una ambizione, piuttosto che come premessa e meno che mai come obiettivo certo e raggiungibile. La uniformità dei risultati rappresenta, così, null’altro se non una linea di tendenza, un auspicio, ma non anche il portato di una premessa gnoseologica, al di là della quale si staglia la complessità del dibattito, invano proteso a rivelare una unità interna, una tela di relazioni che riannodi tutte le norme o un ramo di esse. Inseguire una ansiosa coerenza sistematrice, intesa a ricercare, a tutti i costi, la coerenza del sistema per individuare costanti categoriali, equivarrebbe, d’altronde, ad imporre una forzosa, e soltanto fittizia, trama logica, piuttosto che il suo riconoscimento e la sua esposizione. Piegare, in definitiva, la realtà complessa e mutevole, all’interno di rigidi schemi classificatori, densi di eccezioni o deroghe normative, vissute come insopportabili elementi di disturbo, da passare sotto silenzio, o citare fra parentesi. Neppure, però, ciò può o deve indurre a credere alla esistenza di una sorta di sortilegio del sistema, così da tentare di liberarsi da esso, quasi che rappresenti un macigno sulla via della retta comprensione del diritto»: la fatica, «non la dannazione di un sistema» sembra essere l’unica opzione resa possibile da un «ordinamento che non è certamente mono – sistematico, ma che non può neppure intendersi come a – sistematico» (MUSCATIELLO, Pluralità e unità di reati. Per una microfisica del molteplice, Padova, 2002, p. 312).
6. Per proseguire nella faticosa ricerca di «relazioni interne» tra le parti del sistema ed il sistema senza indulgere al «furor systematicus» (PETTOELLO MANTOVANI, Il valore problematico della scienza penalistica. 1961 – 1983. Contro dogmi ed empirismi, Milano, 1983, p. 92), delle soluzioni «infondatamente vecchie», ovvero alla resa al disordine, dell’«infondatamente moderno», è necessario fare ricorso al modello della «unidualità»: due logiche, due nature che si incontrano e si fondono senza che le rispettive unità si dissolvano; i rispettivi vincoli logici e strutturali restano; l’obiettivo non è superarli ma fonderli per dare luogo ad una nuova unità diversa da ciascuna delle due unità di partenza; la matrice del sistema (principi/criteri/valori) resta così impresso nelle sue parti. E’ assiomatico, infatti, che le informazioni extrapenali che filtrano nella tipicità assumano nel nuovo contesto della tipicità penale un significato autonomo.
Salvare le «differenze come identità» significa «obbligarsi costantemente a preservare…strutture universalistiche capaci di poter dire sempre l’ultima parola sulla propria differenza» (RESTA, L’osservazione del diritto, in Diritto giurisprudenziale, a cura di Bessone, Torino, 1996, pp. 63, 73, 75). Emerge la principale costante teleologica della dialettica codificazione/decodificazione: la ricerca di un punto di equilibrio tra legge penale e legge speciale madre, autonomia e sanzionarietà, tipicità e antigiuridicità.
7. Per tale ragione suscitano perplessità le letture del sottosistema che sacrificano sull’altare delle teorie funzionalistiche del diritto la dimensione strutturale del «penale» e, più o meno esplicitamente, ridisegnano le aperture del relativo sistema oltre il limite che la Costituzione sembrerebbe consentire. Non a caso, l’autore più esplicitamente (e provocatoriamente) disponibile nei confronti del «policentrismo» avverte, rispetto a queste opzioni, la «difficoltà di bilanciare la prospettiva funzionale con quella garantista» (FIANDACA, E. MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 43) Ciò posto, poco interessa ai fini della nostra riflessione stabilire se davvero, nell’analisi di Luhmann, «il significato ovvero la validità di qualsiasi valutazione sia condizionato dalla…funzione concreta che si tratta di realizzare» (ALEO, La problematica dell’organizzazione e il contributo dell’analisi funzionalistica, Torino, 1997, p. 8).
Rileva, piuttosto, che l’interdipendenza senza limiti dei significati annichilisce l’autonomia del diritto penale, riproponendo in termini nuovi l’antica concezione sanzionatoria del diritto penale.
Prof. Giuseppe Losappio