1957

All’inizio fu lo Sputnik. Gli ufficiali più gallonati del Pentagono vissero il 4 ottobre 1957 come uno dei giorni peggiori della loro vita: l’Unione Sovietica aveva messo in orbita, battendoli sul tempo, il primo satellite artificiale della storia. Uno smacco inammissibile che denunciava un progresso tecnologico preoccupante. Per tutta risposta l’Amministrazione statunitense creò sollecitamente l’Advanced Research Projects Agency (ARPA), una struttura interna al Dipartimento della Difesa, con l’intenzione esplicita di ristabilire il primato americano nelle scienze applicate al settore militare. I frutti imprevisti di quella scommessa bellica li godono oggi oltre 40 milioni di persone di tutto il mondo. Un risultato perverso – rispetto alla logica originaria – e mirabolante, che ha sta rivoluzionando il modo di comunicare probabilmente tanto quanto solo l’invenzione dei caratteri mobili di Gutenberg nel 1438 era riuscita a fare: Internet.

Anni ’60

Il satellite russo aveva rovinato il sonno a molti responsabili della Difesa americana, popolando le loro notti di incubi crescenti: “Oggi lo Sputnik, e domani?” era l’interrogativo angoscioso. Le migliori teste d’uovo della Rand Corporation, il più avanzato think-tank americano ai tempi della guerra fredda, presero così ad arrovellarsi su un’incognita apocalittica: “Come avrebbero potuto, i centri nevralgici del Paese, comunicare dopo una guerra nucleare?” La domanda era tragica e grottesca allo stesso tempo: “d’altronde – si diceva – per qaunto si corazzasse una rete di comunicazione tradizionale, i suoi commutatori e i suoi cavi sarebbero stati sempre vulnerabili a un attacco atomico. Il centro di quel sistema sarebbe diventato immediatamente il bersaglio strategico principale dei nemici che, colpendolo, avrebbero messo in ginocchio irreparabilmente la nazione”.


1962

Fu Paul Baran, una delle intelligenze più aguzze del centro studi, ad azzardare una risposta in un report dal titolo “On Distributed Communications Networks”: innanzitutto la rete non doveva avere alcuna autorità centrale e avrebbe dovuto essere concepita, sin dall’inizio, in modo da operare in un contesto di instabilità. Perché questo avvenisse era assolutamente necessario che tutti i nodi fossero indipendenti, avessero una pari gerarchia e fossero capaci di originare, passare e ricevere i messaggi. I messaggi a loro volta sarebbero stati scomposti in pacchetti opportunamente targati per non perdersi lungo la via e ogni pacchetto separatamente indirizzato verso la propria destinazione. Soltanto una volta raggiunta la meta finale i diversi moduli sarebbero stati finalmente ricomposti. La strada da percorrere era una loro scelta, suggerita da una serie di computer appositamente programmati per monitorare tutti gli snodi e incanalare i dati lungo le vie più sgombre e sicure. Se per qualsiasi motivo si fosse verificato un blocco lungo una della arterie della rete, il pacchetto sarebbe stato immediatamente re-indirizzato per una strada meno accidentata. Riassumendo con una metafora di Bruce Sterling “Fondamentalmente il pacchetto sarebbe stato scaricato come una patata bollente da un nodo all’altro, più o meno in direzione della sua destinazione finale, sino a quando non avesse raggiunto la sua giusta meta. Questo sistema di consegna piuttosto azzardato può certamente essere definito “inefficiente” nell’accezione classica di questo termine (specialmente se confrontato, ad esempio, al sistema telefonico) ma è di certo estremamente resistente”.

Quest’idea eccentrica di una rete polverizzata e a prova di bomba si fa strada nei corridoi delle più nobili comunità scientifiche. Nel 1965 ARPA sponsorizza un primo studio sui “cooperative network of time-sharing computers”. L’eco della prima eresia di Baran rimbalza nel vecchio continente. Nei National Physical Laboratory del Middlesex, Inghilterra, non perdono un minuto e mettono su NPL Data Network, basata su questi principi (1967).
All’Arpa non hanno assolutamente intenzione di essere battuti in volata da chichessia, e il Pentagono stanzia somme importanti per una sperimentazione su larga scala (1968).

Il primo nodo (con computer Honeywell 516 con 12K di memoria a controllare il flusso dei dati: mostri di potenza per l’epoca) è istallato presso la UCLA nell’autunno 1969, dove il laureando Vinton Cerf (considerato dai più il padre legittimo di Internet) frequentava con profitto i corsi di computer science. A dicembre diventano quattro, per poi continuare a crescere senza sosta sino al numero attuale. L’embrione della Rete come la conosciamo oggi è nato e il suo nome di battesimo non fa sfoggio di fantasia: Arpanet. I quattro computer possono trasferire dati su linee dedicate ad alta velocità; possono anche essere programmati a distanza dagli altri nodi. Scienziati e ricercatori esultano: si apre per loro una nuova era di condivisione di progetti e scoperte, impensabile sino al giorno prima. Ben presto però la fisica quantistica e le dissertazioni sui superconduttori faranno spazio anche alle chiacchiere personali e alla varia umanità: ogni utente ha un proprio account e un indirizzo corrispettivo su Arpanet, è inevitabile quindi che la rete divenga anche un enorme ufficio postale, il primo che regala i francobolli e che recapita le lettere non appena gliele affidate.